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2021-07-17
Bergoglio depenna la messa in latino e crea un’altra frattura in Vaticano
Papa Francesco (Ansa)
La ricreazione è finita, come avevamo anticipato ieri su La Verità. Con il Motu proprio Traditioni custodes di papa Francesco, puntualmente pubblicato ieri, è suonata la campanella per l'altro Motu proprio, il Summorum pontificum di Benedetto XVI del 7 luglio 2007. Chiodo scaccia chiodo, Motu proprio oblitera Motu proprio, e della forma extraordinaria del rito cattolico, la messa celebrata con il messale romano del 1962, non resta praticamente nulla. I libri liturgici post concilio Vaticano II, quelli di Paolo VI e Giovanni Paolo II, recita il nuovo Motu proprio, «sono l'unica espressione della lex orandi del rito romano».
Con un colpo solo sparisce l'asse portante del tentativo fatto con l'altro Motu proprio, quello di Benedetto XVI, di arricchire l'unico rito cattolico con la coesistenza pacifica delle due forme, novus e vetus, ordinaria ed extraordinaria. Qui si consuma tutta la vendetta, se così si può dire, di vescovi e teologi e liturgisti, che hanno fatto opposizione dura e pura alla «riforma della riforma» tentata dal papa emerito, che vedeva nella crisi liturgica la fonte della crisi della fede. Non basterà nemmeno il green pass per assistere alla messa secondo il fu rito extraordinario, la cosiddetta messa in latino, perché d'ora in avanti una tale messa per essere celebrata dovrà avere l'autorizzazione del vescovo diocesano. Di più: se a un novello sacerdote, ordinato dopo la pubblicazione della riforma di ieri, venisse la malaugurata idea di voler celebrare utilizzando il messale pre conciliarie, allora dovrebbe avere l'autorizzazione direttamente dalla Santa Sede. Un esempio poco chiaro di quella valorizzazione delle periferie tanto care al Papa, che in questo caso, invece, pare proprio valorizzare l'autorità del centro.
Al vescovo diocesano viene chiesto anche di indagare sui cosiddetti gruppi stabili che in giro per l'orbe cattolico celebrano sulla base del Summorum pontificum per verificare che «non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici». Peraltro i gruppi esistenti, una volta usciti indenni dall'indagine del vescovo, non potranno celebrare nelle parrocchie, ma solo in altri imprecisati luoghi a discrezione del solito vescovo. E comunque, al contrario di quello che diceva Benedetto XVI, d'ora in avanti il vescovo «avrà cura di non autorizzare la costituzione di nuovi gruppi». E così non si dica che il liberalismo ha fatto breccia nella Chiesa, perché di certo non lo ha fatto nel campo liturgico. Se il green pass per il Covid a qualcuno sembra un obbligo alla vaccinazione malcelato, il Motu proprio di ieri ha il pregio di essere chiaro: questa messa antica è meglio che non si faccia. Al massimo si tollera.
Semmai non si comprende perché una tale chiarezza, che qualcuno nelle sacre stanze definisce «durezza», non sia mai stata riservata agli abusi liturgici nell'uso del messale post conciliare, abusi che vengono sì stigmatizzati anche nel Motu proprio di ieri, ma che mai sono stati sanzionati in questo modo. Esistono i preti che cantano i Ricchi e poveri durante la messa, il canto dell'Alleluia per apprendisti elettricisti, le messe con processioni offertoriali che sembrano la fiera di paese, le preghiere dei fedeli che non si capisce a chi si rivolgono, le musiche rock, pop, beat, folk, tutto questo e molto altro evidentemente non abbisogna di Motu proprio e indagini del pastore diocesano.
Nella lettera ai vescovi del mondo in cui Francesco spiega il suo intervento si comprende che tale diktat si è reso necessario in quanto, dice, «l'intento pastorale dei miei predecessori [Giovanni Paolo II a partire dall'indulto del 1984 e appunto Benedetto XVI con il Summorum pontificum]… è stato spesso gravemente disatteso». Il Papa parla di uso «strumentale» e «distorto» del messale pre conciliare. «Mi rattrista», scrive Francesco, «un uso strumentale del Missale romanum del 1962, sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l'affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la “vera Chiesa"».
