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2019-07-09
Papa Bergoglio benedice le Ong
Ansa
«Il mio pensiero va agli ultimi che ogni giorno gridano al Signore, chiedendo di essere liberati dai mali che li affliggono». Nel sesto anniversario della sua visita a Lampedusa, papa Francesco identifica gli ultimi e i poveri soprattutto con i migranti. E a loro dedica la messa nella basilica di San Pietro, caratterizzando decisamente il suo pontificato come quello dell'accoglienza «senza se e senza ma» di tutti i profughi d'oltremare. Il Pontefice è categorico: «Sono gli ultimi ingannati e abbandonati a morire nel deserto; sono gli ultimi torturati, abusati e violentati nei campi di detenzione; sono gli ultimi che sfidano le onde di un mare impietoso; sono gli ultimi lasciati in campi di un'accoglienza troppo lunga per essere chiamata temporanea. Essi sono solo alcuni degli ultimi che Gesù ci chiede di amare e rialzare».
Per il Papa sulla Sea Watch gli italiani non esistono. Non le persone, non i cattolici, non gli ammalati, non i disperati, non i vecchi, non i bisognosi, non i dubbiosi, non gli impauriti, non coloro che alzano le mani verso il cielo alla ricerca della verità. Anzi, questi uomini e queste donne hanno un senso solo quando compiono il gesto di abbracciare i profughi. E infatti il Santo Padre ha un pensiero anche per coloro che soccorrono fra le onde: «Gesù benedici i soccorritori nel Mar Mediterraneo, e fa crescere in ciascuno di noi il coraggio della verità e il rispetto per ogni vita umana».
L'omelia è appassionata e il suo significato politico è micidiale. Senza mai nominare Matteo Salvini (non avrebbe avuto senso), Bergoglio demolisce la dialettica sull'argomento più delicato di questa stagione diplomatico-istituzionale e azzera il significato del decreto Sicurezza che un Paese sovrano ha tutto il diritto di varare e far rispettare. Con la sua dolce capacità affabulatoria mette in riga gli elettori: i buoni stanno con le Ong (e con Carola Rackete che forza il blocco e per proprietà transitiva con gli scafisti che per primi mettono in mare i disperati), i cattivi con lo Stato.
Secondo lui non è il momento di avere dubbi né di muovere distinguo perché «sono persone, non si tratta solo di questioni sociali o migratorie. Non si tratta solo di migranti». La parola assume il tono dell'anatema e scava un solco fra chi - pur conoscendo e praticando tutti i giorni in silenzio il principio della solidarietà - rispetta le regole civiche dello Stato laico e chi acriticamente, quasi fideisticamente, sposa quel disastro sociale nel quale si è trasformata l'accoglienza diffusa. L'accelerazione di papa Francesco è forte e avviene nel momento più delicato dell'estate, in un'Italia presa letteralmente di mira dalle navi delle Organizzazioni non governative, con lo scopo di creare l'incidente diplomatico prima ancora che quello di condurre in salvo donne e bambini. Questi ultimi peraltro in quota-parte minima rispetto alla composizione delle squadre di profughi, formate nella quasi totalità da uomini dai 25 ai 30 anni, destinati ad essere respinti o a ciondolare fuori dalle stazioni ferroviarie e nei quartieri già di per sé degradati delle nostre città.
A papa Francesco e ai vertici curiali va bene così. Forse perché sono distanti dalle problematiche del cittadino comune che frequenta le parrocchie. Problematiche di sicurezza, di integrazione, di dignità umana ben presenti invece nelle canoniche, nelle sacrestie, negli oratori gestiti da quel gran numero di sacerdoti silenziosi che rappresentano l'esercito di Dio. Che non hanno diritto di parola e neppure se lo prendono. Però vedono e sanno contare. Vedono i fedeli allontanarsi, vedono le chiese svuotarsi, vedono la rappresentatività istituzionale delle tonache perdere di significato. Si parla solo di migranti, ci si spende solo per i migranti.
