2025-03-19
«Avvenire» benedice la piazza con l’elmetto. Il Papa lo snobba e scrive al «Corsera»
Il foglio della Cei ha flirtato col Serra Pride? Per parlare di pace, Francesco sceglie via Solferino. Zuppi rinsavisce: ascoltiamolo.«Disarmare le parole per disarmare le menti e disarmare la Terra». papa Francesco ha dovuto alzare la voce dal letto di convalescenza al Policlinico Gemelli per rimettere al centro la barra del timone dell’Arca cattolica fra i marosi. Ha dovuto prendere la penna lui, pur malato, per ribadire contro la guerra e le armi concetti che evidentemente non avevano fatto breccia nei discepoli del turbo-europeismo in tonaca. La lettera del Pontefice arriva come un monito a rientrare nei ranghi ed è diretta a chi aveva entusiasticamente aderito all’happening di sabato scorso a Roma accanto ai numerosi guerrafondai laici: la Conferenza episcopale, l’Azione cattolica, i vescovi del Comece legati a Bruxelles, la Comunità Sant’Egidio, i frementi discepoli di Francesco Maria Ruffini a caccia di spazio politico. E il principale punto di riferimento editoriale dell’area cattolica, Avvenire.La scelta di affidare le sue parole al bellicista Corriere della Sera invece che al quotidiano moralmente più vicino è già un indizio, una presa di distanza del Papa da chi ha deciso di camminare al fianco dell’Europa del riarmo, pronta a spendere 800 miliardi (molti erano destinati ai fondi di coesione delle categorie più deboli) in missili, carri armati e cacciabombardieri. Ancora ieri Avvenire insisteva nel celebrare la piazza di sabato con un editoriale affidato a monsignor Mariano Crociata, presidente della Commissione delle conferenze episcopali della Comunità europea. Come domandare all’oste se il vino è buono. Titolo: «Tante voci di un popolo che chiede con forza più coraggio all’Europa».A quella stessa piazza, a quegli stessi prelati, a quel mondo variopinto in marcia sotto le note di Friedrich Schiller (presto diventate le note di Bella ciao), papa Francesco ha ricordato di non avere alcuna intenzione di scendere a patti con il continente che mostra i muscoli. «In questo momento di malattia la guerra appare ancora più assurda. La fragilità umana, infatti, ha il potere di renderci più lucidi rispetto a ciò che dura e a ciò che passa, a ciò che fa vivere e a ciò che uccide. Forse per questo tendiamo così spesso a negare i limiti e a sfuggire le persone fragili e ferite: hanno il potere di mettere in discussione la direzione che abbiamo scelto, come singoli e come comunità».In questi giorni la direzione scelta dalla Chiesa «come comunità» è stata ondivaga, molto indulgente con chi ha voluto lanciare il ReArm e lo ha sostenuto nella manifestazione inventata dal Pd e da Michele Serra, sponsorizzata dalla sinistra più laica e anticlericale. Senza tener conto della posizione del Papa. Avvenire titolava su un’ambigua frase del cardinal Matteo Zuppi: «È ora di investire nel cantiere Europa». E a raffica intervistava il consueto inneggiante Romano Prodi, teorico della necessità delle armi «per sostituire l’ombrello americano con quello europeo». Il presidente dell’Azione cattolica, Giuseppe Notarstefano, sottolineava che «la manifestazione può rappresentare un’occasione per riaffermare la centralità dell’Europa e rimette al centro i valori dell’umanesimo cristiano». Comprendono anche gli Eurofighter di ultima generazione? E il segretario generale della Cei, arcivescovo Giuseppe Baturi, dava pur con qualche distinguo la benedizione al corteo bellicista: «Il riarmo rientra nella logica dello scontro, ma alla manifestazione c’è libertà di partecipazione in nome del pluralismo».Uno scenario paradossale, la bandiera della pace sventolata per celebrare un’Unione europea che intende armarsi fino ai denti. A tutto questo papa Francesco ancora una volta ha detto no, richiamando il gregge all’ovile. Continua così l’appello al Corriere: «Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra. C’è un grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità. Mentre la guerra non fa che devastare le comunità e l’ambiente, senza offrire soluzioni ai conflitti, la diplomazia e le organizzazioni internazionali hanno bisogno di nuova linfa e credibilità. Le religioni, inoltre, possono attingere alle spiritualità dei popoli per riaccendere il desiderio della fratellanza e della giustizia, la speranza della pace. Sentiamoci uniti in questo sforzo, che la Grazia celeste non cesserà di ispirare e accompagnare».Una posizione netta, che non concede margini all’appeasement. E che supera il fastidio ideologico - in voga nelle anime più progressiste in Vaticano - di rifiutare la pace solo perché a declinarla in modo concreto è Donald Trump. Il Santo Padre non accetta questa stizza e non intende barattare la pace pura e semplice con la subdola pax socialista. Lo aveva già detto, lui non starà mai dalla parte di coloro «che organizzano convegni di pace e poi investono in armi» (più o meno il Serra Pride). Il primo a cogliere il tuono nell’aria è il super diplomatico cardinal Zuppi, che immediatamente dichiara: «Mai credere che per volere la pace bisogna volere la guerra. Il dialogo è l’unica via. Il vento bellicista che nutre i nazionalismi fa dimenticare una verità storica che papa Francesco non ha smesso di predicare: la guerra è sempre una sconfitta per tutti e la pace è una vittoria di tutti». Infine una stilettata a Bruxelles e ai suoi vassalli: «Non dobbiamo accettare discorsi vittimistici sull’Europa tradita, come se la pace significasse mollezza. Le comprensibili preoccupazioni per la Difesa non possono essere di offesa». Subito riallineato. La Grazia celeste fa miracoli.
Container in arrivo al Port Jersey Container Terminal di New York (Getty Images)
La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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