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2020-10-16
Arcuri manda nelle scuole le mascherine dei cinesi senza la certificazione Ce
Domenico Arcuri (Ansa)
C'è un buco nero intorno all'importazione di mascherine in Italia. Non è chiaro quante ne importiamo, né da dove, né quante sono prodotte dalle nostre aziende. Tanto che Antonio Zennaro, membro del Copasir (il comitato di controllo sui nostri servizi segreti) ha fatto una richiesta di accesso agli atti inviata al commissario straordinario Domenico Arcuri «per verificare quanto sia significativa la presenza delle aziende italiane quali soggetti fornitori e/o produttori di singoli dispositivi di protezione personale per conto del governo italiano». La Pec è stata spedita il 22 settembre. Ieri non era ancora arrivata risposta, anche se ci sono in totale 90 giorni di tempo per replicare.
Il silenzio di Arcuri però potrebbe presto diventare un problema. Perché diversi cittadini italiani, in particolare i genitori, in concomitanza con l'aumento dei contagi, stanno iniziando a domandarsi se quelle che vengono fornite dalle istituzioni alle scuole siano davvero in regola con le normative vigenti. Così mentre il nostro Paese affronta la seconda ondata di coronavirus, da Roma a Milano iniziano a emergere casi di dispositivi di protezione senza marchio Ce in arrivo dalla Cina. In teoria le mascherine senza marchio comunitario si possono ancora vendere fino al termine dell'emergenza. Lo prevede il decreto Cura Italia, dove si legge appunto che «è previsto che siano utilizzabili, previa valutazione da parte dell'Istituto superiore di sanità, anche mascherine prive del marchio Ce (marchio di conformità alle prescrizioni europee)». In pochi conoscono la deroga, approvata anche per le lunghezze burocratiche dell'Inail. La colpa è anche della giungla di norme approvate durante il lockdown dal governo, misure che hanno creato non poca confusione, persino nelle farmacie che devono venderle.
Per esempio a Milano quelle date dal Comune per gli studenti sono di origine cinese e si chiamano Kennolai. Hanno avuto il benestare anche dalla Protezione civile, come spiega alla Verità palazzo Marino. Eppure vengono vendute separatamente da quelle cinesi provenienti dall'Hubei e approvate, proprio perché non hanno il marchio Ce. Hanno solo il via libera istituzionale. Ma sono davvero sicure? Arcuri nei mesi scorsi era arrivato a promettere che entro settembre «ci sarebbero state sul mercato solo mascherine chirurgiche italiane». Non è andata così. Un esempio? Pochi giorni fa, il 12 ottobre, i funzionari dell'Agenzia dogane e monopoli di Milano 3 hanno sdoganato 2.295.000 di mascherine Kn95 destinate proprio al commissario straordinario per l'emergenza Covid 19. Le merci sono arrivate via ferrovia da Xian in Cina con ingresso nell'Unione Europea attraverso la Polonia. Il 17 settembre ne sono arrivate 26 milioni, sempre da Xian e contenute in 32 container. Il 4 altri 3 milioni. Il 31 agosto 31 milioni. D'altra parte un rapporto Ocse di maggio avvertiva di come nessun Paese al mondo producesse in modo efficiente tutti i beni di cui c'è bisogno per combattere il Covid 19. Solo Germania e Stati Uniti si stanno specializzando nella produzione di dispositivi medici. Le esportazioni globali di prodotti correlati al Covid sono concentrate in pochi Paesi. I primi 5 esportatori mondiali, che insieme rappresentano il 49% del commercio, sono Germania, Stati Uniti, Svizzera, Repubblica popolare cinese e Irlanda. L'Italia è al nono posto, con appena il 4% delle esportazioni. Del resto, un'elaborazione dei dati Istat da parte di Assosistema Confindustria di fine settembre spiegava che da febbraio a maggio del 2020 sono state importate mascherine per un valore complessivo di 1,1 miliardi di euro. In totale si parla di 1,5 miliardi di dispositivi di protezione. Facendo