- Il presidente di Enpam Alberto Oliveti: «Bisogna stare sul territorio anche sotto gli Appennini. Le casse hanno metà risorse investite in Italia».
- Casse di previdenza e assistenza private, il rapporto dell'Adepp: patrimonio a 104 miliardi, all'Erario ne vanno oltre 2,6.
Il presidente di Enpam Alberto Oliveti: «Bisogna stare sul territorio anche sotto gli Appennini. Le casse hanno metà risorse investite in Italia».Casse di previdenza e assistenza private, il rapporto dell'Adepp: patrimonio a 104 miliardi, all'Erario ne vanno oltre 2,6.Lo speciale contiene due articoli. Alberto Oliveti (Imagoeconomica) Alberto Oliveti è il numero uno dell’Adepp - la Confindustria degli enti pensionistici, ma è anche il presidente dell’Enpam, l’Ente previdenziale dei medici e dei dentisti che nel 2022 si è confermata la più grande cassa pensionistica privata d’Italia. Le casse di previdenza possono contare complessivamente su circa 104 miliardi di euro di totale attivo a fine 2022, oltre 1,6 milioni di iscritti attivi e quasi 12 miliardi di euro di entrate contributive.Con la necessità di accelerare le privatizzazioni, il governo potrebbe coinvolgerle nelle future vendite di partecipazioni statali rafforzando il loro ruolo di investitore istituzionale. C’è anche chi ha parlato di un possibile ingresso delle Casse nel capitale di Cdp Equity, la controllata che ha al suo attivo le partecipazioni nella holding che controlla il 51% di Autostrade, il 71% di Fincantieri e il 60% di Open Fiber. Intanto, le casse sono chiamate a riequilibrare il peso gli investitori stranieri nel capitale delle banche. Come nel caso di Banco Bpm dove Enpam, Cassa forense e Inarcassa sono azioniste e, insieme alle fondazioni, titolari attraverso un patto di consultazione con in tasca quasi il 9% che bilancia i francesi del Credit Agricole.A settembre anche Enasarco è salita al 3,04% nel capitale di Piazza Meda ma ha deciso di rimanere fuori dall’accordo. Non solo. L’Enpam possiede anche l’1,2% di Mediobanca e il 4% di F2i (Inarcassa ha il 6,3% e Cassa forense un altro 4%), il fondo infrastrutturale che controlla società nei settori degli aeroporti, dell’energia, delle Tlc e della sanità in Italia ed è candidato a entrare con una quota fino al 15% nella rete di Tim.Abbiamo incontrato Oliveti a Milano proprio nel giorno del cda del BancoBpm che ha approvato il nuovo piano industriale. Abbiamo discusso anche di finanza e ce ne ha parlato usando termini da banchiere. Lui che nel luglio del 2020 è andato in pensione dopo quarant’anni come medico di famiglia a Senigallia. Ma per ottenere i requisiti necessari all’ingresso nel board dell’istituto guidato da Giuseppe Castagna ha dovuto passare l’«esame» della Bce, nel senso che ha dovuto seguire dei corsi di formazione specifici tenuto da Euronext: «Ho fatto dodici sessioni da tre ore ciascuna, è stato molto intenso ma anche molto interessante», ci racconta.Perché puntare su una banca? «Prima ci siamo approcciati al capitale di Bankitalia, oggi tutte le casse insieme ne possiedono circa il 25%. Secondo gli ultimi dati disponibili, Enpam, con quasi il 5%, è il secondo azionista, a pari quote con Cassa forense e Inarcassa, dopo Unicredit. Poi abbiamo valutato banche e assicurazioni e come Enpam abbiamo deciso di orientarci sulle banche entrando nel patto con le fondazioni».Da «banchiere» che ne pensa della nascita di un terzo polo bancario di cui si parla ormai da anni, lo vede all’orizzonte? «Mi chiedo perché quello sul terzo polo sia diventato un assioma, quasi un dogma. Abbiamo Intesa che ha un ruolo più sociale, più di sistema e Unicredit una missione più globale. La riorganizzazione di Mps sta andando in porto grazie al lavoro dell’ad Luigi Lovaglio. Esiste, poi, la realtà creata attorno a Unipol con Bper e Carige, infine quella del Creval con il Credit Agricole. Ricordiamoci, inoltre, che il nostro Paese non ha più una banca sotto gli Appennini, una banca romana, una banca della Capitale. C’è il rischio di perdere la presa sul territorio. E da ex medico di famiglia so quanto sia importante il contatto costante con i pazienti».Più in generale, che ruolo possono avere le casse previdenziali sia nella finanza, sia nella messa a terra degli investimenti industriali, ovvero destinati alla crescita dell’economia reale? «Le casse di previdenza sono l’esempio ante