Secondo un'inchiesta di Doxa, negli ultimi cinque anni il numero dei cattolici in Italia è sceso del 7,7 per cento, ma dalle parole dei potenti della Chiesa sembra che questo non sia un problema. Forse perché la salvaguardia più importante era quella del business degli aiuti di Stato a chi si occupa dei profughi, crollati dopo le ultime elezioni e il cambio di cocktail governativo. Vero motivo del malumore perenne degli alti prelati. In questo senso, e con ancora più determinazione, arriva in soccorso del Papa un altro gesuita dal granitico piedistallo, il novantenne Bartolomeo Sorge, che dalle colonne di Repubblica ieri ha paragonato il decreto Sicurezza alle leggi razziali fasciste.
«Come le leggi razziali promulgate dal regime fascista nel 1938 furono accolte, anche nella Chiesa, da un clima di indifferenza collettiva salvo poi anni dopo tutti prenderne le distanze, così anche il Sicurezza bis e questa politica di chiusure apprezzati da una parte del Paese, e da alcuni credenti, mostreranno in futuro la propria disumanità. È così che vanno le cose», spiega il teologo, ex direttore di Civiltà Cattolica, molto vicino a Leoluca Orlando nella sua stagione palermitana, tanto da essere inserito da Leonardo Sciascia fra i «professionisti dell'antimafia».
Dopo aver definito Carola Rackete «eroica», padre Sorge spinge la Chiesa politicamente ancora più a sinistra. «Le leggi non sono tutte sbagliate. Così anche le ideologie. Il Sicurezza bis ha una parte di verità: nasce dalla paura della gente che pensa che il proprio Paese venga invaso. Non è così, ma la paura è comprensibile. La furbizia di Salvini è di assolutizzare questa parte di verità a discapito del fatto che nel complesso si tratta di misure disumane». Dimentica di aggiungere che il minor numero di carrette del mare in partenza dalla Libia, per effetto di quelle misure disumane, ha quasi azzerato i morti. Quegli stessi morti per i quali, sei anni fa, papa Francesco pianse a Lampedusa.
Giorgio Gandola
L’élite della mia Chiesa si commuove per gli ultimi solo se non sono italiani
Stefano Semplici, docente di Etica sociale all'Università di Roma «Tor Vergata», nell'edizione di domenica 7, pone un quesito sul giornale vaticano Osservatore Romano, che appare scontato, ovvio ma anche fastidioso: «Esiste o no - in presenza di macroscopiche asimmetrie nella garanzia dei fondamentali diritti economici e sociali - un diritto a forzare la condivisione o anche semplicemente a cercare condizioni e risorse per una vita migliore, entrando con ogni mezzo in altri paesi anche quando non ricorrono le condizioni richieste per lo status di rifugiato?».
Nella lunga filippica il professore arriva ad affermare che «quando si tratta della povertà e della diseguaglianza non vale il limite delle acque territoriali o della zona Sar di competenza» per poi concludere che «c'è un'ingiustizia che grida verso il cielo mentre per gli ultimi la speranza di una via d'uscita è un posto su un barcone».
Belle parole che certamente faranno felice qualche fan del giornale vaticano che nessuno, tra i normali mortali, legge più, ma che ingenerano alibi insostenibili, specie se poi argomentazioni più o meno forbite non vengono fornite quando si parla della povera gente italiana, delle situazioni insostenibili di popolazioni colpite da calamità naturali che vengono sistematicamente dimenticate e mutiliate da burocrazie, tasse e gabelle varie.
Luis Sepulveda, in un interessante volumetto, Il Potere dei sogni, dice di se stesso: «Prima di tutto sono un cittadino e un uomo libero, e poi uno scrittore. Credo che uno sia uomo prima di essere artista o scrittore. Credo che uno sia responsabile prima di essere celebre, credo che uno sia giusto prima di essere famoso, perché in caso contrario l'arte, la celebrità e la fama non sono altro che scuse per sottrarsi ai doveri dell'uomo e del cittadino».
La stessa osservazione dovrebbe valere anche per il nostro professor Semplici, e anche per tutti i cristiani (compresi i membri della gerarchia «ecclesiastica»): prima di tutto essere uomo. Le pratiche religiose, le devozioni, i pistolotti moralistici non possono essere alibi per trascurare il dovere fondamentale di essere uomo e, checché se ne dica, i doveri del cittadino e del rispetto delle leggi.
