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2019-07-09
Papa Bergoglio benedice le Ong
Ansa
«Il mio pensiero va agli ultimi che ogni giorno gridano al Signore, chiedendo di essere liberati dai mali che li affliggono». Nel sesto anniversario della sua visita a Lampedusa, papa Francesco identifica gli ultimi e i poveri soprattutto con i migranti. E a loro dedica la messa nella basilica di San Pietro, caratterizzando decisamente il suo pontificato come quello dell'accoglienza «senza se e senza ma» di tutti i profughi d'oltremare. Il Pontefice è categorico: «Sono gli ultimi ingannati e abbandonati a morire nel deserto; sono gli ultimi torturati, abusati e violentati nei campi di detenzione; sono gli ultimi che sfidano le onde di un mare impietoso; sono gli ultimi lasciati in campi di un'accoglienza troppo lunga per essere chiamata temporanea. Essi sono solo alcuni degli ultimi che Gesù ci chiede di amare e rialzare».
Per il Papa sulla Sea Watch gli italiani non esistono. Non le persone, non i cattolici, non gli ammalati, non i disperati, non i vecchi, non i bisognosi, non i dubbiosi, non gli impauriti, non coloro che alzano le mani verso il cielo alla ricerca della verità. Anzi, questi uomini e queste donne hanno un senso solo quando compiono il gesto di abbracciare i profughi. E infatti il Santo Padre ha un pensiero anche per coloro che soccorrono fra le onde: «Gesù benedici i soccorritori nel Mar Mediterraneo, e fa crescere in ciascuno di noi il coraggio della verità e il rispetto per ogni vita umana».
L'omelia è appassionata e il suo significato politico è micidiale. Senza mai nominare Matteo Salvini (non avrebbe avuto senso), Bergoglio demolisce la dialettica sull'argomento più delicato di questa stagione diplomatico-istituzionale e azzera il significato del decreto Sicurezza che un Paese sovrano ha tutto il diritto di varare e far rispettare. Con la sua dolce capacità affabulatoria mette in riga gli elettori: i buoni stanno con le Ong (e con Carola Rackete che forza il blocco e per proprietà transitiva con gli scafisti che per primi mettono in mare i disperati), i cattivi con lo Stato.
Secondo lui non è il momento di avere dubbi né di muovere distinguo perché «sono persone, non si tratta solo di questioni sociali o migratorie. Non si tratta solo di migranti». La parola assume il tono dell'anatema e scava un solco fra chi - pur conoscendo e praticando tutti i giorni in silenzio il principio della solidarietà - rispetta le regole civiche dello Stato laico e chi acriticamente, quasi fideisticamente, sposa quel disastro sociale nel quale si è trasformata l'accoglienza diffusa. L'accelerazione di papa Francesco è forte e avviene nel momento più delicato dell'estate, in un'Italia presa letteralmente di mira dalle navi delle Organizzazioni non governative, con lo scopo di creare l'incidente diplomatico prima ancora che quello di condurre in salvo donne e bambini. Questi ultimi peraltro in quota-parte minima rispetto alla composizione delle squadre di profughi, formate nella quasi totalità da uomini dai 25 ai 30 anni, destinati ad essere respinti o a ciondolare fuori dalle stazioni ferroviarie e nei quartieri già di per sé degradati delle nostre città.
A papa Francesco e ai vertici curiali va bene così. Forse perché sono distanti dalle problematiche del cittadino comune che frequenta le parrocchie. Problematiche di sicurezza, di integrazione, di dignità umana ben presenti invece nelle canoniche, nelle sacrestie, negli oratori gestiti da quel gran numero di sacerdoti silenziosi che rappresentano l'esercito di Dio. Che non hanno diritto di parola e neppure se lo prendono. Però vedono e sanno contare. Vedono i fedeli allontanarsi, vedono le chiese svuotarsi, vedono la rappresentatività istituzionale delle tonache perdere di significato. Si parla solo di migranti, ci si spende solo per i migranti.
