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2023-11-30
La fronda a Bergoglio tra i cattolici in America si fa anche col petrolio
Papa Francesco (Ansa)
Le tensioni tra la Santa Sede e la Chiesa statunitense viaggiano anche attraverso la questione climatica. Ieri, Reuters ha pubblicato un’analisi dei rendiconti finanziari di varie diocesi statunitensi, secondo cui queste ultime «detengono milioni di dollari in azioni di società produttrici di combustibili fossili attraverso portafogli destinati a finanziare le operazioni della Chiesa e a pagare gli stipendi del clero. E almeno una dozzina stanno affittando terreni ai trivellatori». Non solo. La Conferenza episcopale statunitense ha riferito alla stessa Reuters di aver, sì, aggiornato le proprie linee guida sugli investimenti socialmente responsabili, ma ha anche negato di aver chiesto disinvestimenti in riferimento al settore delle energie tradizionali. Una posizione che cozza con l’orientamento radicalmente green, dettato da papa Francesco. Ricordiamo che il pontefice aveva originariamente annunciato che avrebbe preso parte di persona alla Cop28 di Dubai: un appuntamento a cui ha tuttavia dovuto rinunciare per motivi di salute («permane l’infiammazione polmonare associata a difficoltà respiratoria», ha precisato ieri la sala stampa vaticana). Inoltre, lo scorso ottobre, il Papa aveva pubblicato l’esortazione apostolica ambientalista Laudate Deum.
Insomma, la questione climatica è soltanto l’ultimo esempio delle tensioni in corso tra il pontefice e i vescovi americani. Cerchiamo di entrare maggiormente nel dettaglio del problema. Un primo motivo di attrito è assai probabilmente di carattere dottrinale. La salvaguardia del creato è indubbiamente doverosa. Si tratta però di un obiettivo da perseguire all’interno di un quadro filosofico e teologico che si armonizzi con la dottrina cristiana. L’odierno orientamento green è invece spesso frutto di visioni filosofiche radicali, oltre che pregne di elementi marxisti e panteistici. Un quadro generale che ha verosimilmente suscitato i malumori di vari vescovi americani. A ottobre 2021, il National Catholic Register pubblicò un’analisi significativamente intitolata: «Il sostegno acritico della Santa Sede alla Cop26 suscita preoccupazione».
In secondo luogo, si scorge un tema geopolitico. La svolta green di Papa Francesco è sempre avvenuta in connessione alla sua politica estera di apertura alla Cina. Il presidente della Cop28, Sultan Al Jaber, intrattiene stretti legami con Pechino: quella stessa Pechino a cui il Papa ha esplicitamente strizzato l’occhio nella Laudate Deum. Lo stesso Al Jaber è stato ricevuto in udienza dal pontefice lo scorso 11 ottobre. Tutto questo sta avvenendo all’ombra del controverso accordo sino-vaticano sulla nomina dei vescovi che, originariamente siglato nel 2018, è stato finora rinnovato due volte nel 2020 e nel 2022. Non è forse un caso che tra i porporati maggiormente critici di tale intesa figurino proprio due statunitensi, come Timothy Dolan e Raymond Burke. E, mentre la distensione tra Santa sede e Cina prosegue, il Papa non esita a lanciare stoccate alla Chiesa statunitense: si pensi solo al recente siluramento del vescovo di Tyler, Joseph Strickland, o alle dure parole riservate dal nunzio apostolico negli Usa, Christophe Pierre, al clero d’Oltreatlantico.