La fede proclamata ed esibita non può costituire una copertura per sottrarsi agli obblighi di giustizia, onestà, rettitudine, lealtà nei confronti dello Stato, e mi si permetta compreso il rispetto del denaro pubblico.
Esiste una categoria di persone, ed è formata da coloro (anche in abito ecclesiastico) i quali, non avendo mai sentito il puzzo della disperazione, della mancanza di speranza, credono di risolvere i problemi dei poveri regalando loro nuvole di incenso, di false speranze.
Se ai poveracci, ostaggi provenienti dal mediterraneo, non resta che gridare verso il cielo, e come speranza un posto sul barcone, alla nostra povera gente umiliata, indebitata e senza speranza per il futuro dei propri figli che speranza concediamo? Probabilmente, come si è avuto modo di constatare in questi anni rimarrà la dimenticanza e il castigo di essere sempre ultimi…
Ermanno Caccia
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Il Papa schiera Gesù a favore dell'accoglienza «senza se e senza ma», per padre Sorge Carola Rackete «è eroica» e il dl Sicurezza come le leggi razziali. Nell'accresciuto interesse per i profughi c'entra il calo del business?Pistolotti moralistici e prediche di tanti ecclesiastici alimentano false speranze e dimenticano le sofferenze di tanta nostra gente.Lo speciale contiene due articoli«Il mio pensiero va agli ultimi che ogni giorno gridano al Signore, chiedendo di essere liberati dai mali che li affliggono». Nel sesto anniversario della sua visita a Lampedusa, papa Francesco identifica gli ultimi e i poveri soprattutto con i migranti. E a loro dedica la messa nella basilica di San Pietro, caratterizzando decisamente il suo pontificato come quello dell'accoglienza «senza se e senza ma» di tutti i profughi d'oltremare. Il Pontefice è categorico: «Sono gli ultimi ingannati e abbandonati a morire nel deserto; sono gli ultimi torturati, abusati e violentati nei campi di detenzione; sono gli ultimi che sfidano le onde di un mare impietoso; sono gli ultimi lasciati in campi di un'accoglienza troppo lunga per essere chiamata temporanea. Essi sono solo alcuni degli ultimi che Gesù ci chiede di amare e rialzare».Per il Papa sulla Sea Watch gli italiani non esistono. Non le persone, non i cattolici, non gli ammalati, non i disperati, non i vecchi, non i bisognosi, non i dubbiosi, non gli impauriti, non coloro che alzano le mani verso il cielo alla ricerca della verità. Anzi, questi uomini e queste donne hanno un senso solo quando compiono il gesto di abbracciare i profughi. E infatti il Santo Padre ha un pensiero anche per coloro che soccorrono fra le onde: «Gesù benedici i soccorritori nel Mar Mediterraneo, e fa crescere in ciascuno di noi il coraggio della verità e il rispetto per ogni vita umana». L'omelia è appassionata e il suo significato politico è micidiale. Senza mai nominare Matteo Salvini (non avrebbe avuto senso), Bergoglio demolisce la dialettica sull'argomento più delicato di questa stagione diplomatico-istituzionale e azzera il significato del decreto Sicurezza che un Paese sovrano ha tutto il diritto di varare e far rispettare. Con la sua dolce capacità affabulatoria mette in riga gli elettori: i buoni stanno con le Ong (e con Carola Rackete che forza il blocco e per proprietà transitiva con gli scafisti che per primi mettono in mare i disperati), i cattivi con lo Stato. Secondo lui non è il momento di avere dubbi né di muovere distinguo perché «sono persone, non si tratta solo di questioni sociali o migratorie. Non si tratta solo di migranti». La parola assume il tono dell'anatema e scava un solco fra chi - pur conoscendo e praticando tutti i giorni in silenzio il principio della solidarietà - rispetta le regole civiche dello Stato laico e chi acriticamente, quasi fideisticamente, sposa quel disastro sociale nel quale si è trasformata l'accoglienza diffusa. L'accelerazione di papa Francesco è forte e avviene nel momento più delicato dell'estate, in un'Italia presa letteralmente di mira dalle navi delle Organizzazioni non governative, con lo scopo di creare l'incidente diplomatico