litteram della sussidiarietà orizzontale. Sono nate intorno alla metà degli anni Novanta, staccandosi dalla fiscalità generale che, invece, continua a sostenere l’Inps. Nel 2022 le casse dei professionisti hanno versato complessivamente 2,6 miliardi di euro allo Stato. La doppia tassazione, cioè le imposte che gli enti di previdenza pagano sui rendimenti degli investimenti, pesa per 640 milioni. Che ogni anno rappresentano, quindi, un di più rispetto agli standard degli altri Paesi europei, dove è invece chiaro che se investi il patrimonio per pagare delle pensioni che saranno tassate, quel patrimonio non deve essere a sua volta decurtato. Intanto, oltre la metà delle risorse delle casse è in Italia, con in particolare i Titoli di Stato che hanno superato quota 15 miliardi. Sono state colte le opportunità di diversificazione che ci si presentano. In ambito Adepp, gli investimenti immobiliari sono scesi ben al di sotto del 30%. Abbiamo fatto un percorso di traslazione degli investimenti. E poi abbiamo cominciato a guardare alle opportunità delle varie transizioni, da quella energetica a quella digitale».Tra pochi mesi si giocheranno tante partite, tra queste il futuro di Mps ma anche il rinnovo dei vertici di Cassa depositi e prestiti e Acri, l’associazione delle fondazioni. Ritiene che il sistema sia pronto per giocarle? «Le casse sono diverse dalle fondazioni che hanno scopi filantropici. Noi dobbiamo dare la precedenza alle pensioni dei professionisti. Le casse raccolgono i contributi delle professioni liberali e quindi hanno come obiettivo quello di erogare le prestazioni previdenziali ai loro associati e una serie di servizi, poi se il saldo tra contributi incamerati e pensioni erogate è positivo, questo viene accantonato a riserva a tutela della sostenibilità del sistema. Le riserve in eccedenza vengono poi investite sui mercati finanziari alla ricerca di un rendimento positivo che possibilmente ecceda il tasso di inflazione e faccia aumentare il patrimonio».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/alberto-oliveti-enpam-banche-2666572360.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="patrimonio-a-104-miliardi-allerario-ne-vanno-26" data-post-id="2666572360" data-published-at="1702419125" data-use-pagination="False"> Patrimonio a 104 miliardi, all’Erario ne vanno 2,6 Il patrimonio delle Casse di previdenza e assistenza private dei professionisti alla fine del 2022 è pari a 104 miliardi di euro, le entrate contributive sono state di 11,9 miliardi, le uscite per prestazioni pari a 7,6 miliardi e, nel complesso, si sono contati 690.000 trattamenti erogati ai professionisti associati. È quanto emerge dalla lettura del rapporto dell’Adepp, l’Associazione che riunisce gli enti. Oltre 2,65 miliardi delle Casse di previdenza private vanno all’Erario: più di 1,8 miliardi versati a titolo di Irpef, oltre 44 milioni per le addizionali comunali e più di 115 milioni per le addizionali regionali. Tutti importi che gravano su pensionati e beneficiari delle azioni di welfare. A questo si aggiungono 640.569.517 di euro di tassazione sui rendimenti. Sul fronte degli investimenti, i fondi mobiliari sono passati da 8,3 miliardi nel 2013 a circa 30,2 miliardi alla fine del 2022. L’importo degli immobili direttamente posseduti è, invece, sceso dagli 11,5 miliardi del 2013 ai circa 2,7 miliardi attuali. La componente azionaria si è quasi raddoppiata, passando da 4,1 a 7,8 miliardi. Analizzando gli investimenti delle Casse, distinguendo tra quelli effettuati in Italia e quelli all’estero, si rileva che la quota destinata all’Italia ammonta al 36%. Se, però, si aggiungono altre voci come liquidità, polizze assicurative e altre attività tutte detenute in Italia anche se non investite, il patrimonio complessivo delle Casse nel nostro Paese raggiunge circa il 52% del totale. Il rapporto mette in luce anche la crescita del numero dei professionisti iscritti (oltre 1,6 milioni, +1,43% rispetto al 2021, + 24.64% in 17 anni), dovuta in parte ai nuovi ingressi, in parte all’aumento dell’età di pensionamento e del numero di percettori di prestazioni previdenziali che continuano a esercitare l’attività professionale anche dopo l’andata in quiescenza.
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore.
Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.