Secondo un'inchiesta di Doxa, negli ultimi cinque anni il numero dei cattolici in Italia è sceso del 7,7 per cento, ma dalle parole dei potenti della Chiesa sembra che questo non sia un problema. Forse perché la salvaguardia più importante era quella del business degli aiuti di Stato a chi si occupa dei profughi, crollati dopo le ultime elezioni e il cambio di cocktail governativo. Vero motivo del malumore perenne degli alti prelati. In questo senso, e con ancora più determinazione, arriva in soccorso del Papa un altro gesuita dal granitico piedistallo, il novantenne Bartolomeo Sorge, che dalle colonne di Repubblica ieri ha paragonato il decreto Sicurezza alle leggi razziali fasciste.
«Come le leggi razziali promulgate dal regime fascista nel 1938 furono accolte, anche nella Chiesa, da un clima di indifferenza collettiva salvo poi anni dopo tutti prenderne le distanze, così anche il Sicurezza bis e questa politica di chiusure apprezzati da una parte del Paese, e da alcuni credenti, mostreranno in futuro la propria disumanità. È così che vanno le cose», spiega il teologo, ex direttore di Civiltà Cattolica, molto vicino a Leoluca Orlando nella sua stagione palermitana, tanto da essere inserito da Leonardo Sciascia fra i «professionisti dell'antimafia».
Dopo aver definito Carola Rackete «eroica», padre Sorge spinge la Chiesa politicamente ancora più a sinistra. «Le leggi non sono tutte sbagliate. Così anche le ideologie. Il Sicurezza bis ha una parte di verità: nasce dalla paura della gente che pensa che il proprio Paese venga invaso. Non è così, ma la paura è comprensibile. La furbizia di Salvini è di assolutizzare questa parte di verità a discapito del fatto che nel complesso si tratta di misure disumane». Dimentica di aggiungere che il minor numero di carrette del mare in partenza dalla Libia, per effetto di quelle misure disumane, ha quasi azzerato i morti. Quegli stessi morti per i quali, sei anni fa, papa Francesco pianse a Lampedusa.
Giorgio Gandola
L’élite della mia Chiesa si commuove per gli ultimi solo se non sono italiani
Stefano Semplici, docente di Etica sociale all'Università di Roma «Tor Vergata», nell'edizione di domenica 7, pone un quesito sul giornale vaticano Osservatore Romano, che appare scontato, ovvio ma anche fastidioso: «Esiste o no - in presenza di macroscopiche asimmetrie nella garanzia dei fondamentali diritti economici e sociali - un diritto a forzare la condivisione o anche semplicemente a cercare condizioni e risorse per una vita migliore, entrando con ogni mezzo in altri paesi anche quando non ricorrono le condizioni richieste per lo status di rifugiato?».
Nella lunga filippica il professore arriva ad affermare che «quando si tratta della povertà e della diseguaglianza non vale il limite delle acque territoriali o della zona Sar di competenza» per poi concludere che «c'è un'ingiustizia che grida verso il cielo mentre per gli ultimi la speranza di una via d'uscita è un posto su un barcone».
Belle parole che certamente faranno felice qualche fan del giornale vaticano che nessuno, tra i normali mortali, legge più, ma che ingenerano alibi insostenibili, specie se poi argomentazioni più o meno forbite non vengono fornite quando si parla della povera gente italiana, delle situazioni insostenibili di popolazioni colpite da calamità naturali che vengono sistematicamente dimenticate e mutiliate da burocrazie, tasse e gabelle varie.
Luis Sepulveda, in un interessante volumetto, Il Potere dei sogni, dice di se stesso: «Prima di tutto sono un cittadino e un uomo libero, e poi uno scrittore. Credo che uno sia uomo prima di essere artista o scrittore. Credo che uno sia responsabile prima di essere celebre, credo che uno sia giusto prima di essere famoso, perché in caso contrario l'arte, la celebrità e la fama non sono altro che scuse per sottrarsi ai doveri dell'uomo e del cittadino».