In tutto questo si realizza anche un paradosso, perché in queste ore si può dire che hanno di che festeggiare i sacerdoti membri della Fraternità San Pio X, il gruppo fondato dal vescovo francese Marcel Lefebvre nel 1970 soprattutto a difesa della tradizione liturgica, ma anche in aperta polemica e rottura con il Concilio Vaticano II. Ebbene, proprio la Fraternità San Pio X aveva sempre guardato in cagnesco il Summorum pontificum di Benedetto XVI, ritenuto, dal loro punto di vista, un tentativo di scippo della tradizione da parte di Roma per una sua «normalizzazione». Di certo si crea ora una forte spaccatura all'interno della Chiesa, un altro fronte che si apre oltre a quelli già caldissimi in Germania, con il «cammino sinodale» voluto dal cardinale Rehinard Marx e lanciato verso il progresso più liberal, e quello statunitense, dove i vescovi disputano sull'accesso all'eucaristia anche per i politici sedicenti cattolici (tra cui nientedimeno che il presidente Joe Biden) che si fanno promotori di politiche pro choice in campo di vita, famiglia e educazione. Perché aprire un altro fronte?
Prete arrestato per abusi su minori
Concluso da pochi giorni il processo per pedofilia contro don Mauro Galli, ex parroco di Rozzano, nel Milanese, condannato in Appello a 5 anni e 6 mesi per aver abusato sessualmente, nel dicembre 2011, di un ragazzino che all'epoca aveva 15 anni, ed ecco che la diocesi meneghina - la più grande d'Europa - è travolta da un altro scandalo.
Don Emanuele Tempesta, 29 anni, vicario parrocchiale delle parrocchie Santa Geltrude e Santi Salvatore e Margherita di Busto Garolfo, Comune di 14.000 abitanti a nordovest del capoluogo, è stato infatti arrestato su ordine del gip di Busto Arsizio, Luisa Bovitutti: il sacerdote, che ora si trova ai domiciliari, è accusato di abusi sessuali su minori nel periodo che va da febbraio 2020 a maggio 2021. Sette le vittime, di età compresa tra i 7 e gli 11 anni, secondo le indagini coordinate dal pm Flavia Salvatore. Quando gli agenti della Mobile si sono presentati a casa del prete per notificargli l'ordinanza di custodia cautelare, lui è rimasto in silenzio.
L'inchiesta è partita dalle denunce di alcune mamme che avevano notato segni di disagio nei figli, poi ascoltati durante le audizioni protette. Per oggi è fissato l'interrogatorio di garanzia per il sacerdote davanti alla gip. Gli abusi sarebbero avvenuti nella casa del prete, nato a Rho, cresciuto a Cornaredo e trasferitosi a Büst Picul - come si identifica in dialetto Busto Garolfo - dopo l'ordinazione sacerdotale avvenuta nel giugno 2019.
La diocesi di Milano in una nota «prende atto con stupore e dolore di questa notizia e si impegna sin da subito ad approfondire i fatti», assicurando la più completa disponibilità alla collaborazione con l'autorità giudiziaria per accertare la verità, precisando che non è mai giunta né alla Curia, né al vicario di zona e né al parroco di Busto Garolfo, don Ambrogio Colombo, alcuna segnalazione relativa a quanto oggetto dell'indagine.
L'arcivescovo di Milano, Mario Delpini, che ai tempi della vicenda di don Galli era vicario episcopale e venne assai criticato per aver semplicemente spostato da Rozzano a Legnano, ma sempre a contatto con gli adolescenti, il sacerdote oggetto di indagine poi condannato, anche in questo caso non si è sbilanciato, esprimendo «la propria vicinanza alle comunità parrocchiali di Busto Garolfo e in particolare a tutti i soggetti in vario modo coinvolti nella vicenda». Tutti.