Infine, emerge un dato legato alla politica interna degli Usa. La posizione dei vescovi americani sull’energia tradizionale non sembra discostarsi troppo da quella largamente diffusa nel Partito repubblicano: quest’ultimo esprime storicamente scetticismo verso le rinnovabili e vede nell’autonomia energetica un asset geopolitico da tutelare per evitare la dipendenza da Paesi inaffidabili o potenzialmente ostili. D’altronde, contrari a restrizioni alle energie tradizionali si dicono varie organizzazioni conservatrici d’Oltreatlantico: dalla Heritage Foundation ad Americans for Prosperity (che gravita attorno al miliardario Charles Koch, il quale ha in passato effettuato donazioni alla Catholic University of America). Ora, che papa Francesco non ami il Gop e, in particolare, Donald Trump, non è un mistero. Basti pensare alla campagna elettorale del 2016 o all’enciclica Fratelli tutti, uscita a un mese esatto dalle presidenziali del 2020: in entrambe le occasioni, il pontefice criticò aspramente i «muri», quando l’aspetto centrale del programma di Trump è sempre stato quello della costruzione di un muro al confine con il Messico.
Tuttavia il papa rischia di perdere un alleato sul piano climatico: Joe Biden. Eh sì, perché, nonostante una sbornia green all’inizio della sua presidenza, l’attuale inquilino della Casa Bianca ha in parte corretto il tiro. A marzo, ha dato l’ok a un mega piano di trivellazioni in Alaska: il Willow Project. Inoltre, martedì scorso, la sua amministrazione ha reso noto di aver raccolto 3,4 milioni di dollari dalla vendita dei diritti di estrazione di petrolio e gas nel Wyoming. Lo stesso fatto che Biden non si recherà alla Cop28, quando invece aveva partecipato alle due edizioni precedenti, è significativo.
La sponda principale del Papa nell’attuale Casa Bianca resta l’inviato per il clima, John Kerry, che – guarda caso – è il capofila dell’ala filocinese dell’amministrazione americana. Eppure, nonostante il recente faccia a faccia tra Biden e Xi, sembra che nello studio ovale stia tornando in auge una postura guardinga nei confronti di Pechino. D’altronde, al di là del dossier green, la Casa Bianca e la Santa sede non sembrano esattamente allineate neppure su vari fronti geopolitici: dalla crisi ucraina a quella mediorientale. Segno dunque che la distanza tra Washington e l’attuale pontefice sta aumentando.
«Mr greggio» Koch punta sulla Haley
Il potente network del miliardario Charles Koch, Americans for Prosperity (Afp), ha fatto la sua scelta in vista delle prossime primarie presidenziali repubblicane: appoggerà la candidatura dell’ex ambasciatrice all’Onu, Nikki Haley. A renderlo noto è stata la ceo di Afp, Emily Seidel, che ha anche criticato Donald Trump, sostenendo che l’ex presidente avrebbe danneggiato il Partito repubblicano durante le ultime elezioni e che non sarebbe in grado di conquistare il voto degli «elettori moderati e indipendenti». In particolare Afp metterà a disposizione della candidata la sua capillare rete di attivisti, garantendo anche finanziamenti per spot elettorali e coinvolgendo influenti donatori in suo sostegno.
Ora, che il network di Koch non amasse Trump non è mai stato un mistero. È tuttavia curiosa la sua scelta di sostenere la Haley. Charles Koch asserisce di essere su posizioni libertarian e sposa delle tesi non esattamente interventiste in politica estera. Basti pensare che nel 2019 ha finanziato, insieme al miliardario George Soros, l’avvio del Quincy Institute: un think tank realista e tendenzialmente avverso a un’agenda internazionale proattiva. Non solo. Nel 2018, il network di Koch criticò Trump, allora presidente, per i suoi dazi contro la Cina. Ebbene, va sottolineato che la Haley è molto distante da tutto questo. Innanzitutto l’ex ambasciatrice porta avanti una linea di netta severità nei confronti di Pechino. In secondo luogo, è fautrice di un approccio proattivo in politica estera, assai lontano da quello propugnato dal Quincy Institute. È inoltre difficile definire la Haley una libertarian: anzi, viste le sue idee sul fronte internazionale è assai probabile che gli apparati del Pentagono e del Dipartimento di Stato apprezzino la sua candidatura.
