2025-01-04
Anita Cividini: «Creiamo capi che si possono tramandare»
Nel riquadro, Anita Cividini
La responsabile marketing del brand bergamasco Cividini: «Mamma e papà sono i creativi, la nostra è davvero una azienda di famiglia. Siamo forti in Giappone e in tutto l’Est, ora guardiamo agli Usa. Sto ideando un passaporto digitale che accompagni ogni modello».L’intervista, in effetti, non poteva che essere così, a tre voci: Anita Cividini e le grida e le risa dei suoi bimbi, Gaia di tre anni ed Ettore, uno e mezzo, mentre giocavano sul letto. «Sono nati a New York, hanno doppia cittadinanza», racconta Anita, seconda generazione (potrebbe essere già pronta la terza) dell’azienda di famiglia fondata dai suoi genitiori Miriam e Piero Cividini, brand bergamasco di maglieria di alta qualità (e non solo). Un mix di lavorazioni artigianali e di moderna tecnologia con un design raffinato e pulito, materiali super pregiati e una manifattura inimitabile.Non poteva che essere questa la sua strada. «Ho respirato moda dalla nascita, fin da piccola giravo tra telai, rocche, scatoloni, maglie e prove. Mi hanno sempre portato ovunque nei loro viaggi di lavoro. Quando ho finito l’università, volevo anch’io entrare in azienda però i miei mi sconsigliavano di farlo. Ma io testarda ho seguito le loro orme. Dopo qualche anno me ne sono andata, avevo bisogno di trovare la mia strada, la mia identità anche al di fuori del contesto famigliare. Oggi i designer e i direttori creativi sono sempre mamma e papà mentre il mio ruolo è di head of merchandising».Che esperienze ha avuto? «Ho fatto un master in Bocconi e poi sono riuscita a trovare un posto da Jimmy Choo a Londra, dove sono rimasta un paio d’anni. Nel frattempo mi sono sposata, mio marito è stato spostato dalla sua azienda a New York e l’ho seguito. Ho trovato lavoro prima da Armani e poi da Valentino, dove mi occupavo di tutto l’assortimento dei negozi di Valentino donna e abbigliamento donna». Perché è tornata a casa? «Per il richiamo della responsabilità: ho sempre lasciato un pezzo di cuore in azienda e, in più, sono anche figlia unica. Riuscire ad applicare le mie conoscenze sviluppate all’estero in contesti internazionali nella nostra realtà era, per me, una sfida super interessante. In una piccola impresa è più facile cambiare le cose. L’azienda era come un fratello: siamo nati nello stesso anno, nel 1988. Mancando per tanti anni, vedendo quello che fanno le altre aziende anche a livello di strategia e di distribuzione e avendo toccato un mercato importante come quello degli Stati Uniti che può dare ottime soddisfazioni, non potevo che tornare».Eppure, si dice che il futuro sia nelle mani dei grandi brand. Lei cosa ne pensa? «C’è un ampio spazio anche per le piccole e medie imprese. Nessuno di noi ha avuto la pretesa di diventare un mega brand e non è questo il nostro obiettivo, vogliamo rimanere quel che siamo nel senso di gestione controllata perché, quando diventi grande, ti perdi dei pezzi. Rimanendo, invece, un marchio di nicchia, abbiamo una produzione molto controllata e questo ci permette di sapere dall’inizio alla fine dove vengono fatte le nostre cose, chi le tocca, chi le maneggia. Hai più controllo, vedi tutto con i tuoi occhi. Quando sei grande è diverso». Grazie a lei state acquisendo sempre maggiore forza nel mercato americano? «Diciamo che è un mercato che conosco, estremamente complesso e dove nulla è scontato. Abbiamo un partner a New York che si occupa della gestione degli ordini e dello showroom e l’idea è quella espanderci maggiormente. Già al momento abbiamo buoni risultati».Quali sono i vostri, altri mercati di riferimento? «Il nostro mercato principale è il Giappone, da trent’anni: lì abbiamo sei shop in shop nei migliori department store e altri specialty store, multibrand giapponesi. Altro mercato fondamentale è Taiwan. Quindi, possiamo dire che per noi la componente asiatica è molto importante. Il nostro stile, il design, i colori, le forme vanno bene in questi Paesi molto particolari. E l’apprezzamento del made in Italy, quello vero, puro, quello dell’artigianalità, l’altissima qualità dei materiali e non solo quello dell’etichetta sono i requisiti più apprezzati. Cividini è distribuito in 80 boutique multimarca in Giappone, che salgono a 350 con Italia, l’Europa, gli Usa, Taiwan, la Corea, il Canada, l’Australia e la Cina».Quale è la vostra produzione? «È molto controllata, lavoriamo con cinque maglifici nel Veneto e li conosciamo come se fossero di famiglia. Sono anni che ci lavoriamo e si sono creati rapporti che vanno al di là del lavoro. Ci piace creare una sorta di comunity di lavoratori intorno a noi, di persone appassionate di questo know how di artigianato italiano. A Bergamo c’è l’ufficio stile e la logistica». A cosa sta lavorando? «Voglio introdurre il passaporto digitale di ogni nostro capo, così i clienti potranno seguire il percorso di ogni creazione, dalla materia prima al prodotto finito, scoprendo l’anima di ogni acquisto firmato Cividini, che diventa un racconto trasparente». Quando sarà possibile? «Tutto questo sarà possibile tra qualche mese, basterà scansionare un Qr code. Il nostro obiettivo è produrre una moda che duri nel tempo e che possa essere tramandata da madre a figlia, nella mia famiglia è esattamente così. Per questo, Cividini continuerà a valorizzare l’artigianalità italiana, utilizzando solo i migliori materiali e adottando tecniche di produzione sostenibili. Ci impegniamo a creare capi che siano un investimento per il futuro, sia per chi li indossa sia per il pianeta».
Donald Trump (Getty Images)
Andrea Crisanti (Imagoeconomica)