prima ancora che quello di condurre in salvo donne e bambini. Questi ultimi peraltro in quota-parte minima rispetto alla composizione delle squadre di profughi, formate nella quasi totalità da uomini dai 25 ai 30 anni, destinati ad essere respinti o a ciondolare fuori dalle stazioni ferroviarie e nei quartieri già di per sé degradati delle nostre città. A papa Francesco e ai vertici curiali va bene così. Forse perché sono distanti dalle problematiche del cittadino comune che frequenta le parrocchie. Problematiche di sicurezza, di integrazione, di dignità umana ben presenti invece nelle canoniche, nelle sacrestie, negli oratori gestiti da quel gran numero di sacerdoti silenziosi che rappresentano l'esercito di Dio. Che non hanno diritto di parola e neppure se lo prendono. Però vedono e sanno contare. Vedono i fedeli allontanarsi, vedono le chiese svuotarsi, vedono la rappresentatività istituzionale delle tonache perdere di significato. Si parla solo di migranti, ci si spende solo per i migranti. Secondo un'inchiesta di Doxa, negli ultimi cinque anni il numero dei cattolici in Italia è sceso del 7,7 per cento, ma dalle parole dei potenti della Chiesa sembra che questo non sia un problema. Forse perché la salvaguardia più importante era quella del business degli aiuti di Stato a chi si occupa dei profughi, crollati dopo le ultime elezioni e il cambio di cocktail governativo. Vero motivo del malumore perenne degli alti prelati. In questo senso, e con ancora più determinazione, arriva in soccorso del Papa un altro gesuita dal granitico piedistallo, il novantenne Bartolomeo Sorge, che dalle colonne di Repubblica ieri ha paragonato il decreto Sicurezza alle leggi razziali fasciste. «Come le leggi razziali promulgate dal regime fascista nel 1938 furono accolte, anche nella Chiesa, da un clima di indifferenza collettiva salvo poi anni dopo tutti prenderne le distanze, così anche il Sicurezza bis e questa politica di chiusure apprezzati da una parte del Paese, e da alcuni credenti, mostreranno in futuro la propria disumanità. È così che vanno le cose», spiega il teologo, ex direttore di Civiltà Cattolica, molto vicino a Leoluca Orlando nella sua stagione palermitana, tanto da essere inserito da Leonardo Sciascia fra i «professionisti dell'antimafia». Dopo aver definito Carola Rackete «eroica», padre Sorge spinge la Chiesa politicamente ancora più a sinistra. «Le leggi non sono tutte sbagliate. Così anche le ideologie. Il Sicurezza bis ha una parte di verità: nasce dalla paura della gente che pensa che il proprio Paese venga invaso. Non è così, ma la paura è comprensibile. La furbizia di Salvini è di assolutizzare questa parte di verità a discapito del fatto che nel complesso si tratta di misure disumane». Dimentica di aggiungere che il minor numero di carrette del mare in partenza dalla Libia, per effetto di quelle misure disumane, ha quasi azzerato i morti. Quegli stessi morti per i quali, sei anni fa, papa Francesco pianse a Lampedusa. Giorgio Gandola<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/bergoglio-benedice-i-taxi-del-mare-il-vaticano-va-sempre-piu-a-sinistra-2639131039.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lelite-della-mia-chiesa-si-commuove-per-gli-ultimi-solo-se-non-sono-italiani" data-post-id="2639131039" data-published-at="1765130919" data-use-pagination="False"> L’élite della mia Chiesa si commuove per gli ultimi solo se non sono italiani Stefano Semplici, docente di Etica sociale all'Università di Roma «Tor Vergata», nell'edizione di domenica 7, pone un quesito sul giornale vaticano Osservatore Romano, che appare scontato, ovvio ma anche fastidioso: «Esiste o no - in presenza di macroscopiche asimmetrie nella garanzia dei fondamentali diritti economici e sociali - un diritto a forzare la condivisione o anche semplicemente a cercare condizioni e risorse per una vita migliore, entrando con ogni mezzo in altri paesi anche quando non ricorrono le condizioni richieste per lo status di rifugiato?». Nella lunga filippica il professore arriva ad affermare che «quando si tratta della