Dal punto di vista ideologico, sarebbe forse stato allora più comprensibile un endorsement a Ron DeSantis: non a caso, il suo comitato elettorale non ha preso affatto bene l’appoggio di Afp alla Haley. E allora che cosa è successo? È successo che, con ogni probabilità, il network di Koch ha compreso che la forza dell’ex ambasciatrice risiede proprio nella sua vicinanza agli apparati. La Haley, almeno per ora, non dispone del consenso elettorale sufficiente per conquistare la nomination repubblicana. E difficilmente riuscirà ad acquisirlo, se Trump resterà in campo.
Secondo la media sondaggistica di Real Clear Politics, a livello nazionale l’ex ambasciatrice è terza al 10%, mentre l’ex presidente è primo al 61%. In Iowa e New Hampshire Trump è inoltre avanti di oltre 20 punti su di lei. Eppure la forza della Haley non sta nel consenso ma, come detto, nella sua vicinanza agli apparati. Non a caso, a settembre Trump ha detto che gli piacerebbe poter scegliere una donna come proprio vice: sia Politico sia Newsweek hanno inoltre riferito di non escludere che l’ex presidente possa alla fine selezionare proprio la Haley per questo ruolo. Una scelta che, in caso, andrebbe letta (anche) come un suo gesto distensivo verso l’alta burocrazia statale: Trump, dopo un mandato alla Casa Bianca, sa bene di non poter governare, se questi mondi gli remano contro.
Probabilmente Koch, la cui fortuna proviene per larga parte dal settore petrolifero, è consapevole che, almeno per il momento, il destino più probabile della Haley per il 2024 sia quello di una vicepresidenza. L’ex ambasciatrice è inoltre l’unica candidata in campo con le maggiori probabilità di ottenere qualcosa di importante, in caso di vittoria repubblicana: è più solida di DeSantis e non ha i problemi giudiziari di Trump. Scommettere su di lei può quindi forse rivelarsi una scelta tutt’altro che irrazionale da parte di Afp.
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Molte diocesi Usa hanno investito nel greggio e non intendono tornare indietro. Ma i vescovi sono altrettanto preoccupati dalle derive panteiste dell’ecologismo. E non vogliono far propria una linea che favorisce la Cina.Il miliardario ha scelto la sua candidata. Vicina alle élites, l’ex ambasciatrice alle Nazioni Unite potrebbe alla fine diventare la vice di Trump alla Casa Bianca. Lo speciale contiene due articoli.Le tensioni tra la Santa Sede e la Chiesa statunitense viaggiano anche attraverso la questione climatica. Ieri, Reuters ha pubblicato un’analisi dei rendiconti finanziari di varie diocesi statunitensi, secondo cui queste ultime «detengono milioni di dollari in azioni di società produttrici di combustibili fossili attraverso portafogli destinati a finanziare le operazioni della Chiesa e a pagare gli stipendi del clero. E almeno una dozzina stanno affittando terreni ai trivellatori». Non solo. La Conferenza episcopale statunitense ha riferito alla stessa Reuters di aver, sì, aggiornato le proprie linee guida sugli investimenti socialmente responsabili, ma ha anche negato di aver chiesto disinvestimenti in riferimento al settore delle energie tradizionali. Una posizione che cozza con l’orientamento radicalmente green, dettato da papa Francesco. Ricordiamo che il pontefice aveva originariamente annunciato che avrebbe preso parte di persona alla Cop28 di Dubai: un appuntamento a cui ha tuttavia dovuto rinunciare per motivi di salute («permane l’infiammazione polmonare associata a difficoltà respiratoria», ha precisato ieri la sala stampa vaticana). Inoltre, lo scorso ottobre, il Papa aveva pubblicato l’esortazione apostolica ambientalista Laudate Deum. Insomma, la questione climatica è soltanto l’ultimo esempio delle tensioni in corso tra il pontefice e i vescovi americani. Cerchiamo di entrare maggiormente nel dettaglio del problema. Un primo motivo di attrito è assai probabilmente di carattere dottrinale. La salvaguardia del creato è indubbiamente doverosa. Si tratta però di un obiettivo da perseguire all’interno