«In questo momento volgo l'attenzione alle famiglie e ai bambini e ragazzi che lo frequentavano», dice invece il sindaco del paese, Susanna Biondi. «Non ho mai saputo nulla, non mi sono mai arrivate neppure voci. Sono senza parole».
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Riduci
Come anticipato dalla «Verità», il rito antico dovrà essere autorizzato dal vescovo.Prete arrestato per abusi sui minori. È don Emanuele Tempesta, vicario parrocchiale a Busto Garolfo, nel Milanese. Sette le vittime, tra i 7 e gli 11 anni. L'arcivescovo Mario Delpini: «Vicino a tutti i soggetti coinvolti nella vicenda».Lo speciale contiene due articoli.La ricreazione è finita, come avevamo anticipato ieri su La Verità. Con il Motu proprio Traditioni custodes di papa Francesco, puntualmente pubblicato ieri, è suonata la campanella per l'altro Motu proprio, il Summorum pontificum di Benedetto XVI del 7 luglio 2007. Chiodo scaccia chiodo, Motu proprio oblitera Motu proprio, e della forma extraordinaria del rito cattolico, la messa celebrata con il messale romano del 1962, non resta praticamente nulla. I libri liturgici post concilio Vaticano II, quelli di Paolo VI e Giovanni Paolo II, recita il nuovo Motu proprio, «sono l'unica espressione della lex orandi del rito romano».Con un colpo solo sparisce l'asse portante del tentativo fatto con l'altro Motu proprio, quello di Benedetto XVI, di arricchire l'unico rito cattolico con la coesistenza pacifica delle due forme, novus e vetus, ordinaria ed extraordinaria. Qui si consuma tutta la vendetta, se così si può dire, di vescovi e teologi e liturgisti, che hanno fatto opposizione dura e pura alla «riforma della riforma» tentata dal papa emerito, che vedeva nella crisi liturgica la fonte della crisi della fede. Non basterà nemmeno il green pass per assistere alla messa secondo il fu rito extraordinario, la cosiddetta messa in latino, perché d'ora in avanti una tale messa per essere celebrata dovrà avere l'autorizzazione del vescovo diocesano. Di più: se a un novello sacerdote, ordinato dopo la pubblicazione della riforma di ieri, venisse la malaugurata idea di voler celebrare utilizzando il messale pre conciliarie, allora dovrebbe avere l'autorizzazione direttamente dalla Santa Sede. Un esempio poco chiaro di quella valorizzazione delle periferie tanto care al Papa, che in questo caso, invece, pare proprio valorizzare l'autorità del centro. Al vescovo diocesano viene chiesto anche di indagare sui cosiddetti gruppi stabili che in giro per l'orbe cattolico celebrano sulla base del Summorum pontificum per verificare che «non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici». Peraltro i gruppi esistenti, una volta usciti indenni dall'indagine del vescovo, non potranno celebrare nelle parrocchie, ma solo in altri imprecisati luoghi a discrezione del solito vescovo. E comunque, al contrario di quello che diceva Benedetto XVI, d'ora in avanti il vescovo «avrà cura di non autorizzare la costituzione di nuovi gruppi». E così non si dica che il liberalismo ha fatto breccia nella Chiesa, perché di certo non lo ha fatto nel campo liturgico. Se il green pass per il Covid a qualcuno sembra un obbligo alla vaccinazione malcelato, il Motu proprio di ieri ha il pregio di essere chiaro: questa messa antica è meglio che non si faccia. Al massimo si tollera. Semmai non si comprende perché una tale chiarezza, che qualcuno nelle sacre stanze definisce «durezza», non sia mai stata riservata agli abusi liturgici nell'uso del messale post conciliare, abusi che vengono sì stigmatizzati anche nel Motu proprio di ieri, ma che mai sono stati sanzionati in questo modo. Esistono i preti che cantano i Ricchi e poveri durante la messa, il canto dell'Alleluia per apprendisti elettricisti, le messe con processioni offertoriali che sembrano la fiera di paese, le preghiere dei fedeli che non si capisce a chi si rivolgono, le musiche rock, pop, beat, folk, tutto questo e molto altro evidentemente non abbisogna di Motu proprio e indagini del