povertà e della diseguaglianza non vale il limite delle acque territoriali o della zona Sar di competenza» per poi concludere che «c'è un'ingiustizia che grida verso il cielo mentre per gli ultimi la speranza di una via d'uscita è un posto su un barcone». Belle parole che certamente faranno felice qualche fan del giornale vaticano che nessuno, tra i normali mortali, legge più, ma che ingenerano alibi insostenibili, specie se poi argomentazioni più o meno forbite non vengono fornite quando si parla della povera gente italiana, delle situazioni insostenibili di popolazioni colpite da calamità naturali che vengono sistematicamente dimenticate e mutiliate da burocrazie, tasse e gabelle varie. Luis Sepulveda, in un interessante volumetto, Il Potere dei sogni, dice di se stesso: «Prima di tutto sono un cittadino e un uomo libero, e poi uno scrittore. Credo che uno sia uomo prima di essere artista o scrittore. Credo che uno sia responsabile prima di essere celebre, credo che uno sia giusto prima di essere famoso, perché in caso contrario l'arte, la celebrità e la fama non sono altro che scuse per sottrarsi ai doveri dell'uomo e del cittadino». La stessa osservazione dovrebbe valere anche per il nostro professor Semplici, e anche per tutti i cristiani (compresi i membri della gerarchia «ecclesiastica»): prima di tutto essere uomo. Le pratiche religiose, le devozioni, i pistolotti moralistici non possono essere alibi per trascurare il dovere fondamentale di essere uomo e, checché se ne dica, i doveri del cittadino e del rispetto delle leggi. La fede proclamata ed esibita non può costituire una copertura per sottrarsi agli obblighi di giustizia, onestà, rettitudine, lealtà nei confronti dello Stato, e mi si permetta compreso il rispetto del denaro pubblico. Esiste una categoria di persone, ed è formata da coloro (anche in abito ecclesiastico) i quali, non avendo mai sentito il puzzo della disperazione, della mancanza di speranza, credono di risolvere i problemi dei poveri regalando loro nuvole di incenso, di false speranze. Se ai poveracci, ostaggi provenienti dal mediterraneo, non resta che gridare verso il cielo, e come speranza un posto sul barcone, alla nostra povera gente umiliata, indebitata e senza speranza per il futuro dei propri figli che speranza concediamo? Probabilmente, come si è avuto modo di constatare in questi anni rimarrà la dimenticanza e il castigo di essere sempre ultimi… Ermanno Caccia
Kennedy Jr (Ansa)
D’ora in avanti, le donne che risultano negative al test per l’epatite B potranno decidere, consultando il proprio medico, se vaccinare o no alla nascita il proprio bambino. I membri che hanno votato a favore delle nuove raccomandazioni hanno sostenuto che il rischio di contrarre il virus è basso, e che i vaccini dovrebbero essere personalizzati.
Il gruppo di lavoro dell’Acip, rinnovato dallo scorso giugno dal segretario alla Salute Robert F. Kennedy Jr. ha suggerito di attendere almeno i 2 mesi di età per la prima dose. La vaccinazione continuerà a essere somministrata ai neonati di madri che risultano positive, o il cui stato di salute è sconosciuto. Il direttore facente funzioni dei Cdc, Jim O’Neill, ora dovrà decidere se adottare o meno queste raccomandazioni.
La commissione ha inoltre votato a favore della consultazione dei genitori con gli operatori sanitari, per sottoporre i figli a test sulla ricerca degli anticorpi contro l’epatite B prima di decidere se sia necessario somministrare altre dosi del vaccino. Attualmente, dopo la prima i bambini ricevono la seconda a 1-2 mesi di età e la terza tra i 6 e i 18 mesi.
Kennedy ha già limitato l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 e raccomandato che i neonati vengano vaccinati separatamente contro la varicella. Susan Kressly, presidente dell’American academy of pediatrics, ha affermato che il cambiamento apportato dall’Acip renderà i bambini americani meno sicuri. «Esorto i genitori a parlare con il pediatra e a vaccinarsi contro l’epatite B alla nascita, indipendentemente dallo stato di salute della madre», è stato il suo appello.