di un quadro filosofico e teologico che si armonizzi con la dottrina cristiana. L’odierno orientamento green è invece spesso frutto di visioni filosofiche radicali, oltre che pregne di elementi marxisti e panteistici. Un quadro generale che ha verosimilmente suscitato i malumori di vari vescovi americani. A ottobre 2021, il National Catholic Register pubblicò un’analisi significativamente intitolata: «Il sostegno acritico della Santa Sede alla Cop26 suscita preoccupazione». In secondo luogo, si scorge un tema geopolitico. La svolta green di Papa Francesco è sempre avvenuta in connessione alla sua politica estera di apertura alla Cina. Il presidente della Cop28, Sultan Al Jaber, intrattiene stretti legami con Pechino: quella stessa Pechino a cui il Papa ha esplicitamente strizzato l’occhio nella Laudate Deum. Lo stesso Al Jaber è stato ricevuto in udienza dal pontefice lo scorso 11 ottobre. Tutto questo sta avvenendo all’ombra del controverso accordo sino-vaticano sulla nomina dei vescovi che, originariamente siglato nel 2018, è stato finora rinnovato due volte nel 2020 e nel 2022. Non è forse un caso che tra i porporati maggiormente critici di tale intesa figurino proprio due statunitensi, come Timothy Dolan e Raymond Burke. E, mentre la distensione tra Santa sede e Cina prosegue, il Papa non esita a lanciare stoccate alla Chiesa statunitense: si pensi solo al recente siluramento del vescovo di Tyler, Joseph Strickland, o alle dure parole riservate dal nunzio apostolico negli Usa, Christophe Pierre, al clero d’Oltreatlantico. Infine, emerge un dato legato alla politica interna degli Usa. La posizione dei vescovi americani sull’energia tradizionale non sembra discostarsi troppo da quella largamente diffusa nel Partito repubblicano: quest’ultimo esprime storicamente scetticismo verso le rinnovabili e vede nell’autonomia energetica un asset geopolitico da tutelare per evitare la dipendenza da Paesi inaffidabili o potenzialmente ostili. D’altronde, contrari a restrizioni alle energie tradizionali si dicono varie organizzazioni conservatrici d’Oltreatlantico: dalla Heritage Foundation ad Americans for Prosperity (che gravita attorno al miliardario Charles Koch, il quale ha in passato effettuato donazioni alla Catholic University of America). Ora, che papa Francesco non ami il Gop e, in particolare, Donald Trump, non è un mistero. Basti pensare alla campagna elettorale del 2016 o all’enciclica Fratelli tutti, uscita a un mese esatto dalle presidenziali del 2020: in entrambe le occasioni, il pontefice criticò aspramente i «muri», quando l’aspetto centrale del programma di Trump è sempre stato quello della costruzione di un muro al confine con il Messico. Tuttavia il papa rischia di perdere un alleato sul piano climatico: Joe Biden. Eh sì, perché, nonostante una sbornia green all’inizio della sua presidenza, l’attuale inquilino della Casa Bianca ha in parte corretto il tiro. A marzo, ha dato l’ok a un mega piano di trivellazioni in Alaska: il Willow Project. Inoltre, martedì scorso, la sua amministrazione ha reso noto di aver raccolto 3,4 milioni di dollari dalla vendita dei diritti di estrazione di petrolio e gas nel Wyoming. Lo stesso fatto che Biden non si recherà alla Cop28, quando invece aveva partecipato alle due edizioni precedenti, è significativo. La sponda principale del Papa nell’attuale Casa Bianca resta l’inviato per il clima, John Kerry, che – guarda caso – è il capofila dell’ala filocinese dell’amministrazione americana. Eppure, nonostante il recente faccia a faccia tra Biden e Xi, sembra che nello studio ovale stia tornando in auge una postura guardinga nei confronti di Pechino. D’altronde, al di là del dossier green, la Casa Bianca e la Santa sede non sembrano esattamente allineate neppure su vari fronti geopolitici: dalla crisi ucraina a quella mediorientale. Segno dunque che la distanza tra Washington e l’attuale pontefice sta aumentando. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/bergoglio-cattolici-america-petrolio-2666397035.