pastore diocesano.Nella lettera ai vescovi del mondo in cui Francesco spiega il suo intervento si comprende che tale diktat si è reso necessario in quanto, dice, «l'intento pastorale dei miei predecessori [Giovanni Paolo II a partire dall'indulto del 1984 e appunto Benedetto XVI con il Summorum pontificum]… è stato spesso gravemente disatteso». Il Papa parla di uso «strumentale» e «distorto» del messale pre conciliare. «Mi rattrista», scrive Francesco, «un uso strumentale del Missale romanum del 1962, sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l'affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la “vera Chiesa"». In tutto questo si realizza anche un paradosso, perché in queste ore si può dire che hanno di che festeggiare i sacerdoti membri della Fraternità San Pio X, il gruppo fondato dal vescovo francese Marcel Lefebvre nel 1970 soprattutto a difesa della tradizione liturgica, ma anche in aperta polemica e rottura con il Concilio Vaticano II. Ebbene, proprio la Fraternità San Pio X aveva sempre guardato in cagnesco il Summorum pontificum di Benedetto XVI, ritenuto, dal loro punto di vista, un tentativo di scippo della tradizione da parte di Roma per una sua «normalizzazione». Di certo si crea ora una forte spaccatura all'interno della Chiesa, un altro fronte che si apre oltre a quelli già caldissimi in Germania, con il «cammino sinodale» voluto dal cardinale Rehinard Marx e lanciato verso il progresso più liberal, e quello statunitense, dove i vescovi disputano sull'accesso all'eucaristia anche per i politici sedicenti cattolici (tra cui nientedimeno che il presidente Joe Biden) che si fanno promotori di politiche pro choice in campo di vita, famiglia e educazione. 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Don Emanuele Tempesta, 29 anni, vicario parrocchiale delle parrocchie Santa Geltrude e Santi Salvatore e Margherita di Busto Garolfo, Comune di 14.000 abitanti a nordovest del capoluogo, è stato infatti arrestato su ordine del gip di Busto Arsizio, Luisa Bovitutti: il sacerdote, che ora si trova ai domiciliari, è accusato di abusi sessuali su minori nel periodo che va da febbraio 2020 a maggio 2021. Sette le vittime, di età compresa tra i 7 e gli 11 anni, secondo le indagini coordinate dal pm Flavia Salvatore. Quando gli agenti della Mobile si sono presentati a casa del prete per notificargli l'ordinanza di custodia cautelare, lui è rimasto in silenzio. L'inchiesta è partita dalle denunce di alcune mamme che avevano notato segni di disagio nei figli, poi ascoltati durante le audizioni protette. Per oggi è fissato l'interrogatorio di garanzia per il sacerdote davanti alla gip. Gli abusi sarebbero avvenuti nella casa del prete, nato a Rho, cresciuto a Cornaredo e trasferitosi a Büst Picul - come si identifica in dialetto Busto Garolfo - dopo l'ordinazione sacerdotale avvenuta nel giugno 2019. La diocesi di Milano in una nota «prende atto con stupore e dolore di questa notizia e si impegna sin da subito ad approfondire i fatti», assicurando la più completa disponibilità alla collaborazione con l'autorità giudiziaria per accertare la verità, precisando che non è mai giunta né alla Curia, né al vicario di zona e né al parroco di Busto Garolfo, don Ambrogio Colombo, alcuna segnalazione relativa a quanto oggetto dell'indagine. L'arcivescovo di Milano, Mario Delpini, che ai tempi della vicenda di don Galli era vicario episcopale e venne assai criticato per aver semplicemente spostato da Rozzano a Legnano, ma sempre a contatto con gli adolescenti, il sacerdote oggetto di indagine poi condannato, anche in questo caso non si è sbilanciato, esprimendo «la propria vicinanza alle comunità parrocchiali di Busto Garolfo e in particolare a tutti i soggetti in vario modo coinvolti nella vicenda». Tutti. «In questo momento volgo l'attenzione alle famiglie e ai bambini e ragazzi che lo frequentavano», dice invece il sindaco del paese, Susanna Biondi. «Non ho mai saputo nulla, non mi sono mai arrivate neppure voci. Sono senza parole».