Il presidente Donald Trump, invece, ha commentato soddisfatto l’esito della votazione. Con un post su Truth, venerdì sera aveva definito «un’ottima decisione porre fine alla raccomandazione sul vaccino contro l’epatite B per i neonati, la stragrande maggioranza dei quali non corre alcun rischio di contrarre una malattia che si trasmette principalmente per via sessuale o tramite aghi infetti. Il calendario vaccinale infantile americano richiedeva da tempo 72 “iniezioni” per bambini perfettamente sani, molto più di qualsiasi altro Paese al mondo e molto più del necessario. In effetti, è ridicolo! Molti genitori e scienziati hanno messo in dubbio, così come me, l’efficacia di questo “programma”».
Trump ha poi annunciato di avere appena firmato «un memorandum presidenziale che ordina al dipartimento della Salute e dei Servizi Umani di “accelerare” una valutazione completa dei calendari vaccinali di altri Paesi del mondo e di allineare meglio quello statunitense, in modo che sia finalmente radicato nel Gold Standard della scienza e del buon senso», ha concluso il presidente.
Prima del voto, questa settimana dodici ex dirigenti della Fda avevano contestato sul The New England journal of medicine la proposta di revisione delle approvazioni dei vaccini da parte dell’agenzia, sostenendo che i cambiamenti minacciano gli standard basati sulle prove, indeboliscono le pratiche di immunobridging (strategia scientifica e normativa che confronta i marcatori della risposta immunitaria indotti da un vaccino in diverse situazioni per stimare l’efficacia del vaccino) e rischiano di erodere la fiducia del pubblico.
A proposito della nota interna di Vinay Prasad, direttore della divisione vaccini della Food and drug administration (Fda), che dieci giorni ha sostenuto che «non meno di 10» dei 96 decessi infantili segnalati tra il 2021 e il 2024 al Vaers, il sistema federale di segnalazione degli eventi avversi da vaccino, erano «correlati» alle somministrazioni di dosi contro il Covid, i dodici si affannano a criticarla. «Prove sostanziali dimostrano che la vaccinazione può ridurre il rischio di malattie gravi e di ospedalizzazione in molti bambini e adolescenti», dichiarano. Dati che non risultano confermati da nessuno studio o revisione paritaria.
Sul continuo attacco alle scelte operate nel campo delle vaccinazioni dalla nuova amministrazione americana interviene il professor Francesco Cetta, ordinario di Chirurgia e docente di Intelligenza artificiale umanizzata presso lo Iassp (Istituto di alti studi strategici e politici). «Trump non è contro la scienza, come urla ad alta voce la sinistra nostrana», commenta. «Al contrario, pragmaticamente, per i problemi che non conosce, ha insediato nuove commissioni indipendenti di esperti, in grado di acclarare in tempi brevi, per quanto possibile, la verità su due argomenti particolarmente sensibili come le vaccinazioni e gli effetti dei cambiamenti climatici. E su che cosa si può fare in concreto per controllarli. Con quali costi e benefici per la comunità».
Il professore aggiunge: «Bisogna evitare le terapie a tappeto, indistintamente uguali per tutti, ma adattare ad ogni malato il suo trattamento come un “abito su misura”. In particolare, per alcune categorie come i bambini e le donne in gravidanza, bisogna valutare con attenzione vantaggi e svantaggi della somministrazione di ogni farmaco, incluso i vaccini, che determinano una perturbazione delle difese immunitarie individuali».
Considerazioni che dovrebbero essere fatte anche dal nostro ministero della Salute e dalle varie associazioni mediche che non ammettono revisioni dei metodi vaccinali.
