Il tracollo di Emmanuel Macron ci rafforza nelle partite economiche tra i due Paesi. Vivendi potrebbe vendere il 23,75% di Tim e le mire di Crédit Agricole su Banco Bpm e Anima si attenuano. I conti dei francesi peggiorano, anche loro rischiano procedure d’infrazione.
Il tracollo di Emmanuel Macron ci rafforza nelle partite economiche tra i due Paesi. Vivendi potrebbe vendere il 23,75% di Tim e le mire di Crédit Agricole su Banco Bpm e Anima si attenuano. I conti dei francesi peggiorano, anche loro rischiano procedure d’infrazione.Nella bagarre della campagna elettorale è passata sottotraccia una notizia che potrebbe segnare il preludio di una fase nuova nei rapporti economico-finanziari tra Italia e Francia. Con un’inversione di rotta, infatti, e dopo aver esercitato il golden power, il governo ha dato il via libera alla proposta di Safran, la multinazionale dei motori a reazione per l’industria aeronautica, controllata al 30,24% dallo Stato francese, per acquisire Microtecnica, un’azienda con sede a Torino che fornisce tecnologie sensibili per le forze armate italiane. C’era preoccupazione, proprio per la delicatezza del business sul mercato, ma dopo aver ottenuto tutta una serie di garanzie sulla continuità dei servizi di casa nostra, Palazzo Chigi ha detto sì. Chiaro che anche solo temporalmente è difficile trovare una relazione diretta tra l’epocale batosta elettorale di Macron e il lasciapassare a un’operazione così delicata per la difesa nazionale, ma che il voto su Bruxelles possa fare da acceleratore di una tendenza al riallineamento dei rapporti tra i due Paesi, pilotata dalla forza della Meloni e dalla debolezza (che ha preso poi le forme della disfatta) del numero uno di Renaissance, è nelle cose. Del resto, l’affaire-Safran non è che uno dei molteplici fronti di scontro industriale tra i due leader. In un altro settore delicatissimo, quello delle telecomunicazioni, si combatte da mesi una battaglia ad alzo zero tra il primo socio transalpino di Tim, Vivendi (23,75% delle quote), e il resto del mondo. Nel senso che nella partita oltre a Cdp (secondo azionista di Tim controllato dal Mef) c’è anche Kkr, il fondo strategico Usa che ha chiuso di recente l’acquisizione della rete Telecom. Il vero nodo della discordia con Parigi che non voleva. Macron era (ed è) per la linea dura e Vivendi ha in corso una causa in Italia contro Tim. La famiglia Bollorè, dalle cui costole televisve (la tv Cnews) è nato un altro protagonista della destra francese Éric Zemmour, da un po’ di tempo grazie a Sarkozy si è riavvicinata al presidente e spera di ottenere giustizia (un risarcimento sostanzioso) nella vertenza italiana contro la separazione della rete che dovrebbe arrivare a sentenza a novembre. Certo che l’ecatombe alle Europee potrebbe cambiare le carte in tavola. Molto dipenderà dal prossimo voto delle politiche francesi, ma è chiaro che vada come vada Macron ne uscirà depotenziato, non fosse che per le concessioni che sarà costretto a fare alle altre potenziali forze del fronte nazionale. Così Vivendi potrebbe giungere a più miti consigli. Resta il problema (non da poco) di trovare qualcuno che accontenti le pretese del colosso dei media francese, ma l’ipotesi di vendita del pacchetto di maggioranza relativa diventa dal dopo voto sempre più credibile. Allo stesso tempo, il tracollo alle urne e la possibile nascita di un governo (Jordan Bardella più Marine Le Pen) più vicino alla Meloni potrebbe rappresentare una buona notizia per il futuro italiano di Stellantis. La casa automobilistica nata dalla fusione tra Fca e Peugeot, con il cuore che pulsa verso l’Eliseo grazie anche al 6,1% del capitale detenuto dalla Banque publique d’investissement) che vale il 9,6% dei diritti di voto. La Francia, inutile girarci intorno, fa i suoi interessi. E l’Italia è diventata una succursale che si caratterizza per cassa integrazione, stop alle produzioni e ai progetti rimandati sine die come quello della gigafactory di Termoli. Per questo la famosa promessa di produrre un milione di auto da noi è ormai una chimera e un Rinascimento italiano non può prescindere dall’assegnazione di numerosi nuovi modelli ibridi e ridimensionando il piano del full electric. Vedremo. Così come vedremo che fine faranno le mire, apparentemente in sonno, dei francesi su credito e risparmi italiani. Per Crédit Agricole, che è il primo azionista con il 9,18% di Banco Bpm e che attraverso Amundi controlla il 5% di una delle maggiori società di risparmio gestito del Paese, Anima, l’Italia resterà centrale, ma oggi pensare ad ambizioni o progetti di scalate diventa quantomeno azzardato. Intanto viene da fare un’altra osservazione. Se con il nuovo Patto di stabilità che ha mantenuto i parametri del 3% e del 60% per i rapporti deficit/Pil e debito/Pil, concedendo peraltro dei piani di rientro più graduali per i Paesi ad alto debito, si fanno già i conti delle manovre correttive e delle procedure di disavanzo per l’Italia, lo stesso discorso andrà fatto anche per Parigi. La Francia ha dei numeri migliori ma con una netta tendenza al peggioramento. Il deficit/Pil nel 2023 ha raggiunto il 5,5% e pensare di arrivare al 3% nel 2027 sembra utopia. Non lo diciamo noi, ma le spesso sovrastimate agenzie di rating che di recente hanno lasciato invariato (Moody’s) il loro giudizio sulla sostenibilità del debito italiano e declassato invece (Standard&Poor’s) quello francese, ritenendolo in crescita nel lungo periodo. E pensare che ci trovavamo ancora alla vigilia della storica batosta elettorale.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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