2021-09-13
Gli artisti s’inchinano all’aborto facile in cambio della fama
Audrey Diwan, regista del film L'événement (Ansa)
La vittoria a Venezia di un film sull'interruzione di gravidanza è l'ennesimo caso di dittatura del politicamente corretto.Mai come in questo tempo di pandemia abbiamo potuto toccare con mano l'arroganza e la violenza con cui il potere impone il suo racconto, silenziando dubbi, proteste e critiche. Abbiamo raccontato come si cerchi di mettere a tacere gli intellettuali, di come si riducano le loro obiezioni a «sofismi», di come si cerchi di screditarli quando si permettono di uscire dal seminato. Sono pochi ad avere il coraggio di resistere di fronte a tale geometrica potenza, e le voci libere vengono via via messe a tacere o oscurate. Non avviene soltanto con il virus: anche chi osa opporsi alla narrazione dominante sull'immigrazione o sui temi Lgbt viene ostracizzato: giusto ieri abbiamo raccontato il caso di Marina Terragni, a cui è stato ritirato un invito al Festival letteratura di Mantova perché Rebecca Solnit, l'autrice femminista americana con cui avrebbe dovuto dialogare, non gradiva le sue posizioni contro l'utero in affitto e gli eccessi dell'ideologia arcobaleno.Tocca però prendere atto della realtà. Il più delle volte non è il potere a censurare gli intellettuali e gli artisti. Sono questi ultimi che si sottomettono volentieri al discorso prevalente, che scelgono (per altro con grande entusiasmo) di seguire la corrente, che si dannano a ripetere a pappagallo la lezioncina preparata dai sacerdoti della Cattedrale del politicamente corretto. In questo modo, le loro opere «impegnate» smettono di essere atti di denuncia e si riducono a materiale di propaganda, poiché non fanno altro che ribadire e rafforzare la vulgata imposta dalla Cattedrale: diventano l'eco triste della banalità istituzionalizzata. Prendiamo il film che ha trionfato alla Mostra del cinema appena conclusasi a Venezia. La giuria ha scelto di conferire il Leone d'oro, il massimo riconoscimento, a un film dichiaratamente politico: L'événement di Audrey Diwan, basato sull'omonimo romanzo della scrittrice Annie Ernaux (attivissima vestale dell'ideologia dominante). Il tema della pellicola è l'aborto, per la precisione l'aborto clandestino a cui la protagonista deve sottoporsi negli anni Sessanta, epoca in cui in Francia l'interruzione di gravidanza non era ancora regolamentata. Per celebrare la vittoria, ieri La Stampa ha pubblicato in prima pagina un articolo di Elisabetta Sgarbi (anche lei regista) intitolato: «Mostra del cinema, il coraggio di premiare l'aborto». Viene da chiedersi dove stia, questo coraggio. Il messaggio del film della Diwan è piuttosto chiaro, ed è stato ampiamente veicolato da tutti i media: l'orrore dell'aborto clandestino non deve più presentarsi (cosa su cui siamo pienamente d'accordo), ecco perché bisogna consentire alle donne di abortire sempre più facilmente (conclusione che contestiamo sentitamente). Non c'è bisogno di un «film d'autore» presentato a Venezia per sentirsi dire che l'aborto è cosa buona e giusta e che va praticato con sempre maggior semplicità: questo è l'ordine che parte dalla Cattedrale del politicamente corretto e ci viene costantemente ribadito. Eppure, pensate un po', c'è ancora chi ha il coraggio di sostenere che produrre un film o un romanzo a favore dell'aborto sia un atto rivoluzionario, un gesto fondamentale di militanza politica. C'è ancora qualcuno convinto che obbedire ai diktat del pensiero unico sia roba da ribelli, quando in realtà si tratta della massima dimostrazione di sudditanza possibile. In Italia abortire è possibile e niente affatto complicato, almeno dal punto di vista burocratico. L'introduzione della pillola abortiva ha contribuito a rendere tutto ancora più veloce, sdoganando il concetto di «aborto facile»: basta una pillolina e il fastidioso feto è tolto di mezzo. Però ancora non basta. I servi del regime liberal devono riuscire a ottenere ancora di più. La loro battaglia, ormai da tempo, consiste nell'opporsi ferocemente all'obiezione di coscienza, e il film veneziano dà una mano. Non a caso, Emma Bonino ne ha subito approfittato per perorare la causa e ricordarci quali siano i desiderata della Cattedrale: «La 194 ha messo fine all'umiliazione, alla vergogna e alla paura dell'aborto clandestino, ha carenze, ma non svuotiamola e possibilmente miglioriamola». In che cosa consista lo «svuotamento» da evitare lo ha spiegato ieri Repubblica: «Svuotare la 194 significa consentire che sette ginecologi su dieci in media in Italia siano obiettori di coscienza, che i consultori continuino ad essere sottodimensionati e che ora alcuni occhieggino al Texas e alla sua legge in cui si impedisce l'aborto dopo la sesta settimana ascoltando il battito del cuore del feto». Ed ecco la conclusione della Bonino: «I movimenti “pro life" esistono anche qui, ma li abbiamo battuti. […] Bisogna stare all'erta, però. Per difendere quanto abbiamo ottenuto e per ottenere quello che non abbiamo, l'aborto farmacologico ad esempio».L'esercizio di mistificazione è semplicemente strepitoso. L'aborto farmacologico in Italia esiste ed è consentito. Chi vuole interrompere una gravidanza può farlo senza difficoltà. Per altro, nascono sempre meno bambini, dunque non si capisce nemmeno dove stia il problema. Ma non importa: il mandato è quello di evocare il perfido Nemico pro life, e di spingere affinché la pillola abortiva venga diffusa sempre di più, elargita alle ragazzine in un consultorio, in modo che possano farne uso all'insaputa della famiglia. Mai come oggi difendere la vita è stato difficile. Abbiamo un ministro della Sanità che non sa gestire il Covid e nemmeno sembra preoccuparsi delle altre patologie, ma ha comunque trovato il tempo per tentare di sdoganare l'aborto facile. Per le associazioni pro life è diventato complicato perfino aprire bocca. L'intero sistema mediatico e politico insiste con l'idea che l'aborto sia «un diritto umano fondamentale». Un artista che si ribellasse davvero al potere dominante, si opporrebbe a questa pressione, a questo profluvio di bugie. Invece gli artisti fanno a gare per adeguarsi, scrivono libri e scrivono film a favore dell'aborto e ottengono fama e premi prestigiosi. La giusta ricompensa per il servizio reso al regime. Dite: in tutto ciò, dove sarebbe il coraggio?