La stessa osservazione dovrebbe valere anche per il nostro professor Semplici, e anche per tutti i cristiani (compresi i membri della gerarchia «ecclesiastica»): prima di tutto essere uomo. Le pratiche religiose, le devozioni, i pistolotti moralistici non possono essere alibi per trascurare il dovere fondamentale di essere uomo e, checché se ne dica, i doveri del cittadino e del rispetto delle leggi.
La fede proclamata ed esibita non può costituire una copertura per sottrarsi agli obblighi di giustizia, onestà, rettitudine, lealtà nei confronti dello Stato, e mi si permetta compreso il rispetto del denaro pubblico.
Esiste una categoria di persone, ed è formata da coloro (anche in abito ecclesiastico) i quali, non avendo mai sentito il puzzo della disperazione, della mancanza di speranza, credono di risolvere i problemi dei poveri regalando loro nuvole di incenso, di false speranze.
Se ai poveracci, ostaggi provenienti dal mediterraneo, non resta che gridare verso il cielo, e come speranza un posto sul barcone, alla nostra povera gente umiliata, indebitata e senza speranza per il futuro dei propri figli che speranza concediamo? Probabilmente, come si è avuto modo di constatare in questi anni rimarrà la dimenticanza e il castigo di essere sempre ultimi…
Ermanno Caccia
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Riduci
Il Papa schiera Gesù a favore dell'accoglienza «senza se e senza ma», per padre Sorge Carola Rackete «è eroica» e il dl Sicurezza come le leggi razziali. Nell'accresciuto interesse per i profughi c'entra il calo del business?Pistolotti moralistici e prediche di tanti ecclesiastici alimentano false speranze e dimenticano le sofferenze di tanta nostra gente.Lo speciale contiene due articoli«Il mio pensiero va agli ultimi che ogni giorno gridano al Signore, chiedendo di essere liberati dai mali che li affliggono». Nel sesto anniversario della sua visita a Lampedusa, papa Francesco identifica gli ultimi e i poveri soprattutto con i migranti. E a loro dedica la messa nella basilica di San Pietro, caratterizzando decisamente il suo pontificato come quello dell'accoglienza «senza se e senza ma» di tutti i profughi d'oltremare. Il Pontefice è categorico: «Sono gli ultimi ingannati e abbandonati a morire nel deserto; sono gli ultimi torturati, abusati e violentati nei campi di detenzione; sono gli ultimi che sfidano le onde di un mare impietoso; sono gli ultimi lasciati in campi di un'accoglienza troppo lunga per essere chiamata temporanea. Essi sono solo alcuni degli ultimi che Gesù ci chiede di amare e rialzare».Per il Papa sulla Sea Watch gli italiani non esistono. Non le persone, non i cattolici, non gli ammalati, non i disperati, non i vecchi, non i bisognosi, non i dubbiosi, non gli impauriti, non coloro che alzano le mani verso il cielo alla ricerca della verità. Anzi, questi uomini e queste donne hanno un senso solo quando compiono il gesto di abbracciare i profughi. E infatti il Santo Padre ha un pensiero anche per coloro che soccorrono fra le onde: «Gesù benedici i soccorritori nel Mar Mediterraneo, e fa crescere in ciascuno di noi il coraggio della verità e il rispetto per ogni vita umana». L'omelia è appassionata e il suo significato politico è micidiale. Senza mai nominare Matteo Salvini (non avrebbe avuto senso), Bergoglio demolisce la dialettica sull'argomento più delicato di questa stagione diplomatico-istituzionale e azzera il significato del decreto Sicurezza che un Paese sovrano ha tutto il diritto di varare e far rispettare. Con la sua dolce capacità affabulatoria mette in riga gli elettori: i buoni stanno con le Ong (e con Carola Rackete che forza il blocco e per proprietà transitiva con gli scafisti che per primi mettono in mare i disperati), i cattivi con lo Stato. Secondo lui non è il momento di avere dubbi né di muovere distinguo perché «sono persone, non si tratta solo di questioni