
Sondaggio del «New York Times»: il 64% dei democratici è contrario a un secondo mandato. La percentuale sale al 94% fra i giovani. Il partito è spaccato fra moderati e sinistra estrema. E si profila una batosta alle elezioni di midterm a novembre.Nubi nere si addensano all’orizzonte per Joe Biden. Secondo un sondaggio del New York Times, il 64% degli elettori dem non lo vuole come candidato presidenziale nel 2024. Tra gli under 30, il dato sale addirittura al 94%. Il malcontento serpeggia soprattutto nell’ala sinistra dell’Asinello. A giugno, la deputata Alexandria Ocasio-Cortez si era rifiutata di dare il proprio endorsement a un’eventuale ricandidatura di Biden, mentre l’organizzazione progressista Rootsaction (che ha in passato sostenuto Bernie Sanders) sta lanciando una campagna per dissuadere l’attuale presidente dal ripresentarsi nel 2024. Biden deve quindi fronteggiare una sollevazione interna, mentre vari potenziali contendenti dem (come il cinquantaquattrenne governatore della California, Gavin Newsom) iniziano già a scaldare i motori. Per l’inquilino della Casa Bianca si profila quindi una situazione peggiore rispetto a quella (pur non rosea) di Donald Trump, che ha l’appoggio del 49% degli elettori repubblicani a fronte di un 46% che preferirebbe invece un altro candidato. È pur vero che, secondo il New York Times, in un ipotetico nuovo duello con Trump, Biden avrebbe un vantaggio del 3%. Si tratta tuttavia di una magra consolazione, visti il margine esiguo e le rilevazioni che, negli ultimi mesi, hanno spesso dato per vincente l’ex presidente repubblicano. Tra l’altro, un sondaggio di Politico rivela che, se secondo il 61% degli americani Trump non dovrebbe ricandidarsi, gli ostili a un Biden bis sono il 64%. «Il tasso di disapprovazione di Biden è il più alto dai tempi di Richard Nixon durante lo scandalo Watergate: una situazione ovviamente molto differente», ha detto alla Verità Tim Phillips, stratega repubblicano che ha guidato Americans for prosperity, organizzazione vicina al Tea party e collegata al network dei fratelli Koch. «Il presidente è chiaramente in difficoltà. Ho i miei dubbi che sarà lui il candidato dem nel 2024», ha aggiunto Phillips. Certo è che la crisi di leadership di Biden rischia di avere delle ripercussioni disastrose sull’intero Partito democratico. Se dovesse infatti annunciare il no a una ricandidatura, si innescherebbero prevedibilmente delle primarie dem affollate e rissose, con candidati che si troverebbero in imbarazzo a gareggiare mentre nello Studio ovale siede un presidente del loro stesso partito, rifiutatosi di correre per un secondo mandato. L’ultimo inquilino della Casa Bianca dem che rinunciò a una ricandidatura fu Lyndon Johnson nel 1968: un anno in cui furono non a caso i repubblicani a conquistare la presidenza con Nixon. È poi chiaro che questa situazione rischia di pesare sull’Asinello anche in vista delle lezioni di midterm del prossimo novembre. Al di là della sfibrata leadership di Biden, qui a influire è anche l’eccessivo spostamento a sinistra dei dem, che sta agitando quote crescenti di elettori. «Penso che queste siano le elezioni di metà mandato più gravide di conseguenze nella storia americana moderna», ha dichiarato Phillips, per poi proseguire: «Ci volgeremo verso lo statalismo, tasse più alte, un maggiore ambientalismo radicale e verso ancor più derive culturali woke? Questo è quello che offre la sinistra. Oppure ci volgeremo verso una maggiore libertà individuale, un’economia forte e tasse più basse? Questo è quello che vogliono i repubblicani e io penso che ci sarà una vittoria clamorosa. Penso che conquisteranno la Camera e che prenderanno il Senato». «Ritengo che la sinistra si sia estremizzata troppo e che abbia spaventato molti americani. Lo vedo ogni giorno. Alcuni giorni fa ero ad Atlanta (in Georgia, uno degli Stati chiave, ndr) con degli elettori indecisi. Vedevo che erano spaventati da ciò che sta accadendo: l’inflazione, il costo dell’energia più alto, il crimine violento e molto altro», ha chiosato Phillips, mettendo tuttavia al contempo in guardia da alcune derive stataliste che, secondo lui, riguarderebbero determinati pezzi del Partito repubblicano. Qualcuno aveva ipotizzato che la sentenza della Corte suprema sull’aborto avrebbe ricompattato i dem e rilanciato la leadership di Biden. In realtà, sta accadendo l’esatto opposto. Le spaccature tra sinistra e centristi si sono acuite, mentre le frange radicali stanno accusando il presidente di immobilismo. Inoltre le primarie dem, svoltesi nel New York e in Illinois dopo la sentenza, hanno registrato un’affluenza piuttosto bassa. Un ulteriore segnale poco promettente per l’Asinello. Un segnale che lascia intendere come le midterm si giocheranno probabilmente su inflazione e crisi migratoria: i due grandi punti deboli di Biden.
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore.
Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.






