2025-09-17
Su Almasri il governo passa al contrattacco
Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano (Ansa)
Nella memoria inviata alla Giunta di Montecitorio, Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano ricostruiscono gli allarmi dell’intelligence sull’incolumità di 500 nostri concittadini in Libia. Poi accusano il Tribunale: «È un processo alle intenzioni, che prescinde dai fatti».«La legge costituzionale non immagina privilegi, ma neanche pregiudizi. Non prevede deroghe in favore, ma neanche eccezioni in danno degli indagati». Così comincia la memoria di 23 pagine che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, il Guardasigilli Carlo Nordio e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano hanno depositato alla Giunta per le autorizzazioni, che si riunirà oggi. È un testo che ha il passo della contro-inchiesta e che smonta, pezzo per pezzo, la ricostruzione del Tribunale dei ministri. I tre uomini del governo, indagati per favoreggiamento e omissione in atti d’ufficio nel caso del rimpatrio del generale libico Osama Almasri, marcano il perimetro della decisione politica che portarono avanti tra il 19 e il 21 gennaio scorso. Decisione che, scrivono, fu presa per proteggere la «sicurezza nazionale» e per evitare conseguenze che, secondo le informazioni dell’intelligence, avrebbero potuto mettere a rischio la vita «di 500 italiani» presenti in Libia e gli interessi economici strategici, a partire dai giacimenti di Mellitah da cui arriva il gas che copre il 9 per cento del fabbisogno nazionale. «Nella domanda di autorizzazione e nell’iter che la ha preceduta», scrivono i tre, «le violazioni di legge sono così gravi e numerose che, ai fini del rigetto o della inammissibilità, potrebbero anche esimere dall’entrare nel merito». La memoria elenca le anomalie: i termini di legge superati «oltre i 60 giorni di proroga» e «senza curarsi di giustificare il ritardo», il contraddittorio negato («il difensore degli indagati è stato più volte privato dell’accesso all’intero fascicolo») e le fughe di notizie che hanno visto gli atti «pubblicati da alcune testate giornalistiche» mentre agli indagati non veniva concessa la possibilità di conoscerli. Non solo. Il Tribunale, secondo gli esponenti del governo, avrebbe «marchiato di inattendibilità» il capo della polizia, il direttore del Dis, il consigliere diplomatico del ministero della Giustizia, «con affermazioni apodittiche e non motivate», e tutti i testimoni che non collimavano con l’impostazione accusatoria. «È un processo alle intenzioni, che prescinde dall’esame dell’atto in sé», accusano i tre, parlando di una motivazione inficiata da «pregiudizio». Ma la decisione del Tribunale di Roma presenterebbe anche un’altra «caratteristica»: la «scarsa dimestichezza con materie obiettivamente non facili, ad alta specializzazione» come il diritto penale internazionale, l’ordinamento interno al ministero della Giustizia, fino alla valutazione delle segnalazioni dell’intelligence. «L’irrazionalità», spiegano i tre esponenti del governo, «è figlia del pregiudizio e si accompagna con la pretesa di dettare legge in territori non propri, adoperando strumenti e categorie giudiziarie per sindacare atti di discrezionalità politica (…) che non tollerano di essere qualificati, per non dire demonizzati, quale “disegno criminoso”». Da qui la memoria passa all’attacco diretto, sottolineando che non si tratta di un errore casuale ma di un vero e proprio sconfinamento di competenze: «Di questo evidente straripamento il Tribunale alla fine è ben conscio, perché, apoditticamente, per negare la natura di atto politico della scelta del governo sull’arresto di Almasri non svolge alcuna propria considerazione, ma riporta un lungo brano di una sentenza della Cassazione». Ma «il massimo dell’acume», prosegue la memoria, «è espresso dal Tribunale a proposito dei decreti di espulsione disposti dal ministro Piantedosi e del peculato posto in prima battuta a carico del sottosegretario Mantovano, contestazioni sulle quali il procuratore della Repubblica di Roma aveva espresso parere per l’archiviazione». E ancora: «Sui decreti di espulsione, il collegio premette che il giudice non può sostituire la propria discrezionalità a quella del ministro dell’Interno in ordine al relativo esercizio nelle valutazioni di pericolosità di un soggetto. Ma poi fa esattamente quello che dice di non voler fare e identifica i decreti di espulsione come il mezzo adoperato per commettere il favoreggiamento». Quanto ai decreti di espulsione, il testo parla di «processo alle intenzioni» e di una motivazione che «prescinde dall’esame dell’atto in sé». A questo punto viene evidenziata un’altra valutazione spericolata del Tribunale: «Si fissa il principio secondo cui nessun soggetto, neanche il peggiore terrorista, può essere espulso dall’Italia se qui in Italia non ha commesso reati» scrivono i ministri, definendo questa affermazione «priva di logica giuridica e pericolosa per la sicurezza pubblica». Il cuore della difesa è nella tempistica. «Il ministro (Nordio, ndr) ha avuto l’effettiva disponibilità della documentazione ufficiale relativa alla richiesta di cooperazione il 20 gennaio 2025, in un momento certamente successivo all’esecuzione dell’arresto». La procedura? Viziata: «La questione che si pone è se la Giunta sia tenuta a considerare i gravi vizi procedurali che inficiano il procedimento del Tribunale dei ministri, in violazione di garanzie costituzionali […], il cui accertamento rende la domanda di autorizzazione tamquam non esset (ovvero nulla, ndr)». L’argomento più forte, però, è quello della sicurezza. Nella memoria si citano gli appunti classificati dell’intelligence: «Gli elementi raccolti […] evidenziato un concreto rischio di rappresaglie nei confronti della rappresentanza diplomatica italiana, del personale italiano presente a Tripoli e dei connazionali in transito presso l’aeroporto di Mitiga (in quel momento controllato dalla Rada, la milizia guidata da Almasri, ndr)». Lo stesso direttore dell’Aise, il prefetto Giovanni Caravelli, è stato chiaro: «C’erano informazioni che qualora Almasri fosse stato arrestato e non sarebbe rientrato in Libia si sarebbero verificate delle ritorsioni nei confronti di siti e persone italiane». La memoria non risparmia colpi neanche sul volo con cui è stato rimpatriato il generale. «Se poi la Giunta ritenesse per assurdo che l’uso per questo fine del volo di Stato rappresenti peculato, l’effetto sarebbe la cessazione della cooperazione giudiziaria e di polizia, perché certi trasferimenti sui voli di linea sono oggettivamente impossibili». La conclusione è netta: «La condotta seguita dal ministro Nordio, lungi dall’integrare le fattispecie di omissione in atti di ufficio e di favoreggiamento, è stata motivata dal preminente interesse pubblico di garantire la corretta attuazione delle disposizioni della legge». Piantedosi e Mantovano hanno agito «per la salvaguardia della sicurezza nazionale, unitamente alla incolumità e alla libertà personale delle centinaia di cittadini italiani presenti in Tripolitania».
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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