un calcolo in base ai dati delle dogane, da maggio a oggi dovrebbero essere 1,7 miliardi le mascherine importate. Il 90 per cento degli articoli acquistati risulta provenire dalla Cina. Zennaro ha presentato anche un'interrogazione parlamentare, dove spiega che su quel materiale in arrivo dalla Cina è stato «autorizzato inoltre l'utilizzo di Dpi non marcati Ce privi di certificati che ne comprovino la reale efficacia». Per questo il deputato del gruppo Misto, spiega che «la provenienza dei singoli dispositivi di protezione individuale, come le mascherine, rappresenta una questione di interesse pubblico in termini di garanzia di sicurezza e rispetto dell'ambiente». Quali sono quindi i Paesi che inviano in Italia mascherine? Quali le società importatrici? Quali sono i volumi di fornitura da febbraio a settembre? Zennaro domanda soprattutto «se il governo intenda avviare una programmazione strategica nazionale per l'approvvigionamento di presidi utili contro il Covid-19 e quali iniziative intenda adottare per valorizzare le aziende italiane produttrici di Dpi marcati Ce». Al momento non è arrivata risposta. Non solo. Negli ultimi giorni a Roma è scoppiato anche il caso delle mascherine prodotte da Fca, una delle industrie più importanti nel nostro Paese. Alcuni genitori di alunni se ne sono viste recapitare a casa. Ma non riportano il marchio Ce, né sulla busta, né sulla mascherina stessa. Non hanno il ferretto per aggiustarle sul naso. E, contrariamente alle mascherine chirurgiche, hanno gli elastici sul lato lungo e non su quello corto. In teoria sono autorizzate, ma la confusione generale ha fatto correre ai ripari le famiglie che hanno fornito ai figli altre mascherine acquistate in farmacia, con marchi e certificazioni. Si attendono spiegazioni dal commissario straordinario.
Controlli lumaca sui decessi da Covid. Medici e legali invocano trasparenza
Nel nostro Paese, i morti fino ad oggi per Covid-19 e senza patologie pregresse potrebbero essere «solo» 1.296. Il numero, infinitamente più basso delle cifre ufficiali, è frutto di un semplice calcolo statistico elaborato sui dati forniti dall'Istituto superiore della sanità (Iss). A ragionare in base alle tabelle e non in astratto sulla ben minore letalità del virus rispetto allo spauracchio quotidiano in cui ci costringono a vivere da mesi, sono alcuni avvocati e medici di Trieste che formano il gruppo Presidio 2020. Attenti a tutte le violazioni dei diritti dei cittadini e della Costituzione perpetrate «con la scusa del lockdown», si sono resi conto che dei 36.051 decessi registrati da inizio epidemia sono state esaminate appena 4.400 cartelle cliniche. Poco più del 12% del totale. Su Epicentro, il sito di epidemiologia dell'Iss rivolto agli operatori del servizio sanitario nazionale, i dati aggiornati al 4 ottobre sono stupefacenti: solo 160 pazienti (il 3,6% del campione) non presentava altre patologie, quindi sarebbero certamente morti per il coronavirus. Quanto agli altri, 599 (il 13,6%) soffrivano già di una patologia; 874 (il 19,9%) di due e 2.767 (il 62,9%) presentavano tre o più infermità. «La prima questione, scandalosa, è perché procedano così a rilento nell'esaminare le cartelle. Poi, perché non pubblicizzino questi risultati, assieme a tanti altri di cui ci inondano?», osserva l'avvocato Pierumberto Starace che assieme ai colleghi Alessandra Devetag e Stefano Sibelja, al consigliere regionale del Friuli Venezia Giulia, Walter Zalukar, alla senatrice Laura Stabile e ad altri professionisti hanno dato vita a Presidio 2020. «La nostra conclusione è che non si voglia far sapere che i morti per Covid, senza altre patologie, sono stati solo il 3,6% dei decessi fino ad oggi. Preferiscono alimentare la psicosi dei morti». Il gruppo di avvocati e medici non si è limitato a segnalare un dato tranquillamente ignorato, sebbene