Crisi nei cieli, nella vecchia Alitalia ci sono 7 mila posti di lavoro a rischio

Nella vecchia Alitalia 7 mila posti di lavoro a rischio
Ita Airways cerca affannosamente un partner in mezzo a tensioni e polemiche (lunedì di Pasquetta scadrà il termine per la presentazione delle prime offerte; il tandem Msc-Lufthansa si è già fatto avanti, si attendono fondi e altri vettori), mentre Alitalia ha ancora a carico circa due terzi dei dipendenti.
I tre commissari straordinari della ex compagnia di bandiera Giuseppe Leogrande, Daniele Santosuosso e Gabriele Fava e i segretari nazionali dei sindacati Cgil, Cisl, Uil, Ugl hanno siglato un memorandum, indirizzato al ministro del Lavoro Andrea Orlando, dal titolo significativo: «NewJob: progetto condiviso per la ricollocazione del personale Alitalia».
Nella prima sezione, che fotografa la situazione attuale dell’amministrazione straordinaria, vengono identificati puntualmente 7.800 dipendenti. Se si sottraggono le 800 posizioni dichiarate pensionabili nell’arco temporale 2022-2025, comprensivo di Cigs e Naspi, si arriva a dichiarare che oggi esistono 7.000 dipendenti senza alcuna certezza riguardo al proprio futuro, dei quali 3.600 sono impiegati alle aree handling e manutenzione, che saranno cedute a breve. «E la vendita è a società private», dicono fonti sindacali, «di cui non sono noti né i piani industriali né gli impatti occupazionali; in ballo ci sono 2.300 posti nl settore volo e 1.100 in quello di staff, entrambi esclusi dai piani della piccola Ita per la quale il governo sta accelerando la privatizzazione».
Il programma Newjob affronta il tema della «formazione e ricollocazione dell’esubero Alitalia essenzialmente perché non è possibile ignorarne l’esistenza, derubricandola solo a poche centinaia di casi risolvibili con pensionamenti», proseguono fonti del sindacato. «Ci rammarica constatare che l’eventuale soluzione viene demandata a chi il problema occupazionale lo ha creato».
I sindacati criticano anche alcune indiscrezioni di stampa trionfalistiche, secondo le quali il 95% dei dipendenti Alitalia sono stati assorbiti da Ita, Atitech e Swissport. «Giocare scorretto coi numeri riesce sicuramente molto facile per far quadrare i conti della complicità asservita ai palazzi che dispongono delle vite e della narrazione che di esse viene data in pasto ai lettori», dicono. «Abbiamo letto distorsioni evidenti, del tipo che ‘complessivamente gli esuberi potrebbero essere meno di 800; si tratta di personale vicino alla pensione o che per scelta non intende rimettersi in gioco’. Ma perché raccontare queste falsità?».
Purtroppo sembra evidente che «ci sono migliaia di persone che nel passaggio da Alitalia a Ita sono state espulse dal mondo del lavoro perché appartenenti a categorie fragili, care-giver, donne single con figli minori, portatori di tessere sindacali invise alle direzioni generali firmatarie di accordi; hanno provato sulla propria pelle il ricatto che un’azienda a capitale pubblico ha potuto attuare grazie anche alla connivenza di chi non ha voluto raccontare quello che è realmente accaduto».
«The Rainmaker» torna in tv: il legal drama di Grisham cambia città e prospettiva
La nuova serie di The Rainmaker, prodotta anche da John Grisham, approda su Sky rinnovata per una seconda stagione. Dieci episodi tra Charleston e le zone d’ombra della legalità, seguendo il percorso di un Rudy Baylor più ingenuo e disincantato.
The Rainmaker ha già avuto i suoi passaggi fortunati, prima bestseller, poi pellicola a firma di Francis Ford Coppola. Ma la storia di John Grisham, parabola perfetta per descrivere la mutevolezza delle idee, specie di quelle che l'ambizione, il potere e il denaro possono plasmare a proprio piacimento, non ha finito di chiedere adattamenti. L'ultimo, voluto tra gli altri dallo stesso Grisham, annoverato tra i produttori esecutivi, ha la forma di un racconto seriale, declinato in dieci episodi e rinnovato anzitempo per una seconda stagione.
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
La Commissione europea, sotto la presidenza di Ursula von der Leyen, si conferma campione della globalizzazione, con l’annuncio dell’apertura di una revisione sui dazi applicati alle auto elettriche prodotte in Cina dal Gruppo Volkswagen.
La ex potenza industriale Europa si sta trasformando in una colonia commerciale e il simbolo di questa triste parabola è la disastrosa imposizione dell’auto elettrica da parte dell’Unione europea, che ora si arricchisce di un nuovo capitolo: esentare dai dazi le importazioni delle auto Volkswagen prodotte in Cina.
