
La relazione prefettizia sullo scioglimento ha sì salvato il Comune, ma ha messo nel mirino tre società di servizi su quattro. E svelato che nella sede della municipalizzata dei rifiuti fu allestita la camera ardente del capo di un clan della mala locale.Dal romanzo criminale che ha avvolto tre delle quattro municipalizzate baresi sulle quali ha puntato i riflettori il Viminale dopo l’inchiesta con oltre 130 arresti denominata «Codice interno» che, esattamente un anno fa, sconquassò il sistema di potere della città rossa pugliese, riemerge una inquietante storia del passato. Un verbale che era finito ad ammuffire tra le migliaia di pagine di una vecchia indagine avrebbe riportato in modo dirompente l’attenzione degli ispettori della Commissione d’accesso sull’Amiu, la società partecipata che si occupa della raccolta dei rifiuti e che aveva assunto pregiudicati. Un collaboratore di giustizia ritenuto dalla Procura antimafia di Bari particolarmente attendibile, dopo aver svelato agli inquirenti le vacanze dorate dei boss negli istituti di pena e i lavori che una coop di pregiudicati svolgeva proprio per conto dell’Amiu, aveva raccontato un aneddoto davvero clamoroso (al tempo, però, passato quasi inosservato): nel settembre 2011 nella sede dell’Amiu di Bari entrò una bara. Stando al racconto del pentito, la portarono a spalla dagli uomini del clan Diomede, trasformando la sede della municipalizzata in una camera ardente per la mala. Il tributo era dedicato a Cesare Diomede, figlio di Biagio, boss della città e nipote di un altro uomo di rispetto: Giuseppe, che tutti chiamavano «Totò Dio’». Cesare finì sotto i colpi della faida con un altro gruppo criminale a 39 anni. E se il pomposo funerale negli ambienti criminali deve essere stato letto come un profondo legame con la municipalizzata, per gli ispettori del ministero dell’Interno sarebbe indice di quella «agevolazione occasionale» della criminalità organizzata che consente alla Prefettura, ha spiegato ieri la Gazzetta del Mezzogiorno, di disporre la misura della «prevenzione collaborativa». Una terna di esperti potrebbe essere chiamata quindi al «tutoraggio» della società, che dovrà adottare «provvedimenti di risanamento». Ed è previsto un ulteriore step: a un anno di distanza il prefetto dovrà valutare se l’azienda potrà ritenersi bonificata. In caso contrario scatterebbe un’interdittiva antimafia. Il sindaco all’epoca era Michele Emiliano, l’attuale governatore. Stando al quotidiano pugliese sarebbe stato Emiliano a inviare il verbale del pentito in Procura. Se così fosse sarebbe interessante capire come ne era venuto in possesso. Ma, soprattutto, risulta strano che non siano stati presi provvedimenti nei confronti dell’Amiu. La relazione della Commissione d’accesso non è ancora di dominio pubblico, ma questo sarebbe solo uno degli episodi che riconnetterebbe l’Amiu alle presunte infiltrazioni. Nonostante la dichiarazione di insussistenza dei presupposti per lo scioglimento del Comune di Bari, che quando fu chiesto dalle opposizioni creò un certo caos nella relazione tra Emiliano e il suo successore, Antonio Decaro (ora eurodeputato), con il siparietto sul palco durante il racconto della visita di entrambi (poi smentita da Decaro) a casa della sorella di un boss di Bari vecchia, ci sarebbero ulteriori coincidenze sospette. Un altro Diomede, Franco, viene arrestato per estorsione nel 2016. Emerge subito che era un ex dipendente dell’Amiu, poi assunto da un’azienda, la H2o, alla quale la municipalizzata aveva affidato il servizio di pulizia dei bagni pubblici. Diomede era inizialmente un lavoratore dalla Splendid. A scadenza del contratto, nell’ottobre 2013, l’Amiu, sulla base di una apposita delibera del Comune che comprendeva una cosiddetta «clausola sociale di transito», assorbì tutti i lavoratori di quella ditta fino al nuovo bando. Il servizio è stato poi affidato con gara, nel luglio 2014, alla H2o che, sulla base della stessa clausola, ha dovuto assorbire nel proprio organico tutti i dipendenti. Durante le indagini emerse pure che Franco Diomede avrebbe preteso un aumento di stipendio e la trasformazione del suo contratto da part time a full time, diventando un boss col posto fisso. Già nel 2003, però, la stampa locale si era inutilmente affannata a lanciare segnali d’allarme. E venivano denunciate infiltrazioni e «vessazioni» dei clan sull’Amiu, respinte con veemenza dagli amministratori. La storia, insomma, parte da lontano. E non è l’unica. L’Amtab, la partecipata dei trasporti, è già commissariata. Dall’inchiesta emerse che la sede aziendale sarebbe stata utilizzata dal clan Parisi come «ufficio per esaminare le assunzioni e dirimere liti tra il personale». Quattro dei dipendenti che gli inquirenti indicavano come legati al clan hanno presentato ricorso contro i licenziamenti adottati dall’azienda dopo gli arresti. E infine c’è la Multiservizi. Per questa partecipata la Prefettura avrebbe riconosciuto che il Comune avrebbe avviato procedure di risanamento mettendo alla porta una serie di dipendenti «controindicati». Ponendo così rimedio alla gestione del presidente Giacomo Olivieri (già consigliere regionale), scelto da Emiliano, finito in carcere insieme alla moglie Maria Carmen Lorusso (che fu eletta in Consiglio comunale con una civica di centrodestra passando poi nel gruppo di centrosinistra Sud al centro, ndr), con l’accusa di scambio elettorale politico-mafioso.
