2023-01-12
«Racconto la vita di Alessandro che con un sospiro ci diceva tutto»
Nel riquadro, Fabio Cavallari (IStock)
Lo scrittore Fabio Cavallari: «Ebbe un incidente, è morto dopo 14 anni passati in stato vegetativo. Ora lo faccio parlare. Per riempirci di dubbi».Dar voce al silenzio durato 14 anni di un ragazzo in stato vegetativo che poi morto. Fargli dire, anche, cose così: «Io sono un soggetto utile al mondo, cazzo. Vi servo. Sono il vostro Freud in carrozzina. Perché di me potete solo fidarvi. Fidandovi di voi stessi, e del mistero che la mia persona e la mia condizione vi pongono ogni volta che mi vedete». Un monologo scomodo, quello di Fabio Cavallari, autore di E adesso parlo io (Edizioni Lindau): racconta in prima persona la storia di Ale, all’anagrafe Alessandro Pivetta. Ebbe un incidente stradale a 20 anni, visse fino al 2020. Scorretto, direbbe qualcuno: Ale non era attaccato alle macchine, ma non ha mai più parlato. E invece lei, Cavallari… «Mi sono assunto l’onere etico e morale di dargli voce, sì. L’ho voluto fare - in accordo con i suoi genitori, che hanno letto ogni bozza e mai censurato nulla - perché con questo “io”, questa prima persona, voglio strattonare il lettore per la camicia. Così come è accaduto a me». Ale non poteva nemmeno muoversi. «Il nostro primo incontro è stato una enorme provocazione per me. Trovarsi davanti a lui, in carrozzina, che mi guardava fisso e non diceva nulla, ha messo me in imbarazzo, in difficoltà. Sono affiorate tutte le domande sulla mia vita. Dice Alessandro nel libro: “Io metto in dubbio le vostre certezze, scavo buchi nelle vostre fragilità, vi pongo spalle al muro da sdraiato”. Questo libro è un’operazione letteraria, con un linguaggio anche violento a volte, che vuole sollevare il dubbio». Il dubbio che quella fosse una vita degna di essere vissuta? «Che quella sia “vita” a tutti gli effetti, esatto. Certi media vogliono farci credere che è tutto accertato, che la scienza è un dio assoluto. Siamo sicuri che sia così?». Lei se lo chiede da credente? «Mi considero privo della grazia della fede. È una condizione, non un punto d’arrivo. Non mi definisco ateo perché significherebbe connotare la mia esistenza in virtù di una negazione. Oggi si è ribaltato qualcosa: chi pone dubbi sono solo gli uomini di fede. Da laico, invece, io penso che non posso che pormi il dubbio, soprattutto su questi temi». Non è la prima volta che si confronta con il tema della malattia, con i suoi libri. «In Vivi (Lindau) ho raccontato le storie di uomini e donne di tutta Italia più forti della malattia, con gravi disabilità e a volte in stato vegetativo così come fu definito Alessandro. Storie di famiglie che ogni giorno devono andare con il coltello tra i denti a bussare a porte perché qualcuno li aiuti. Che devono combattere per avere il diritto a ciò di cui hanno bisogno dallo Stato. Ho scoperto che quello che fa una differenza sostanziale tra la speranza e la disperazione è la comunità. Altrimenti, vivere diventa una battaglia impossibile». Come quelle che finiscono sui giornali? «Non lo so. So che le storie che ho incontrato, di convivenza con la malattia, sono la stragrande maggioranza. Gli altri casi, come quelli di chi sceglie il suicidio assistito, sono pochi, e meritano ovviamente altrettanto rispetto». I genitori di Alessandro, Giancarlo e Loredana, con la sorella Tatiana, scrivono nella prefazione di voler essere utili a chi ha storie simili.«Sa cosa mi hanno detto? Che in quei 14 anni con Ale si sono divertiti. Divertiti, capisce? Lo hanno portato ovunque potessero arrivare: sono stati a Sharm El Sheik o sulle Dolomiti, dal Papa, a Roma, e un po’ ovunque in Italia. Avevano attrezzato una roulotte con una sorta di carroponte per Alessandro con cui veniva sollevato grazie a una imbracatura predisposta apposta. Così come quello creato in casa per lui sul modello di quello delle stalle delle mucche, per il fieno: se l’è inventato il suo papà. Sono persone semplici, con una fede popolare e al contempo senza sbandamenti: mai hanno messo in dubbio la loro fede, hanno accolto il figlio». Loro stessi hanno il dubbio che la diagnosi di stato vegetativo non fosse corretta?«L’errore diagnostico è del 40%. Quando ho vissuto con loro, di notte ho sentito tossire Ale perché si era bagnato. Quella tosse era una forma di comunicazione? Così come la febbre, il sudore o l’arrossamento della pelle in conseguenza di un fatto specifico? Siamo sicuri che non ci fossero segni di consapevolezza di sé o dell’ambiente circostante?». Lei racconta di un sospiro.«Una volta Ale è stato in vacanza sulla neve con la sorella, per capodanno, senza i genitori: lo accudivano i suoi amici. Stette sveglio per tutto il tempo. Quando tornò a casa, lo sentirono sospirare. Ho scritto che era la sua gratitudine per quei giorni».