sociali o migratorie. Non si tratta solo di migranti». La parola assume il tono dell'anatema e scava un solco fra chi - pur conoscendo e praticando tutti i giorni in silenzio il principio della solidarietà - rispetta le regole civiche dello Stato laico e chi acriticamente, quasi fideisticamente, sposa quel disastro sociale nel quale si è trasformata l'accoglienza diffusa. L'accelerazione di papa Francesco è forte e avviene nel momento più delicato dell'estate, in un'Italia presa letteralmente di mira dalle navi delle Organizzazioni non governative, con lo scopo di creare l'incidente diplomatico prima ancora che quello di condurre in salvo donne e bambini. Questi ultimi peraltro in quota-parte minima rispetto alla composizione delle squadre di profughi, formate nella quasi totalità da uomini dai 25 ai 30 anni, destinati ad essere respinti o a ciondolare fuori dalle stazioni ferroviarie e nei quartieri già di per sé degradati delle nostre città. A papa Francesco e ai vertici curiali va bene così. Forse perché sono distanti dalle problematiche del cittadino comune che frequenta le parrocchie. Problematiche di sicurezza, di integrazione, di dignità umana ben presenti invece nelle canoniche, nelle sacrestie, negli oratori gestiti da quel gran numero di sacerdoti silenziosi che rappresentano l'esercito di Dio. Che non hanno diritto di parola e neppure se lo prendono. Però vedono e sanno contare. Vedono i fedeli allontanarsi, vedono le chiese svuotarsi, vedono la rappresentatività istituzionale delle tonache perdere di significato. Si parla solo di migranti, ci si spende solo per i migranti. Secondo un'inchiesta di Doxa, negli ultimi cinque anni il numero dei cattolici in Italia è sceso del 7,7 per cento, ma dalle parole dei potenti della Chiesa sembra che questo non sia un problema. Forse perché la salvaguardia più importante era quella del business degli aiuti di Stato a chi si occupa dei profughi, crollati dopo le ultime elezioni e il cambio di cocktail governativo. Vero motivo del malumore perenne degli alti prelati. In questo senso, e con ancora più determinazione, arriva in soccorso del Papa un altro gesuita dal granitico piedistallo, il novantenne Bartolomeo Sorge, che dalle colonne di Repubblica ieri ha paragonato il decreto Sicurezza alle leggi razziali fasciste. «Come le leggi razziali promulgate dal regime fascista nel 1938 furono accolte, anche nella Chiesa, da un clima di indifferenza collettiva salvo poi anni dopo tutti prenderne le distanze, così anche il Sicurezza bis e questa politica di chiusure apprezzati da una parte del Paese, e da alcuni credenti, mostreranno in futuro la propria disumanità. È così che vanno le cose», spiega il teologo, ex direttore di Civiltà Cattolica, molto vicino a Leoluca Orlando nella sua stagione palermitana, tanto da essere inserito da Leonardo Sciascia fra i «professionisti dell'antimafia». Dopo aver definito Carola Rackete «eroica», padre Sorge spinge la Chiesa politicamente ancora più a sinistra. «Le leggi non sono tutte sbagliate. Così anche le ideologie. Il Sicurezza bis ha una parte di verità: nasce dalla paura della gente che pensa che il proprio Paese venga invaso. Non è così, ma la paura è comprensibile. La furbizia di Salvini è di assolutizzare questa parte di verità a discapito del fatto che nel complesso si tratta di misure disumane». Dimentica di aggiungere che il minor numero di carrette del mare in partenza dalla Libia, per effetto di quelle misure disumane, ha quasi azzerato i morti. Quegli stessi morti per i quali, sei anni fa, papa Francesco pianse a Lampedusa. Giorgio Gandola<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/bergoglio-benedice-i-taxi-del-mare-il-vaticano-va-sempre-piu-a-sinistra-2639131039.