2023-11-19
Autostrade sta per cambiare pelle. Ma potremmo ritrovarci i Benetton
Luciano Benetton (Getty Images)
Dopo la tragedia del Ponte Morandi, lo Stato ha separato Aspi e la famiglia veneta (dietro ricca buonuscita). Ora però un riassetto della società, con un complicato gioco di scatole cinesi, può rimettere Atlantia in sella.Caro direttore, a leggere l’ultima ipotesi di un probabile riassetto della società Autostrade per l’Italia (Aspi), mi vengono in mente le sagge parole di una vecchia canzone napoletana (Simmo l’e Napule paisà) che suonavano in italiano così: «Il mondo è una ruota, si cambia, si gira e si torna a cambiare». Concetto poi ripreso da Tomasi di Lampedusa nel suo romanzo Il gattopardo, portato sullo schermo da Luchino Visconti, in cui si diceva: «C’è bisogno che tutto cambi perché tutto resti uguale».Spieghiamo la ratio dei nostri ricordi. Dal divertente progetto di riassetto di Aspi di cui abbiamo letto, la cosa che subito ci colpisce è nei fatti il possibile ritorno dei Benetton sotto mentite spoglie. E ci spieghiamo. La sede italiana di Jp Morgan (ma la casa madre di New York lo sa?) parla di un conferimento in Aspi del gruppo Gavio-Astm partecipato dal fondo Ardian al 49%, per fare uscire da Aspi il fondo australiano Macquarie in agitazione per via di una richiesta, insieme a Blackstone, di percepire dividendi contrattualizzati con conseguenti necessari aumenti di tariffe in contrasto con le politiche governative. Una governance sbagliata, quella di Aspi, decisa dai precedenti governi, Draghi compreso. L’errore stava nel fatto che l’intera governance di Aspi è stata affidata a soggetti tutti finanziari, Cdp compresa. Oggi, però, bisogna fare grande attenzione. Il fondo Blackstone ha acquistato il 37% di Mundys, che altro non è che la vecchia Atlantia dei Benetton oggi partecipata dalla Edizione Holding di Alessandro Benetton, e quindi sull’orizzonte di Aspi potrebbe stagliarsi di nuovo un ruolo finanziario degli amici Benetton, anche se oggi non appaiono in nessun modo azionisti, visto che la partecipazione in autostrade è tenuta dal Fondo e non da Mundys. Oggi, appunto: domani chissà. Perché Mundys è un operatore nelle concessioni autostradali in diversi Paesi del mondo e quindi, lasciando - con il progetto in esame - Blackstone il solo fondo dentro Aspi, prima o poi la partecipata Mundys potrebbe ritornare anch’essa a un ruolo formale. Ecco il perché delle memorie della vecchia canzone napoletana. E la questione non è una ipotesi di terzo tipo nel progetto che abbiamo letto per due motivi. Mundys è partecipata anche dalla cassa di risparmio di Torino con il 5,4% del nostro caro amico Fabrizio Palenzona, democristiano doc e quindi molto caro al nostro cuore, esperto di concessioni autostradali (è stato per anni presidente dell’Aiscat, l’associazione dei concessionari italiani) e di finanza (vicepresidente per anni di Unicredit). Non vorremmo sbagliare, ma credo che la sua capacità creativa stia dentro questa idea che più la guardiamo e più ci appare stramba. Infatti lo stesso conferimento del gruppo Gavio, società affettuosamente amica e sostenitrice della Dc scalfariana, e quindi anch’essa vicino al nostro cuore, non risolve alcun problema per le difficoltà che oggi il gruppo ha nell’aver perso alcuni asset e aver messo in vendita la tangenziale di Milano da oltre sei mesi per fare cassa e, ad ora, senza alcun risultato. Il conferimento del gruppo partecipato dal fondo Ardian, infatti, scaricherebbe i suoi debiti in Aspi e quindi in parte su Pantalone via Cdp, consentendo al fondo Ardian di uscire e lasciando in Aspi, come già detto, come unico fondo Blackstone, che ha il 37% della vecchia Atlantia. Naturalmente, a questo punto, anche l’amico Salini, già partecipato dalla Cdp, si è subito alzato per proporsi nella partita, tanto che andremmo a realizzare la italianità della committenza (Aspi) e delle grandi imprese esecutrici. Una volta la Dc, nelle grandi partite economiche, trovava sempre un equilibrio di forze imprenditoriali, garantendo l’interesse generale del Paese, tanto che le bistrattate partecipazioni statali (Iri ed Eni) nel tempo hanno traghettato l’Italia verso un patrimonio industriale ad alta intensità tecnologica, collocandola alla fine degli anni Ottanta tra il quarto e il quinto posto tra i Paesi più industrializzati del mondo. In pochi anni, grazie alle sconcertanti privatizzazioni (di cui pure dovremmo parlare prima o poi), hanno ridotto l’Italia a una colonia delle grandi democrazie industrializzate europee e si continua ancora in questa direzione con la vendita della rete fissa della Tim agli americani della Kkr.La Dc non c’è più e i Dc, sfusi e a pacchetti, sono tutt’altra cosa, mentre in questi 28 ultimi anni gran parte degli altri hanno guardato il Paese che veniva venduto e disorganizzato con il risultato di una crescita che, tranne una volta con Giuliano Amato, ha superato l’1%, tralasciando il rimbalzo post pandemico dovuto principalmente al Superbonus del 110%, che pagheremo nei prossimi dieci anni. Ma di tutto ciò avremo prima o poi occasione di riparlarne.
Edoardo Raspelli (Getty Images)
Nel riquadro: Mauro Micillo, responsabile Divisione IMI Corporate & Investment Banking di Intesa Sanpaolo (Getty Images)
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