ufficiale. Ha considerato che se la tendenza è la medesima con appena il 3,6% dei decessi che vengono attribuiti esclusivamente al virus, una volta esaminate tutte le 36.051 cartelle mediche risulteranno morte solo per Covid 1.296 persone. «Se uno aveva il diabete o altre complicanze, come si fa a metterlo nello stesso calderone?», si chiede Starace, ricordando che «anche i pazienti tornati negativi al tampone, se muoiono sono catalogati decessi Covid, come ha dichiarato il governatore del Veneto, Luca Zaia. Ma so anche di annegati finiti a “far numero" perché erano risultati positivi». L'avvocato commenta ironico: «È vero che i dati non contano molto per il premier Giuseppe Conte, secondo il quale i morti per Covid sarebbero 135.000, ma il governo ha l'obbligo di essere meno opaco sui decessi certi». Le cartelle cliniche dovevano essere già controllate da mesi, rendendo noti i risultati. Sono l'unico mezzo di indagine per accertare l'impatto dell'infezione sulla mortalità totale, dal momento che autopsie non se ne fanno o se ne autorizzano troppo poche. Lo scorso 29 luglio Stefano Manera, chirurgo, medico anestesista e rianimatore che aveva prestato servizio in modo volontario all'Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo durante l'emergenza Covid, commentava sui social: «Oggi in sede ufficiale, nel Parlamento Italiano, ho chiesto ragione sul perché le autopsie siano state negate, così come perché le domande sulle terapie non abbiano avuto risposta. L'unica risposta è stato ottenere l'avvio di un procedimento disciplinare nei miei confronti». Come già a maggio precisò Manera «la circolare diffusa il 2 aprile a tutti gli ospedali italiani dal ministero della Salute retto da Roberto Speranza, diceva: “Per l'intero periodo della fase emergenziale non si dovrebbe procedere all'esecuzione di autopsie o riscontri diagnostici nei casi conclamati di Covid-19, sia se deceduti in corso di ricovero presso un reparto ospedaliero sia se deceduti presso il proprio domicilio". Questa indicazione ministeriale risale già all'inizio dell'epidemia perché gli ospedali autorizzati a eseguire autopsie erano solo quelli dotati di sala autoptica con requisiti di sicurezza elevati».
A detta di Manera «questa indicazione è stata interpretata e utilizzata come divieto nel marasma gestionale». Aggiunse: «Tutte le autopsie, tranne “quelle indispensabili", non erano da eseguire, lo comunicò il procuratore di Milano, Francesco Greco, in una circolare interna nella quale motiva a la decisione con “ragioni di sicurezza". C'era tra l'altro anche il problema del luogo in cui si sarebbero dovute svolgere, ossia l'ospedale cittadino Sacco, che risultava “già oberato" a causa del virus che aveva colpito soprattutto la Lombardia». Oggi, dal 12% delle cartelle mediche osservate sappiamo che i morti solo per Covid sono stati 160 sui 4.400 che ci vogliono far credere. Sarebbe ora che il ministro della Salute rendesse trasparenti questi dati, completando in tempi meno assurdi il controllo dei documenti sul percorso diagnostico terapeutico dei 36.051 pazienti fatti passare per morti da coronavirus. Uno spauracchio agitato in continuazione per costringerci ad accettare ogni restrizione imposta a colpi di Dcpm. «Tutto il sistema di soppressione e di forte compressione delle nostre libertà è illegale e non ha copertura legislativa sia a livello nazionale, sia a livello europeo», precisa l'avvocato Starace. «A differenza di altri Stati europei aderenti alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, l'Italia mai ha provveduto a segnalare le misure prese e i motivi che le hanno determinate. Questa è una violazione dell'articolo 15 della convenzione e come Comitato Rodotà abbiamo segnalato la violazione al Consiglio d'Europa. È ora allo studio un ricorso da presentarsi presso la Corte europea dei diritti umani».