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lelite-della-mia-chiesa-si-commuove-per-gli-ultimi-solo-se-non-sono-italiani" data-post-id="2639131039" data-published-at="1765390145" data-use-pagination="False"> L’élite della mia Chiesa si commuove per gli ultimi solo se non sono italiani Stefano Semplici, docente di Etica sociale all'Università di Roma «Tor Vergata», nell'edizione di domenica 7, pone un quesito sul giornale vaticano Osservatore Romano, che appare scontato, ovvio ma anche fastidioso: «Esiste o no - in presenza di macroscopiche asimmetrie nella garanzia dei fondamentali diritti economici e sociali - un diritto a forzare la condivisione o anche semplicemente a cercare condizioni e risorse per una vita migliore, entrando con ogni mezzo in altri paesi anche quando non ricorrono le condizioni richieste per lo status di rifugiato?». Nella lunga filippica il professore arriva ad affermare che «quando si tratta della povertà e della diseguaglianza non vale il limite delle acque territoriali o della zona Sar di competenza» per poi concludere che «c'è un'ingiustizia che grida verso il cielo mentre per gli ultimi la speranza di una via d'uscita è un posto su un barcone». Belle parole che certamente faranno felice qualche fan del giornale vaticano che nessuno, tra i normali mortali, legge più, ma che ingenerano alibi insostenibili, specie se poi argomentazioni più o meno forbite non vengono fornite quando si parla della povera gente italiana, delle situazioni insostenibili di popolazioni colpite da calamità naturali che vengono sistematicamente dimenticate e mutiliate da burocrazie, tasse e gabelle varie. Luis Sepulveda, in un interessante volumetto, Il Potere dei sogni, dice di se stesso: «Prima di tutto sono un cittadino e un uomo libero, e poi uno scrittore. Credo che uno sia uomo prima di essere artista o scrittore. Credo che uno sia responsabile prima di essere celebre, credo che uno sia giusto prima di essere famoso, perché in caso contrario l'arte, la celebrità e la fama non sono altro che scuse per sottrarsi ai doveri dell'uomo e del cittadino». La stessa osservazione dovrebbe valere anche per il nostro professor Semplici, e anche per tutti i cristiani (compresi i membri della gerarchia «ecclesiastica»): prima di tutto essere uomo. Le pratiche religiose, le devozioni, i pistolotti moralistici non possono essere alibi per trascurare il dovere fondamentale di essere uomo e, checché se ne dica, i doveri del cittadino e del rispetto delle leggi. La fede proclamata ed esibita non può costituire una copertura per sottrarsi agli obblighi di giustizia, onestà, rettitudine, lealtà nei confronti dello Stato, e mi si permetta compreso il rispetto del denaro pubblico. Esiste una categoria di persone, ed è formata da coloro (anche in abito ecclesiastico) i quali, non avendo mai sentito il puzzo della disperazione, della mancanza di speranza, credono di risolvere i problemi dei poveri regalando loro nuvole di incenso, di false speranze. Se ai poveracci, ostaggi provenienti dal mediterraneo, non resta che gridare verso il cielo, e come speranza un posto sul barcone, alla nostra povera gente umiliata, indebitata e senza speranza per il futuro dei propri figli che speranza concediamo? Probabilmente, come si è avuto modo di constatare in questi anni rimarrà la dimenticanza e il castigo di essere sempre ultimi… Ermanno Caccia
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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Riduci
Ecco #DimmiLaVerità del 10 dicembre 2025. Con il nostro Alessandro Rico analizziamo gli ostacoli che molti leader europei mettono sulla strada della pace in Ucraina.
L’intesa riguarda l’acquisto di un’area di 15.000 metri quadrati dal Consorzio ZAI e prevede un investimento complessivo di circa 20 milioni di euro. Si tratta di un progetto greenfield, cioè realizzato ex novo, che darà vita a un centro di manutenzione pensato fin dall’origine per rispondere alle esigenze della logistica ferroviaria europea e alla crescita del traffico merci su rotaia.
