2018-11-08
Altra sberla al Bullo. È incostituzionale la norma che apriva alle spiate di Stato
La Consulta boccia la legge di Matteo Renzi che impose alla polizia giudiziaria di informare i superiori di tutte le indagini in corso.Mentre la Procura di Napoli e il Noe di Gianpaolo Scafarto indagavano su babbo Tiziano, i vertici dell'Arma dei carabinieri e il ministro allo Sport Luca Lotti, Matteo Renzi, da presidente del Consiglio, ha provato a forzare l'equilibrio dei poteri dello Stato, in barba alla Costituzione e soprattutto minando le basi dell'indipendenza della magistratura. È quanto si legge tra le righe della decisione di ieri della Corte costituzionale, che si è espressa su una postilla - articolo 18 comma 5 del decreto 177 - infilata nel decreto legislativo del 19 agosto del 2016 per razionalizzare il corpo di polizia forestale. Si tratta dell'ormai noto blitz balneare che l'ex presidente del Consiglio portò avanti in gran segreto durante le indagini sulla Consip, una postilla che obbligava fino a ieri gli agenti di polizia, carabinieri e Guardia di finanza, nelle funzioni di polizia giudiziaria, a comunicare ai propri superiori il contenuto delle indagini appena avviate. Fu un colpo di mano che di fondo penalizzò il lavoro del procuratore di Napoli Henry John Woodcock - come lui stesso poi denunciò al Consiglio superiore della magistratura mentre si difendeva nei processi disciplinari-, ma che soprattutto venne incontro a due indagati, l'ex comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette e l'ex comandante della legione Toscana Emanuele Saltalamacchia, entrambi vicini al presidente del Consiglio. Il primo fu nominato al vertice dell'Arma proprio dal governo Renzi nel 2014, mentre per il secondo ci fu un tentativo da parte dello stesso esecutivo di nominarlo numero uno dell'Aisi, i servizi segreti che si occupano del controspionaggio. Che ci fosse stata un'invasione del potere esecutivo in quello giudiziario era prima solo un'opinione, ora invece a dirlo è la Consulta, massimo organo di garanzia del nostro ordinamento. Non senza qualche polemica interna. A quanto pare il voto degli ermellini è stato sofferto, con una maggioranza risicata di appena un voto di scarto, con otto a favore e sette contrari. A difendere la norma sarebbe stato soprattutto l'ex presidente del Consiglio e giudice costituzionale Giuliano Amato. Si legge nella nota: «La Corte, pur riconoscendo che le esigenze di coordinamento informativo poste a fondamento della disposizione impugnata sono meritevoli di tutela, ha ritenuto lesiva delle attribuzioni costituzionali del pubblico ministero, garantite dall'articolo 109 della Costituzione, la specifica disciplina della trasmissione per via gerarchica delle informative di reato». Gira tutto intorno alla parola «lesiva» la decisione di accogliere il ricorso del procuratore di Bari Giuseppe Volpe presentato nel dicembre del 2016, contro quella norma agostana scritta a pochi mesi dal referendum costituzionale del 4 dicembre, che è stata soprannominata in questi anni nei corridoi di palazzo di giustizia come «la spiffera inchieste». Del resto di spifferate, secondo le indagini, ce ne erano già state diverse prima dell'estate del 2016, come spiegato ai magistrati dall'ex numero uno di Consip Luigi Marroni, tanto che proprio Del Sette e Saltalamacchia rischiano il processo per fuga di notizie e favoreggiamento. Tra due settimane ci sarà la pubblicazione della sentenza, ma ora pare di poter dire che il governo Renzi stravolse i poteri dello Stato, per di più mentre i parenti del presidente del Consiglio erano sotto indagine. Già all'epoca tra le toghe si alzò una levata di scudi, soprattutto da parte del procuratore capo di Torino Antonio Spataro, perché un'imposizione di questo tipo rischiava di essere un danno per le inchieste, visto che comunicare ai vertici informazioni sulle indagini può significare rivelarle alla politica, al governo che nomina comandanti e generali nei vari corpi. Spataro parlò già nel dicembre del 2016 di incostituzionalità e di «contrasto anche con alcun norme del codice di procedura che attribuiscono al pm il ruolo di dominus esclusivo dell'indagine. Qui invece», sostenne l'ex magistrato della procura di Milano, «si stabilisce, attraverso un'evidente forzatura, che un atto non ancora valutato dal pm finisca sul tavolo di strutture direttamente dipendenti dal potere esecutivo. Così il segreto investigativo rischia di diventare carta straccia». Alla Corte costituzionale si è arrivati grazie a un procuratore di Bari che ha presentato ricorso alla Consulta il 25 luglio del 2017, poi accolto nel dicembre dello scorso anno. Nel dispositivo di ammissibilità firmato dal relatore Niccolò Zanon, si leggeva appunto che l'intervento normativo del governo Renzi avrebbe minato «la garanzia d'indipendenza funzionale del pubblico ministero da ogni altro potere. Nello specifico dal potere esecutivo, per essere lesa ad opera di una disposizione che prevede la trasmissione per via gerarchica delle notizie relative all'inoltro delle informative di reato all'autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale». Non a caso vista «la stretta correlazione tra azione penale obbligatoria e segretezza delle indagini», la deroga a quest'ultima, «peraltro a beneficio di organi dell'Amministrazione neppure dotati della connotazione di appartenenti alla polizia giudiziaria», potrebbe porre a rischio l'esito positivo delle investigazioni e, per ciò stesso, l'effettività ed efficacia dell'esercizio dell'azione penale». Ora lo dice la Consulta. Per Woodcock ha tutta l'aria di una rivincita.
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
Continua a leggereRiduci