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Le protezioni prive di marchio di garanzia sono legali, ma non si sa quanto sicure Intanto il commissario ignora le richieste del Copasir, che vuole vederci chiaro.Finora l'Iss ha esaminato solo il 12% delle cartelle cliniche dei deceduti classificati come vittime del virus. Tra di loro, la percentuale di chi non aveva altre patologie è il 3,6%. Un comitato ne chiede conto al governo.Lo speciale contiene due articoli.C'è un buco nero intorno all'importazione di mascherine in Italia. Non è chiaro quante ne importiamo, né da dove, né quante sono prodotte dalle nostre aziende. Tanto che Antonio Zennaro, membro del Copasir (il comitato di controllo sui nostri servizi segreti) ha fatto una richiesta di accesso agli atti inviata al commissario straordinario Domenico Arcuri «per verificare quanto sia significativa la presenza delle aziende italiane quali soggetti fornitori e/o produttori di singoli dispositivi di protezione personale per conto del governo italiano». La Pec è stata spedita il 22 settembre. Ieri non era ancora arrivata risposta, anche se ci sono in totale 90 giorni di tempo per replicare. Il silenzio di Arcuri però potrebbe presto diventare un problema. Perché diversi cittadini italiani, in particolare i genitori, in concomitanza con l'aumento dei contagi, stanno iniziando a domandarsi se quelle che vengono fornite dalle istituzioni alle scuole siano davvero in regola con le normative vigenti. Così mentre il nostro Paese affronta la seconda ondata di coronavirus, da Roma a Milano iniziano a emergere casi di dispositivi di protezione senza marchio Ce in arrivo dalla Cina. In teoria le mascherine senza marchio comunitario si possono ancora vendere fino al termine dell'emergenza. Lo prevede il decreto Cura Italia, dove si legge appunto che «è previsto che siano utilizzabili, previa valutazione da parte dell'Istituto superiore di sanità, anche mascherine prive del marchio Ce (marchio di conformità alle prescrizioni europee)». In pochi conoscono la deroga, approvata anche per le lunghezze burocratiche dell'Inail. La colpa è anche della giungla di norme approvate durante il lockdown dal governo, misure che hanno creato non poca confusione, persino nelle farmacie che devono venderle. Per esempio a Milano quelle date dal Comune per gli studenti sono di origine cinese e si chiamano Kennolai. Hanno avuto il benestare anche dalla Protezione civile, come spiega alla Verità palazzo Marino. Eppure vengono vendute separatamente da quelle cinesi provenienti dall'Hubei e approvate, proprio perché non hanno il marchio Ce. Hanno solo il via libera istituzionale. Ma sono davvero sicure? Arcuri nei mesi scorsi era arrivato a promettere che entro settembre «ci sarebbero state sul mercato solo mascherine chirurgiche italiane». Non è andata così. Un esempio? Pochi giorni fa, il 12 ottobre, i funzionari dell'Agenzia dogane e monopoli di Milano 3 hanno sdoganato 2.295.000 di mascherine Kn95 destinate proprio al commissario straordinario per l'emergenza Covid 19. Le merci sono arrivate via ferrovia da Xian in Cina con ingresso nell'Unione Europea attraverso la Polonia. Il 17 settembre ne sono arrivate 26 milioni, sempre da Xian e contenute in 32 container. Il 4 altri 3 milioni. Il 31 agosto 31 milioni. D'altra parte un rapporto Ocse di maggio avvertiva di come nessun Paese al mondo producesse in modo efficiente tutti i beni di cui c'è bisogno per combattere il Covid 19. Solo Germania e Stati Uniti si stanno specializzando nella produzione di dispositivi medici. Le esportazioni globali di prodotti correlati al Covid sono concentrate in pochi Paesi. I primi 5 esportatori mondiali, che insieme rappresentano il 49% del commercio, sono Germania, Stati Uniti, Svizzera, Repubblica popolare cinese e Irlanda. L'Italia è al nono posto, con appena il 4% delle esportazioni. Del resto, un'elaborazione dei dati Istat da parte di Assosistema Confindustria di fine settembre spiegava che da febbraio a maggio del 2020 sono state importate mascherine per un valore complessivo di 1,1 miliardi di euro. In totale si parla di 