Il nuovo impianto sarà concepito secondo un modello open access, dunque accessibile a locomotive di diversi costruttori. L’hub ospiterà cinque binari dedicati alla manutenzione leggera e un binario riservato al tornio per la riprofilatura delle ruote, consentendo di effettuare test e interventi su locomotive multisistema e in corrente continua, compatibili con i principali sistemi di segnalamento europei. L’obiettivo è garantire elevati livelli di affidabilità e disponibilità operativa dei mezzi attraverso ispezioni programmate e interventi rapidi lungo l’intero ciclo di vita dei veicoli.
La scelta di Verona si lega alla centralità del corridoio Verona–Brennero, infrastruttura destinata a un deciso aumento della capacità ferroviaria con l’apertura della Galleria di Base del Brennero, prevista per il 2032. Il nuovo hub si inserirà inoltre in una rete già consolidata, integrandosi con il Rail Service Center di Siemens Mobility a Novara, operativo dal 2015 sul corridoio TEN-T Reno-Alpi e oggi punto di riferimento per la manutenzione di oltre 120 locomotive di operatori europei.
«Questo investimento rappresenta un ulteriore passo nel nostro impegno a favore di un trasporto merci sempre più sostenibile», ha dichiarato Pierfrancesco De Rossi, Ceo di Siemens Mobility in Italia. Secondo De Rossi, il nuovo hub di Verona è «una scelta strategica che conferma la fiducia di Siemens Mobility nel Paese e nel suo ruolo centrale nello sviluppo del settore», con l’obiettivo di rafforzare la posizione dell’Italia nella rete logistica europea e sostenere il passaggio verso modalità di trasporto meno impattanti.
Il progetto nasce dall’integrazione delle competenze delle due aziende. Siemens Mobility porterà a Verona l’esperienza maturata nella manutenzione delle locomotive dedicate al trasporto merci, mentre RAILPOOL contribuirà con il know-how sviluppato a livello europeo, facendo leva su sei officine di proprietà e su una rete di supporto che può contare su oltre 4.500 parti di ricambio disponibili a magazzino.
«Con il nuovo centro di manutenzione di Verona ampliamo il nostro potenziale manutentivo in una delle aree logistiche più strategiche d’Europa», ha spiegato Alberto Lacchini, General Manager di RAILPOOL Italia. Si tratta, ha aggiunto, di un investimento che riflette «un impegno di lungo periodo nel fornire soluzioni di leasing affidabili e complete», in grado di rispondere a esigenze operative in continua evoluzione.
La collaborazione tra Siemens Mobility e RAILPOOL si inserisce in un percorso avviato nel 2024, quando le due società hanno sottoscritto un accordo quadro per la fornitura a RAILPOOL di circa 250 locomotive, incluse le varianti multisistema Vectron oggi operative in 16 Paesi lungo i principali corridoi ferroviari europei.
Sul valore dell’investimento è intervenuta anche Barbara Cimmino, vice presidente di Confindustria per l’Export e l’Attrazione degli Investimenti e presidente dell’Advisory Board Investitori Esteri. «L’investimento di Siemens Mobility in Veneto è un segnale significativo per la competitività italiana», ha affermato, sottolineando come il progetto confermi la centralità del Paese nella logistica ferroviaria europea e nei processi di transizione sostenibile. Un’iniziativa che, secondo Cimmino, evidenzia il contributo degli investitori internazionali nel rafforzare le filiere strategiche e la capacità dell’Italia di offrire ecosistemi solidi e competenze tecniche avanzate.
Per Siemens Mobility, la manutenzione delle locomotive resta una delle attività centrali anche in Italia, all’interno di una rete globale che comprende oltre 100 sedi in più di 30 Paesi e circa 7.000 specialisti. L’apertura del nuovo hub di Verona consolida questo presidio e rafforza il ruolo del Paese come snodo industriale e logistico in una fase di forte crescita del trasporto merci su ferro.
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Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
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