Nel riquadro, l'attivista Blm Tashella Sheri Amore Dickerson (Ansa)
Tashella Sheri Amore Dickerson, 52 anni, storica leader di Black lives matter a Oklaoma City è stata accusata da un Gran giurì federale di frode telematica e riciclaggio di denaro. Secondo i risultati di un’indagine condotta dall’Fbi di Oklahoma City e dall’Irs-Criminal Investigation e affidata procuratori aggiunti degli Stati Uniti Matt Dillon e Jessica L. Perry, Dickerson si sarebbe appropriata di oltre 3 milioni di dollari di fondi raccolti e destinati al pagamento delle cauzioni degli attivisti arrestati e li avrebbe investiti in immobili e spesi per vacanze e spese personali. Il 3 dicembre 2025, un Gran giurì federale ha emesso nei confronti dell’attivista un atto d’accusa di 25 capi, di cui 20 di frode telematica e cinque di riciclaggio di denaro. Per ogni accusa di frode telematica, Dickerson rischia fino a 20 anni di carcere federale e una multa fino a 250.000 dollari. Per ogni accusa di riciclaggio di denaro, l’attivista rischia fino a dieci anni di carcere e una multa fino a 250.000 dollari o il doppio dell’importo della proprietà di derivazione penale coinvolta nella transazione. Secondo gli inquirenti, a partire almeno dal 2016, Dickerson è stata direttore esecutivo di Black lives matter Okc (Blmokc). Grazie a quel ruolo Dickerson aveva accesso ai conti bancari, PayPal e Cash App di Blmokc.
L’atto d’accusa, la cui sintesi è stata resa nota dalle autorità federali, sostiene che, sebbene Blmokc non fosse un’organizzazione esente da imposte registrata ai sensi della sezione 501(c)(3) dell’Internal revenue code (la legge tributaria federale americana), accettava donazioni di beneficenza attraverso la sua affiliazione con l’Alliance for global justice (Afgj), con sede in Arizona. L’Afgj fungeva da sponsor fiscale per Blmokc, alla quale imponeva di utilizzare i suoi fondi solo nei limiti consentiti dalla sezione 501(c)(3). L’Afgj richiedeva inoltre a Blmokc di rendere conto, su richiesta, dell’erogazione di tutti i fondi ricevuti e vietava a Blmokc di utilizzare i suoi fondi per acquistare immobili senza il consenso dell’Afgj.
A partire dalla tarda primavera del 2020, Blmokc ha raccolto fondi per sostenere la sua presunta missione di giustizia sociale da donatori online e da fondi nazionali per le cauzioni. In totale, Blmokc ha raccolto oltre 5,6 milioni di dollari, inclusi finanziamenti da fondi nazionali per le cauzioni, tra cui il Community Justice Exchange, il Massachusetts Bail Fund e il Minnesota Freedom Fund. La maggior parte di questi fondi è stata indirizzata a Blmokc tramite Afgj, in qualità di sponsor fiscale.
Secondo l’atto d’accusa, il Blmokc avrebbe dovuto utilizzare queste sovvenzioni del fondo nazionale per le cauzioni per pagare la cauzione preventiva per le persone arrestate in relazione alle proteste per la giustizia razziale dopo la morte di George Floyd. Quando i fondi per le cauzioni venivano restituiti al Blmokc, i fondi nazionali per le cauzioni talvolta consentivano al Blmokc di trattenere tutto o parte del finanziamento della sovvenzione per istituire un fondo rotativo per le cauzioni, o per la missione di giustizia sociale del Blmokc, come consentito dalla Sezione 501(c)(3).