1,5 miliardi di dispositivi di protezione. Facendo un calcolo in base ai dati delle dogane, da maggio a oggi dovrebbero essere 1,7 miliardi le mascherine importate. Il 90 per cento degli articoli acquistati risulta provenire dalla Cina. Zennaro ha presentato anche un'interrogazione parlamentare, dove spiega che su quel materiale in arrivo dalla Cina è stato «autorizzato inoltre l'utilizzo di Dpi non marcati Ce privi di certificati che ne comprovino la reale efficacia». Per questo il deputato del gruppo Misto, spiega che «la provenienza dei singoli dispositivi di protezione individuale, come le mascherine, rappresenta una questione di interesse pubblico in termini di garanzia di sicurezza e rispetto dell'ambiente». Quali sono quindi i Paesi che inviano in Italia mascherine? Quali le società importatrici? Quali sono i volumi di fornitura da febbraio a settembre? Zennaro domanda soprattutto «se il governo intenda avviare una programmazione strategica nazionale per l'approvvigionamento di presidi utili contro il Covid-19 e quali iniziative intenda adottare per valorizzare le aziende italiane produttrici di Dpi marcati Ce». Al momento non è arrivata risposta. Non solo. Negli ultimi giorni a Roma è scoppiato anche il caso delle mascherine prodotte da Fca, una delle industrie più importanti nel nostro Paese. Alcuni genitori di alunni se ne sono viste recapitare a casa. Ma non riportano il marchio Ce, né sulla busta, né sulla mascherina stessa. Non hanno il ferretto per aggiustarle sul naso. E, contrariamente alle mascherine chirurgiche, hanno gli elastici sul lato lungo e non su quello corto. In teoria sono autorizzate, ma la confusione generale ha fatto correre ai ripari le famiglie che hanno fornito ai figli altre mascherine acquistate in farmacia, con marchi e certificazioni. Si attendono spiegazioni dal commissario straordinario. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/arcuri-manda-nelle-scuole-le-mascherine-dei-cinesi-senza-la-certificazione-ce-2648220596.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="controlli-lumaca-sui-decessi-da-covid-medici-e-legali-invocano-trasparenza" data-post-id="2648220596" data-published-at="1602789334" data-use-pagination="False"> Controlli lumaca sui decessi da Covid. Medici e legali invocano trasparenza Nel nostro Paese, i morti fino ad oggi per Covid-19 e senza patologie pregresse potrebbero essere «solo» 1.296. Il numero, infinitamente più basso delle cifre ufficiali, è frutto di un semplice calcolo statistico elaborato sui dati forniti dall'Istituto superiore della sanità (Iss). A ragionare in base alle tabelle e non in astratto sulla ben minore letalità del virus rispetto allo spauracchio quotidiano in cui ci costringono a vivere da mesi, sono alcuni avvocati e medici di Trieste che formano il gruppo Presidio 2020. Attenti a tutte le violazioni dei diritti dei cittadini e della Costituzione perpetrate «con la scusa del lockdown», si sono resi conto che dei 36.051 decessi registrati da inizio epidemia sono state esaminate appena 4.400 cartelle cliniche. Poco più del 12% del totale. Su Epicentro, il sito di epidemiologia dell'Iss rivolto agli operatori del servizio sanitario nazionale, i dati aggiornati al 4 ottobre sono stupefacenti: solo 160 pazienti (il 3,6% del campione) non presentava altre patologie, quindi sarebbero certamente morti per il coronavirus. Quanto agli altri, 599 (il 13,6%) soffrivano già di una patologia; 874 (il 19,9%) di due e 2.767 (il 62,9%) presentavano tre o più infermità. «La prima questione, scandalosa, è perché procedano così a rilento nell'esaminare le cartelle. Poi, perché non pubblicizzino questi risultati, assieme a tanti altri di cui ci inondano?», osserva l'avvocato Pierumberto Starace che assieme ai colleghi Alessandra Devetag e Stefano Sibelja, al consigliere regionale del Friuli Venezia Giulia, Walter Zalukar, alla senatrice Laura Stabile e ad altri professionisti hanno dato vita a Presidio 2020. «La nostra conclusione è che non si voglia far sapere che i morti per Covid, senza altre patologie, sono stati solo il 3,6% dei decessi fino ad