
Il voto negativo alla permanenza nel Csm dell'intero comitato di presidenza dimostra che pure il Quirinale aveva deciso di mandare in pensione l'ex pm. Il «tradimento» del figlioccio Nino Di Matteo. Ma Piercavillo è pronto a ricorrere al Tar.Puro Shakespeare anche per via della rima finale. «Per non violare principi costituzionali fondamentali» (prima coltellata) «con difficoltà umana e in piena coscienza» (seconda coltellata) «voto a favore della proposta di decadenza». A questo punto la terza coltellata è inflitta, un tuono irrompe nel salone e l'uomo che ha pronunciato quelle solenni parole, il pm antimafia Nino Di Matteo, da delfino diventa Bruto che osserva il Camillo Davigo caduto. Il cambio di rotta è completo, il delitto è perfetto. La pièce è finita, l'ultimo eroe di Mani Pulite si rialza e va in pensione. Applausi liberatori.C'è tutta un'epica giudiziaria nel finale di partita che determina l'uscita di scena dal Csm del dottor sottile di Tangentopoli, uno dei pm più famosi e televisivi della nostra quotidianità. E c'è un'irriducibile volontà del protagonista di non volersi schiodare, di non volersi arrendere alla clessidra del tempo che passa, aiutato in questo da estimatori di vecchia data nella politica e nel giornalismo. Eppure sembra finita: 13 contrari, 6 favorevoli, 5 astenuti. È scontato che lui faccia ricorso al tribunale amministrativo, scelta legittima, sensazione di volere in ogni caso aggrapparsi al trumeau, poi allo stipite della porta, infine al davanzale. Accade tutto in 48 ore, con coincidenze che in altri casi sarebbero ascritte a qualche asteroide di passaggio. Davigo compie 70 anni, va in pensione da magistrato, è costretto a lasciare lo scranno al Csm proprio perché non ha più la toga sulle spalle e la sua corrente Autonomia&Indipendenza esce con le ossa rotte dalle elezioni a Palazzo dei Marescialli. Passa da 1.271 voti a 749, quindi da sei a quattro seggi, mentre Area (sinistra) e Magistratura indipendente (centrodestra) sono oltre i 1.500 consensi. Una disfatta su tutta la linea che avviene mentre il protagonista è a Perugia, impegnato a deporre in Procura nell'inchiesta di Raffaele Cantone sull'ex magistrato Luca Palamara, che poche settimane fa è stato espulso dal Csm per opera di una sezione della quale faceva parte lo stesso Davigo. Per le toghe il periodo è particolarmente complicato e i veleni interni possono avere intaccato le alleanze, ma una domanda alla base della defenestrazione di un uomo-simbolo oscura ogni altra questione: dove ha trovato il Csm la forza di votare contro Davigo e di impedirgli altri quattro anni da uomo immagine del giacobinismo dopo averlo voluto con un plebiscito nel 2018 pur sapendo che sarebbe entrato in età da pensione?La risposta è nel voto contrario di tutto il Comitato di presidenza, a partire dal vicepresidente David Ermini e dei vertici della Cassazione, Pietro Curzio e Giovanni Salvi. La risposta è nelle parole di Ermini, ecumeniche e definitive: «La Costituzione ci costringe a rinunciare a Davigo. Questa è una decisione dolorosa, amara ma inevitabile». Il comitato è interfaccia diretta del Quirinale dove abita il presidente dell'organo di autogoverno della magistratura, Sergio Mattarella. Il suo beneplacito dev'essere stato decisivo. Prima perplesso, poi infastidito da alcune prese di posizione frontali di Davigo («Il male dell'Italia è aspettare le sentenze definitive», «I processi sono lunghi per colpa degli avvocati difensori», «Innocenti in carcere? No, colpevoli che l'hanno fatta franca»), è probabile che il capo dello Stato abbia colto la palla al balzo, con una posizione in punta di diritto, per salutare il pm uscente con il fazzoletto bianco non si sa se intriso di lacrime.Durante Mani Pulite, mentre il pool decapitava la prima repubblica, i due non si sono mai incrociati anche perché Mattarella fu solo sfiorato dalle inchieste. Nel 1993 fu raggiunto da un avviso di garanzia dopo le dichiarazioni di un imprenditore edile siciliano che lo accusava di avere ricevuto 50 milioni di lire e buoni benzina. Allora era vicesegretario di Arnaldo Forlani (ben altro coinvolgimento), rappresentava l'ala sinistra della Democrazia cristiana, fu assolto pienamente ma alla notizia si dimise da tutti gli incarichi politici per difendersi. In quegli anni il pm Davigo era uno degli angeli vendicatori, teorici del tintinnio di manette (con Francesco Saverio Borrelli, Gerardo D'Ambrosio, Gherardo Colombo, Antonio Di Pietro) e stabilì un primato per l'epoca, una delle più lunghe detenzioni preventive della storia repubblicana: quella dell'imputato Giuseppe Cerciello, generale della Guardia di finanza, rimasto per otto mesi nel carcere militare di Peschiera.Davigo desiderava spostare il giorno dell'addio come un borghese da giorno feriale, ma prima o poi tutto finisce. E anche un pm d'assalto, che voleva «rivoltare l'Italia come un calzino» e teneva la leggendaria cartelletta gialla sulla scrivania con dentro gli articoli querelabili dei giornalisti, ora dovrà guardare i cantieri come tutti fra un'ospitata in televisione e l'altra. Era stato acceso come faro della Costituzione, forse avrebbe voluto crearne una sua per perpetuare il ruolo da angelo della giustizia. O di quell'idea di giustizia che piace al Movimento 5 stelle. Per salvarlo dopo il no del Consiglio di Stato, il governo giallorosso (renziani a parte) nei mesi scorsi le ha tentate tutte. Ha perfino presentato alla Camera emendamenti ad alcuni decreti sulla pandemia nei quali si prevedeva il rinvio di due anni del pensionamento dei magistrati. Sono stati sempre dichiarati inammissibili dalle commissioni. Era difficile far passare l'affaire Davigo come emergenza sanitaria.
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Il premier dalla campagna elettorale di Acquaroli ad Ancona: «Elly Schlein mi chiede di fare nomi e cognomi di chi mi odia? Ci stiamo una giornata».
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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Leone XIV torna a invocare il cessate il fuoco nella Striscia e il rilascio dei rapiti: «Dio ha comandato di non uccidere». L’Ue annuncia sanzioni contro Israele, ma per i provvedimenti più severi servirà l’ok del Consiglio. Decisive Germania e Italia.
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