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
Gli Usa avvertono gli alleati: «Se userete gli asset russi la pace non è raggiungibile»
- Oggi a Miami nuovo round negoziale tra la delegazione americana e quella gialloblù. Il Cremlino alla finestra: «Militari impegnati finché non otteniamo i nostri obiettivi».
- Vladimir Putin in visita al monumento del Mahatma Gandhi : «Oggi Mosca difende i suoi princìpi».
Lo speciale contiene due articoli
Nella delicata dinamica delle trattative di pace non sono ancora stati svelati i dettagli dei colloqui tra la delegazione ucraina e quella americana in Florida.
Secondo quanto riferito da Ukrainska Pravda, nella tarda serata di giovedì è avvenuta la prima riunione del quartetto composto dagli ucraini Rustem Umierov e Andrii Hnatov, e dagli americani Steve Witkoff e Jared Kushner. Ma una fonte vicina alla squadra negoziale di Kiev ha rivelato che un secondo round è stato fissato ieri. A confermare l’indiscrezione è stato sia il consigliere del capo dell’ufficio presidenziale ucraino, Oleksandr Bevz, sia Axios. Che ha aggiunto che gli incontri dovrebbero proseguire anche oggi.
Ad attendere l’esito dei colloqui è soprattutto Mosca. Il consigliere presidenziale russo, Yuri Ushakov, ha infatti affermato: «Spero che condivideranno con noi questi risultati, e poi vedremo».
Gli obiettivi della missione gialloblù a Miami sono stati svelati dallo stesso presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che ha scritto su X: «Il nostro compito è ottenere informazioni complete su quanto è stato detto a Mosca e sugli altri pretesti escogitati da Putin per prolungare la guerra». Intanto il Cremlino passa la responsabilità sull’eventuale fine del conflitto a Kiev. Il portavoce russo, Dmitry Peskov, ha dichiarato al canale Rt: «Se non avremo la possibilità di raggiungere i nostri obiettivi con mezzi pacifici, continueremo l’operazione militare speciale e faremo tutto il necessario per proteggere i nostri interessi».
L’amministrazione americana sul fronte dei negoziati oscilla tra cautela e ottimismo. Il presidente americano, Donald Trump, ha commentato: «Stiamo portando la pace in tutto il mondo. Stiamo risolvendo le guerre a livelli mai visti prima. Otto. Ne stiamo cercando un’altra, quella tra Russia e Ucraina, se possibile, e penso che prima o poi ci arriveremo». Sempre fiducioso ma più prudente è stato il vicepresidente statunitense, J.D. Vance, che, pur dicendo che «ci sia speranza», ha puntualizzato: «Abbiamo fatto molti progressi, ma non siamo ancora del tutto al traguardo».
Non si può dire però che l’amministrazione americana nutra la stessa positività nei riguardi dell’Europa. Nel documento sulla Strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, diffuso ieri dalla Casa Bianca, si legge: «L’amministrazione Trump si trova in contrasto con i leader europei che nutrono aspettative irrealistiche riguardo alla guerra, appoggiati da governi di minoranza instabili, molti dei quali calpestano i principi fondamentali della democrazia per reprimere l’opposizione. La grande maggioranza degli europei vuole la pace, ma questo desiderio non si traduce in politiche concrete, in gran parte a causa della sovversione dei processi democratici da parte di quei governi». E non è detto che «alcuni Paesi europei avranno economie e forze armate abbastanza forti da restare alleati affidabili». Peraltro, viene esplicitamente menzionata l’ipocrisia tedesca: «La guerra in Ucraina ha avuto l’effetto perverso di aumentare la dipendenza esterna dell’Europa, in particolare della Germania. Oggi, le aziende chimiche tedesche stanno costruendo alcuni dei più grandi impianti di lavorazione del mondo in Cina, utilizzando il gas russo che non possono ottenere in patria». Nel documento viene anche annunciato che una delle priorità americane è «mettere fine alla percezione, e prevenire la realtà, di una Nato come alleanza in perpetua espansione». Tra l’altro, secondo Reuters, entro il 2027 Washington vuole che l’Europa prenda il controllo della maggior parte delle capacità di difesa convenzionale della Nato.