Nonostante lo scopo dichiarato del denaro raccolto e i termini e le condizioni delle sovvenzioni, l’atto d’accusa sostiene che a partire da giugno 2020 e almeno fino a ottobre 2025, Dickerson si è appropriata di fondi dai conti di Blmokc a proprio vantaggio personale. L’atto d’accusa sostiene che Dickerson abbia depositato almeno 3,15 milioni di dollari in assegni di cauzione restituiti sui suoi conti personali, anziché sui conti di Blmokc. Tra le altre cose, Dickerson avrebbe poi utilizzato questi fondi per pagare: viaggi ricreativi in Giamaica e nella Repubblica Dominicana per sé e i suoi soci; decine di migliaia di dollari in acquisti al dettaglio; almeno 50.000 dollari in consegne di cibo e generi alimentari per sé e i suoi figli; un veicolo personale registrato a suo nome; sei proprietà immobiliari a Oklahoma City intestate a suo nome o a nome di Equity International, Llc, un’entità da lei controllata in esclusiva. L’atto d’accusa sostiene inoltre che Dickerson abbia utilizzato comunicazioni interstatali via cavo per presentare due false relazioni annuali all’Afgj per conto del Blmokc. Dickerson ha dichiarato di aver utilizzato i fondi del Blmokc solo per scopi esenti da imposte. Non ha rivelato di aver utilizzato i fondi per il proprio tornaconto personale.
Tre anni fa una vicenda simile aveva travolto la cofondatrice di Black lives matter Patrisse Cullors, anche lei accusata di aver utilizzato i fondi donati per beneficenza al movimento per pagare incredibili somme di denaro a suo fratello e al padre di suo figlio per vari «servizi». Secondo le ricostruzioni del 2022, Paul Cullors, fratello di Patrisse, ha ricevuto 840.000 dollari sul suo conto corrente per aver presumibilmente fornito servizi di sicurezza al movimento, secondo i documenti fiscali visionati dal New York Post. Nel frattempo, l’organizzazione ha pagato una società di proprietà di Damon Turner, padre del figlio di Patrisse Cullors, quasi 970.000 dollari per aiutare a «produrre eventi dal vivo» e altri «servizi creativi». Notizie che, all’epoca, avevano provocato non pochi malumori, alimentate anche dal fatto che la Cullors si professava marxista e sosteneva di combattere per gli oppressi e le ingiustizie sociali.
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Riduci
Francesca Albanese (Ansa)
Rispetto a due mesi fa, la percentuale degli sfiduciati è cresciuta di 16 punti mentre quella di coloro che si fidano è scesa di 9. Il 42% degli intervistati, maggiorenni e residenti in Italia, dichiara di non conoscere la relatrice pasionaria o di non avere giudizi da esprimere, il che forse è quasi peggio: avvolta dalla sfiducia e dall’indifferenza.
Il 53% degli elettori di centrodestra non si fida dell’Albanese, e questo era un dato diciamo scontato, ma fa riflettere che la giurista irpina abbia perso credibilità per il 47% di coloro che votano Pd. Appena il 34% degli elettori dem oggi si fida della relatrice Onu, sotto sanzioni da parte di Washington e accusata da Israele di ostilità strutturale. La sinistra, dunque, non si limita ad essere in disaccordo al suo interno se rilasciare o meno la cittadinanza onoraria alla pro Pal. Sta dicendo che non la sostiene più.
«I cattivi maestri di sinistra non piacciono agli italiani», ha subito postato su X il partito della premier Giorgia Meloni, che sempre secondo il sondaggio Youtrend sarebbe la più convincente per il 48% degli italiani in un ipotetico dibattito assieme a Giuseppe Conte ed Elly Schlein.