Il luogo dell'accoltellamento a Milano. Nel riquadro, Vincenzo Lanni (Ansa)
Nei principali Paesi europei, per essere riconosciuto «pericoloso» basta la segnalazione di un medico. Qui invece devi prima commettere un delitto. E pure in questo caso non è detto che una struttura ti accolga.
Vincenzo Lanni, l’accoltellatore di Milano, aveva già colpito. Da condannato era stato messo alla Rems, la residenza per le misure di sicurezza, poi si era sottoposto a un percorso in comunità. Nella comunità però avevano giudicato che era violento, pericoloso. E lo avevano allontanato. Ma allontanato dove? Forse che qualcuno si è preso cura di Lanni, una volta saputo che l’uomo era in uno stato di abbandono, libero e evidentemente pericoloso (perché se era pericoloso in un contesto protetto e familiare come quello della comunità, tanto più lo sarebbe stato una volta lasciato libero e senza un riparo)?
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Dimenticata la «sensibilità istituzionale» che mise al riparo l’Expo dalle inchieste: ora non c’è Renzi ma Meloni e il gip vuole mettere sotto accusa Milano-Cortina. Mentre i colleghi danno l’assalto finale al progetto Albania.
Non siamo più nel 2015, quando Matteo Renzi poteva ringraziare la Procura di Milano per «aver gestito la vicenda dell’Expo con sensibilità istituzionale», ovvero per aver evitato che le indagini sull’esposizione lombarda creassero problemi o ritardi alla manifestazione. All’epoca, con una mossa a sorpresa dall’effetto immediato, in Procura fu creata l’Area omogenea Expo 2015, un’avocazione che tagliò fuori tutti i pm, riservando al titolare dell’ufficio ogni decisione in materia.
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Dopo il Ponte tocca ai Giochi. Per il gip sarebbe «incostituzionale» il decreto con cui il governo ha reso «ente di diritto privato» la Fondazione Milano-Cortina. Palla alla Consulta. Si rifà viva la Corte dei Conti: la legge sugli affitti brevi favorirà il sommerso.
Da luglio la decisione sembrava bloccata nei cassetti del tribunale. Poi, due giorni dopo l’articolo della Verità che segnalava la paralisi, qualcosa si è sbloccato. E così il giudice delle indagini preliminari Patrizia Nobile ha accolto la richiesta della Procura di Milano e ha deciso di rimettere alla Corte Costituzionale il decreto legge del governo Meloni che, nell’estate 2024, aveva qualificato la Fondazione Milano-Cortina 2026 come «ente di diritto privato». La norma era stata pensata per mettere la macchina olimpica al riparo da inchieste e blocchi amministrativi, ma ora finisce sotto la lente della Consulta per possibile incostituzionalità.
Il ministro della giustizia libico Halima Abdel Rahman (Getty Images)
Il ministro della giustizia libico, Halima Abdel Rahman, alla «Verità»: «L’arresto del generale dimostra che il tempo dei gruppi armati fuori controllo è finito e che anche la Rada deve sottostare al governo di Tripoli». Pd e M5s attaccano ancora l’esecutivo. Conte: «Italia umiliata».
Il caso di Osama Almasri Anjim, arrestato e rinviato a giudizio delle autorità libiche ha scatenato una dura polemica politica fra governo e opposizione. L’ex capo di una delle più potenti milizie di Tripoli a gennaio scorso era stato rimpatriato con un volo di Stato dopo essere stato arrestato in esecuzione di un mandato d’arresto internazionale emesso dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. Il governo aveva motivato il suo allontanamento con la pericolosità del soggetto, che era stato accolto a Tripoli da centinaia dei suoi fedelissimi con bandiere e scariche di kalashnikov.