oggi. Preferiscono alimentare la psicosi dei morti». Il gruppo di avvocati e medici non si è limitato a segnalare un dato tranquillamente ignorato, sebbene ufficiale. Ha considerato che se la tendenza è la medesima con appena il 3,6% dei decessi che vengono attribuiti esclusivamente al virus, una volta esaminate tutte le 36.051 cartelle mediche risulteranno morte solo per Covid 1.296 persone. «Se uno aveva il diabete o altre complicanze, come si fa a metterlo nello stesso calderone?», si chiede Starace, ricordando che «anche i pazienti tornati negativi al tampone, se muoiono sono catalogati decessi Covid, come ha dichiarato il governatore del Veneto, Luca Zaia. Ma so anche di annegati finiti a “far numero" perché erano risultati positivi». L'avvocato commenta ironico: «È vero che i dati non contano molto per il premier Giuseppe Conte, secondo il quale i morti per Covid sarebbero 135.000, ma il governo ha l'obbligo di essere meno opaco sui decessi certi». Le cartelle cliniche dovevano essere già controllate da mesi, rendendo noti i risultati. Sono l'unico mezzo di indagine per accertare l'impatto dell'infezione sulla mortalità totale, dal momento che autopsie non se ne fanno o se ne autorizzano troppo poche. Lo scorso 29 luglio Stefano Manera, chirurgo, medico anestesista e rianimatore che aveva prestato servizio in modo volontario all'Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo durante l'emergenza Covid, commentava sui social: «Oggi in sede ufficiale, nel Parlamento Italiano, ho chiesto ragione sul perché le autopsie siano state negate, così come perché le domande sulle terapie non abbiano avuto risposta. L'unica risposta è stato ottenere l'avvio di un procedimento disciplinare nei miei confronti». Come già a maggio precisò Manera «la circolare diffusa il 2 aprile a tutti gli ospedali italiani dal ministero della Salute retto da Roberto Speranza, diceva: “Per l'intero periodo della fase emergenziale non si dovrebbe procedere all'esecuzione di autopsie o riscontri diagnostici nei casi conclamati di Covid-19, sia se deceduti in corso di ricovero presso un reparto ospedaliero sia se deceduti presso il proprio domicilio". Questa indicazione ministeriale risale già all'inizio dell'epidemia perché gli ospedali autorizzati a eseguire autopsie erano solo quelli dotati di sala autoptica con requisiti di sicurezza elevati». A detta di Manera «questa indicazione è stata interpretata e utilizzata come divieto nel marasma gestionale». Aggiunse: «Tutte le autopsie, tranne “quelle indispensabili", non erano da eseguire, lo comunicò il procuratore di Milano, Francesco Greco, in una circolare interna nella quale motiva a la decisione con “ragioni di sicurezza". C'era tra l'altro anche il problema del luogo in cui si sarebbero dovute svolgere, ossia l'ospedale cittadino Sacco, che risultava “già oberato" a causa del virus che aveva colpito soprattutto la Lombardia». Oggi, dal 12% delle cartelle mediche osservate sappiamo che i morti solo per Covid sono stati 160 sui 4.400 che ci vogliono far credere. Sarebbe ora che il ministro della Salute rendesse trasparenti questi dati, completando in tempi meno assurdi il controllo dei documenti sul percorso diagnostico terapeutico dei 36.051 pazienti fatti passare per morti da coronavirus. Uno spauracchio agitato in continuazione per costringerci ad accettare ogni restrizione imposta a colpi di Dcpm. «Tutto il sistema di soppressione e di forte compressione delle nostre libertà è illegale e non ha copertura legislativa sia a livello nazionale, sia a livello europeo», precisa l'avvocato Starace. «A differenza di altri Stati europei aderenti alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, l'Italia mai ha provveduto a segnalare le misure prese e i motivi che le hanno determinate. Questa è una violazione dell'articolo 15 della convenzione e come Comitato Rodotà abbiamo segnalato la violazione al Consiglio d'Europa. È ora allo studio un ricorso da presentarsi presso la Corte europea dei diritti umani».
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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