Ma i contrasti tra gli Stati Uniti e l’Europa si estendono anche all’utilizzo degli asset russi congelati. Stando a quanto riferito da Bloomberg, Washington ha esercitato pressioni su alcuni Paesi dell’Ue per bloccare i piani di Bruxelles sull’uso dei beni russi. I funzionari americani avrebbero infatti comunicato agli Stati membri che gli asset servono per garantire la pace e non devono essere quindi impiegati per prolungare la guerra. Dall’altra parte, è evidente che alcuni leader europei abbiano una visione diametralmente opposta: nel tentativo di convincere il premier del Belgio, Bart De Wever, a dare il via libera sull’utilizzo degli asset congelati, il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, si è diretto a Bruxelles per cenare con lui e con il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Delle fonti tedesche hanno rivelato al Financial Times che «Merz crede che spetti a lui portare a termine» la faccenda. E con l’evidente obiettivo di ammorbidire le posizioni dell’osso duro De Wever, il portavoce del cancelliere tedesco, Sebastian Hille, ha affermato: «Il Belgio non può essere lasciato da solo con le sue riserve, che sono giustificate e vengono prese molto sul serio dal cancelliere». E quindi Berlino sarebbe disposta a condividere parte dei costi economici: «Il cancelliere ha detto che anche i membri europei potrebbero distribuirsi il peso dei rischi» ha concluso Hille.
Lo zar si erge a discepolo di Gandhi: «Mondo più giusto se multipolare»
Il viaggio di Vladimir Putin in India ha un peso politico, economico e soprattutto geopolitico determinante. L’incontro ufficiale con il primo ministro Narendra Modi è arrivato dopo un lungo colloquio e uno scambio di opinioni avvenuto il giorno prima, nel quale i due leader avevano tracciato gli argomenti da toccare nel faccia a faccia. L’India è ormai da tempo il Paese più popoloso del mondo e ha un’economia che cresce a un ritmo superiore al 7% annuo (la Cina fatica ad arrivare al 5%).
Nuova Delhi è da tempo protagonista delle dinamiche globali e anche l’Europa ne ha compreso l’importanza, ma l’India sta portando avanti una politica estera squisitamente indiana. Con la Cina, per esempio, nonostante l’ingombrante presenza di due giganti del continente asiatico e di problemi lungo il confine, non si vuole arrivare a uno scontro, semmai si collabora.
L’India è un membro fondatore, insieme a Cina e Russia, del gruppo economico dei Brics, un’alleanza nata in funzione anti-occidentale e che si è allargata fino a comprendere Paesi provenienti da tre continenti.
L’incontro di Modi con Putin è iniziato nel palazzo presidenziale insieme anche alla presidente Droupadi Murmu. La seconda tappa è stata al Raj Ghat, il monumento commemorativo del Mahatma Gandhi. Qui il presidente russo ha sottolineato quanto l’azione di Gandhi fosse simile a quello che sta facendo la Russia, ribadendo il concetto che Mosca lavora per la pace, un mondo multipolare e senza violenza, così come faceva il padre della patria indiano.
Il premier di Nuova Delhi ha definito l’incontro con Putin come qualcosa di storico per migliorare le relazioni fra le due nazioni. Questo summit, come ha tenuto a ribadire il consigliere presidenziale dello zar, Ushakov, è una tappa fondamentale per rafforzare le relazioni internazionali della Russia. Il discorso è ovviamente scivolato sulla necessità dell’India di materie prime per continuare a crescere. «La Russia è un fornitore affidabile di petrolio, gas, carbone e tutto ciò di cui l’India ha bisogno per il suo sviluppo energetico», ha dichiarato Putin. Modi ha ringraziato Mosca e ha sottolineato come la sicurezza energetica sia un pilastro della cooperazione bilaterale.
Proprio il petrolio russo è stato al centro di una importante disputa internazionale, perché Donald Trump voleva portare al tavolo delle trattative Putin obbligando Cina e India a non acquistare più il greggio russo. Le trattative per un cessate il fuoco in Ucraina stanno andando avanti e l’amministrazione Trump ha deciso di evitare uno scontro diretto ammorbidendo parzialmente le sanzioni.
L’India ha bisogno di continuare a produrre ed è un «animale energivoro» che necessita di trasformare la sua economia di servizi in economia industriale e lo può fare soltanto utilizzando combustibile. Pechino e Nuova Delhi sono diventati da tempo i migliori clienti di Mosca, e Putin sa benissimo l’importanza del mercato indiano per il petrolio, ma anche per il gas e il carbone russo. I due leader hanno dichiarato che i legami tra le due nazioni sono resilienti rispetto alle pressioni esterne. Non va infatti dimenticato che Mosca è anche il primo fornitore di armi delle forze armate indiane e in questo meeting la Russia ha detto di voler raggiungere i 100 miliardi di dollari di scambi entro il 2030.
Intanto si è deciso di favorire la mobilità di professionisti fra i due Paesi ed è stato firmato un accordo per la spedizione in Russia di prodotti marini e agricoli indiani.