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Giorgia Meloni (Imagoeconomica)
L’attuale governo sta mostrando la consapevolezza di dover sostenere, con una politica estera molto attiva sul piano globale, il modello economico italiano basato sull’export che è messo a rischio - gestibile, ma comunque problematico per parecchi settori sul piano dei margini finanziari - dai dazi statunitensi, dalla crisi autoinflitta per irrealismo ambientalista ed eccessi burocratici dell’Ue, dai costi eccessivi dell’energia e, in generale, dal cambio di mondo in atto senza dimenticare la crisi demografica. Vedremo dopo le soluzioni interne, ma qui va sottolineato che l’Italia non può trasformare il proprio modello economico dipendente dall’export senza perdere ricchezza. La consapevolezza di questo punto è provata dalla riforma del ministero degli Esteri: accanto alla Direzione politica, verrà creata nel prossimo gennaio una Direzione economica con la missione di sostenere l’internazionalizzazione e l’export delle imprese italiane in tutto il mondo. Non è una novità totale, ma mostra una concentrazione di risorse e capacità geoeconomiche e geopolitiche finalmente adeguate alla missione di un’Italia globale, per inciso titolo del mio libro pubblicato nell’autunno 2023 (Rubbettino editore). Con quale meccanismo di moltiplicazione del potere negoziale italiano? Tradizionalmente, via la duplice convergenza con Ue e Stati Uniti pur sempre più complicata, ma con più autonomia per siglare partenariati bilaterali strategici di cooperazione economica-industriale (i trattati doganali sono competenza dell’Ue, condizione necessaria per un mercato unico europeo essenziale per l’Italia) a livello mondiale.
E con un metodo al momento solo italiano: partenariati bilaterali con reciproco vantaggio, cioè non asimmetrici. Con priorità l’Africa (al momento, 14 nazioni) ed il progetto di «Via del cotone» (Imec) tra Indo-Pacifico, Mediterraneo ed Atlantico settentrionale via penisola arabica. La nuova (in realtà vecchia perché elaborata dal Partito repubblicano nel 2000) dottrina di sicurezza nazionale statunitense è di ostacolo ad un Italia globale? No, perché, pur essendo divergente con l’Ue, non lo è con le singole nazioni europee, con qualche eccezione. Soprattutto, le chiama a un maggiore attivismo per la loro sicurezza, lasciando di fatto in cambio spazio geopolitico. Come potrà Roma usarlo? Aumentando i suoi bilaterali strategici e approfondendoli con Giappone, India, nazioni arabe sunnite, Asia centrale (rilevante l’accordo con la Mongolia se riuscisse) ecc. Quale nuovo sforzo? Necessariamente integrare una politica mercantilista con i requisiti di schieramento geopolitico. E con un riarmo non solo concentrato contro la minaccia russa, ma mirato a novità tecnologiche utili per scambiare strumenti di sicurezza con partner compatibili. Ovviamente è oggetto di studio, ma l’Italia ha il potenziale per farlo via progetti condivisi con America, europei e giapponesi nonché capacità proprie. Considerazione che ci porta a valutare la modernizzazione interna dell’Italia perché c’è una relazione stretta tra potenziale esterno e interno.
Obiettivi interni
La priorità è ridurre il costo del debito pubblico per aumentare lo spazio di bilancio utile per investimenti e detassazione stimolativi. Ciò implica la sostituzione del Pnrr, che finirà nel 2026, con un programma nazionale stimolativo (non condizionato dall’esterno) di dedebitazione: valorizzare e cedere dai 250 a 150 miliardi di patrimonio statale disponibile, forse di più (sui 600-700 teorici) in 15 anni. Se ben strutturata, tale operazione «patrimonio pubblico contro debito» potrà dare benefici anticipativi via aumento del voto di affidabilità del debito italiano riducendone il costo di servizio che oggi è di 80-90 miliardi anno. Già tale costo è stato un po’ ridotto dal giusto rigore della politica di bilancio per il 2026. Con il nuovo programma qui ipotizzato, da avviare nel 2027 per sua complessità, lo sarà molto di più dando all’Italia più risorse per spesa sociale, di investimenti competitivi e minori tasse.