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="mr-greggio-koch-punta-sulla-haley" data-post-id="2666397035" data-published-at="1701337756" data-use-pagination="False"> «Mr greggio» Koch punta sulla Haley Il potente network del miliardario Charles Koch, Americans for Prosperity (Afp), ha fatto la sua scelta in vista delle prossime primarie presidenziali repubblicane: appoggerà la candidatura dell’ex ambasciatrice all’Onu, Nikki Haley. A renderlo noto è stata la ceo di Afp, Emily Seidel, che ha anche criticato Donald Trump, sostenendo che l’ex presidente avrebbe danneggiato il Partito repubblicano durante le ultime elezioni e che non sarebbe in grado di conquistare il voto degli «elettori moderati e indipendenti». In particolare Afp metterà a disposizione della candidata la sua capillare rete di attivisti, garantendo anche finanziamenti per spot elettorali e coinvolgendo influenti donatori in suo sostegno.Ora, che il network di Koch non amasse Trump non è mai stato un mistero. È tuttavia curiosa la sua scelta di sostenere la Haley. Charles Koch asserisce di essere su posizioni libertarian e sposa delle tesi non esattamente interventiste in politica estera. Basti pensare che nel 2019 ha finanziato, insieme al miliardario George Soros, l’avvio del Quincy Institute: un think tank realista e tendenzialmente avverso a un’agenda internazionale proattiva. Non solo. Nel 2018, il network di Koch criticò Trump, allora presidente, per i suoi dazi contro la Cina. Ebbene, va sottolineato che la Haley è molto distante da tutto questo. Innanzitutto l’ex ambasciatrice porta avanti una linea di netta severità nei confronti di Pechino. In secondo luogo, è fautrice di un approccio proattivo in politica estera, assai lontano da quello propugnato dal Quincy Institute. È inoltre difficile definire la Haley una libertarian: anzi, viste le sue idee sul fronte internazionale è assai probabile che gli apparati del Pentagono e del Dipartimento di Stato apprezzino la sua candidatura.Dal punto di vista ideologico, sarebbe forse stato allora più comprensibile un endorsement a Ron DeSantis: non a caso, il suo comitato elettorale non ha preso affatto bene l’appoggio di Afp alla Haley. E allora che cosa è successo? È successo che, con ogni probabilità, il network di Koch ha compreso che la forza dell’ex ambasciatrice risiede proprio nella sua vicinanza agli apparati. La Haley, almeno per ora, non dispone del consenso elettorale sufficiente per conquistare la nomination repubblicana. E difficilmente riuscirà ad acquisirlo, se Trump resterà in campo.Secondo la media sondaggistica di Real Clear Politics, a livello nazionale l’ex ambasciatrice è terza al 10%, mentre l’ex presidente è primo al 61%. In Iowa e New Hampshire Trump è inoltre avanti di oltre 20 punti su di lei. Eppure la forza della Haley non sta nel consenso ma, come detto, nella sua vicinanza agli apparati. Non a caso, a settembre Trump ha detto che gli piacerebbe poter scegliere una donna come proprio vice: sia Politico sia Newsweek hanno inoltre riferito di non escludere che l’ex presidente possa alla fine selezionare proprio la Haley per questo ruolo. Una scelta che, in caso, andrebbe letta (anche) come un suo gesto distensivo verso l’alta burocrazia statale: Trump, dopo un mandato alla Casa Bianca, sa bene di non poter governare, se questi mondi gli remano contro.Probabilmente Koch, la cui fortuna proviene per larga parte dal settore petrolifero, è consapevole che, almeno per il momento, il destino più probabile della Haley per il 2024 sia quello di una vicepresidenza. L’ex ambasciatrice è inoltre l’unica candidata in campo con le maggiori probabilità di ottenere qualcosa di importante, in caso di vittoria repubblicana: è più solida di DeSantis e non ha i problemi giudiziari di Trump. Scommettere su di lei può quindi forse rivelarsi una scelta tutt’altro che irrazionale da parte di Afp.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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