Tramonta dunque l’astro effimero di Albanese, spacciata per l’eroina progressista che condanna la violenza sui palestinesi mentre la giustifica a casa nostra. L’assalto alla redazione della Stampa doveva e deve servire «da monito alla stampa», ha dichiarato la relatrice Onu, confermando la pericolosità del suo attivismo politico.
Eppure ha continuato a essere invitata per esporre le sue idee anti Israele, e non solo. In alcune scuole della Toscana avrebbe «ripetuto i suoi soliti mantra, sostenendo che il governo Meloni sia composto da fascisti e complice di un genocidio, accusando Leonardo di essere una azienda criminale e arrivando persino a incitare gli studenti ad occupare le scuole, di fatto, incitando dei minorenni a commettere reati sanzionati dal codice penale», hanno scritto Matteo Bagnoli capogruppo di Fratelli d’Italia al Comune di Pontedera e Christian Nannipieri responsabile di Gioventù nazionale Pontedera.
La mossa successiva è stata un’interrogazione presentata da Alessandro Amorese, capogruppo di Fdi alla commissione Istruzione della Camera alla quale ha prontamente risposto il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, chiedendo agli organi competenti di avviare una immediata ispezione per verificare quanto accaduto in alcune scuole in Toscana.
Secondo l’interrogazione, anche una classe della seconda media dell’Istituto Comprensivo Massa 6 avrebbe partecipato ad un incontro proposto dalla rete di insegnanti Docenti per Gaza, con Francesca Albanese che esponeva le tematiche del suo libro Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite dalla Palestina.
Non solo, con una nuova circolare inviata alle scuole sul tema manifestazioni ed eventi pubblici all’interno delle istituzioni scolastiche, il ministro ribadisce l’esigenza che la scelta di ospiti e relatori sia «volta a garantire il confronto tra posizioni diverse e pluraliste al fine di consentire agli studenti di acquisire una conoscenza approfondita dei temi trattati e sviluppare il pensiero critico».
Una raccomandazione necessaria, alla luce anche di quanto stanno sostenendo i docenti del liceo Montale di Pontedera che in una nota hanno definito «attività formativa» la presentazione online del libro di Albanese ad alcune classi. «Un’iniziativa organizzata su scala nazionale nell’ambito delle attività di educazione alla cittadinanza globale, come previsto dal curriculum di Educazione civica d’istituto […] nel quadro delle iniziative promosse dalla scuola per favorire la partecipazione democratica, la conoscenza delle istituzioni internazionali e il dialogo tra studenti e professionisti impegnati in contesti globali», scrivono. Senza contraddittorio, le posizioni pro Pal e anti governo Meloni della relatrice Onu non sono «partecipazione democratica».
Incredibilmente, però, due giorni fa la relatrice è comparsa accanto a Tucker Carlson, il giornalista e scrittore tra i creatori dell’universo Maga, che gestisce la Tucker Carlson Network dopo aver lasciato Fox News. Intervistata, ha detto che gli Stati Uniti l’hanno sanzionata a causa del suo dettagliato resoconto sulle politiche genocide di Israele contro i palestinesi. «Una penna, questa è la mia sola arma», si è difesa Albanese raccontando che il suo rapporto con Washington sarebbe cambiato bruscamente dopo che ha iniziato a documentare come le aziende statunitensi non solo stavano consentendo le azioni di Israele a Gaza, ma traendo profitto da esse.
«Tucker sta promuovendo le opinioni di una donna sottoposta a sanzioni da parte degli Stati Uniti per aver preso di mira gli americani», ha protestato su X l’American Israel public affairs committee (Aipac), il più importante gruppo di pressione filo israeliano degli Stati Uniti. Ma c’è anche chi non si sorprende perché Carlson avrebbe cambiato opinione su Israele negli ultimi mesi, criticando l’amministrazione Trump per il supporto incondizionato dato allo Stato ebraico così come fa la sinistra antisionista.
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Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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