Stimo dai 10 ai 18 miliardi anno di risparmio sul costo del debito e un aumento di investimenti esteri in Italia perché con voto di affidabilità (rating) crescente. Senza tale programma, l’Italia sarebbe condizionabile dalla concorrenza intraeuropea e senza i soldi sufficienti per la politica globale detta sopra. Ci sono tante altre priorità tecniche sia per invertire più decisamente il lento declino economico dell’Italia, causato da governi di sinistra e/o dissipativi, sia per rendere più globalmente competitiva l’economia italiana. Ma sono fattibili via un nuovo clima di cultura politica che crei fiducia ed ottimismo sul potenziale globale dell’Italia. Come? Più ordine interno, investimenti sulla qualificazione cognitiva di massa, sulla rivoluzione tecnologica, in sintesi su un’Italia futurizzante. L’obiettivo è attrarre più capitale e competenze dall’estero, comunicando credibilmente al mondo che l’Italia è terra di libertà, sicurezza, opportunità e progresso. Non può farlo solo la politica, ma ci vuole il contributo dei privati entro un concetto di «nazione attiva», aperta al mondo e non chiusa. Ritroviamo il vento, gli oceani.
www.carlopelanda.com
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Lando Norris (Getty Images)
Nell’ultimo GP stagionale di Abu Dhabi, Lando Norris si laurea campione del mondo per la prima volta grazie al terzo posto sul circuito di Yas Marina. Nonostante la vittoria in gara, Max Verstappen non riesce a difendere il titolo, interrompendo il suo ciclo di quattro mondiali consecutivi.
Lando Norris è campione del mondo. Dopo quattro anni di dominio incontrastato di Max Verstappen, il pilota britannico centra il titolo iridato al termine di una stagione in cui ha saputo coniugare costanza, precisione e lucidità nei momenti decisivi. La vittoria ad Abu Dhabi, conquistata con una gara solida e senza errori, suggella un percorso iniziato con un Mondiale che sembrava già scritto a favore dell’olandese.
La stagione ha visto Norris prendere il comando delle operazioni già nelle prime gare, approfittando di alcuni passaggi a vuoto di Verstappen e di una gestione impeccabile del suo team. Il britannico ha messo in mostra una costanza rara, evitando rischi inutili e capitalizzando ogni occasione: punti preziosi accumulati gara dopo gara che hanno costruito un vantaggio psicologico e tecnico difficile da colmare per chiunque, ma non per Verstappen, che nelle ultime gare ha tentato il tutto per tutto per costruirsi una chance di rimonta. Una rimonta sfumata per appena due punti, visto che il pilota della McLaren ha chiuso il Mondiale a quota 423 punti, davanti ai 421 del rivale della RedBull e che se avessero chiuso a pari punti il titolo sarebbe andato a Verstappen in virtù del numero di gran premi vinti in stagione: otto contro i sette di Norris. Inevitabile per l'olandese non pensare alla gara della scorsa settimana in Qatar, dove Norris ha recuperato proprio due punti sfruttando un errore di Kimi Antonelli all'inizio dell'ultimo giro.
La gara di Abu Dhabi ha rappresentato la sintesi perfetta della stagione di Norris: partenza accorta, gestione dei pit stop e mantenimento della concentrazione fino alla bandiera a scacchi. L’olandese, pur vincendo la corsa, non è riuscito a recuperare il distacco, confermando che i quattro anni di dominio sono stati interrotti da un talento giovane e capace di gestire la pressione del momento clou.
Alle spalle dei due contendenti, la stagione è stata amara per Ferrari e altri protagonisti attesi al vertice. Charles Leclerc e Lewis Hamilton non hanno mai realmente impensierito i leader della classifica, incapaci di inserirsi nella lotta per il titolo o di ottenere risultati significativi in gran parte del campionato. Una conferma, se ce ne fosse bisogno, delle difficoltà del Cavallino Rosso nel trovare una combinazione di macchina e strategia competitiva.
Il Mondiale 2025 si chiude quindi con un volto nuovo sul gradino più alto del podio e con alcune conferme sullo stato della Formula 1: Norris dimostra che la gestione mentale, l’attenzione ai dettagli e la capacità di evitare errori critici contano quanto la velocità pura. Verstappen, pur da vincitore di tante gare, dovrà riflettere sulle occasioni perdute, mentre la Ferrari è chiamata a ripensare, ancora una volta, strategie e sviluppo per la stagione successiva.
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