2022-01-31
Vittorio Sgarbi: «Al Colle è stato meglio lo 0-0 che rischiare la sconfitta»
Il deputato: «Pensavo sarebbe saltato fuori Gianni Letta. Sconcertato da chi ha tradito la Casellati: forzisti e Toti. Sinistra e 5 stelle escono dal voto più divisi del centrodestra».Nei giorni dei vertici annunciati, nascosti o rinviati, nella frenesia delle candidature avanzate e poi bocciate o di quelle bruciate ancor prima di approdare in aula, Vittorio Sgarbi è uno dei grandi elettori più ricercati, da televisioni e giornali. «Io mi fermo sempre: sarò anche vanitoso, ma non puoi negarti come fa Enrico Letta, che scappa via come fosse Greta Garbo». Onorevole Sgarbi, quella scena non le è andata proprio giù…«È un atteggiamento maleducato, basato sulla presunzione di essere chissà chi: sei il segretario del Pd e fino a ieri quasi non c’eri. Credo che un leader politico abbia il dovere di fermarsi e magari informare che non intende dichiarare. Non capisco quale sia la sua qualità umana per snobbare la stampa».A proposito di leader, la virata su Mattarella è lo «sgambetto» dei parlamentari ai propri segretari di partito? «Da molti punti di vista, è la soluzione migliore».Per chi? Per gli esponenti di Fratelli d’Italia, la rielezione di Mattarella è una «sconfitta della politica».«Lo è per Silvio Berlusconi, innanzitutto. Per lui, il nome di Mattarella ha un significato preciso: nessuno ha scelto, non cambia nulla. Dopo il suo passo indietro, può rivendicare di aver evitato l’elezione di qualunque altro presidente che non sia lui. È come se nulla fosse capitato».Altri profili non avrebbero avuto speranze per Berlusconi?«Non è venuto fuori, come io immaginavo, il nome di Gianni Letta. Forse sarebbe stata la soluzione più comoda, ma anche una cocente umiliazione: lo storico numero 2 che diventa il numero 1. A conti fatti, impossibile. L’unico nome che avrebbe valutato è quello di Elisabetta Casellati, che infatti ho proposto».Bocciato alla prova del voto dagli stessi parlamentari della coalizione: i franchi tiratori sono stati circa 70.«Eravamo sconcertati di fronte a quelli di Forza Italia e agli uomini di Toti, che non erano guardati con affetto neanche dalla Meloni».Lei si è intestato quel fallimento: «È colpa mia», ha detto. «L’ho votata e ho ritenuto che fosse il nome su cui misurarsi. Forse sarebbe stato meglio quello di Carlo Nordio, l’altro in partita. Ho pensato che la presidente del Senato avesse un potere di interlocuzione e di trattativa con una parte del Parlamento, che invece non ha dimostrato. Non è stata in grado di muovere i voti di quei disperati dei 5 stelle, che potevano vederla come una salvezza da Mario Draghi».Hanno scampato il rischio Berlusconi e sbarrato la strada a Draghi: anche i 5 stelle escono vincitori dalla partita Quirinale?«Certamente».Curioso: alla vigilia di questa elezione, erano destinati a non toccare palla.«Non hanno voluto Berlusconi per le loro pregiudiziali ideologiche e, soprattutto, non volevano Draghi. Quando è venuto fuori il nome di Elisabetta Belloni, si è capito che i margini erano piuttosto stretti: a quel punto, si è lasciato tutto lo spazio possibile alla crescita di Mattarella, sostenuta dai 5 stelle».Cosa pensa della strategia di Matteo Salvini? Collezionare un nome dopo l’altro è stato un errore?«Credo sia fin troppo facile prendersela con Salvini, si può benissimo criticare anche Letta. Con molto rigore, Salvini ha cercato un nome condiviso da tutti. Invece, chi per un motivo e chi per un altro, i candidati messi sul tavolo hanno sempre avuto una serie di veti, interni ed esterni. I nomi li hanno provati tutti».«Chi doveva pensare, non ha pensato», ha detto Umberto Bossi. Si spiega anche così la difficoltà a scegliere un nome?«Bisognava pensarci molto prima, è vero. Probabilmente la decisione andava presa il 23 dicembre, al vertice del centrodestra: il nome su cui convergere era quello di Mario Draghi».Anche lei avrebbe apprezzato?«Io sono sempre stato favorevole a Draghi. Fin dall’inizio, avrebbero dovuto accordarsi con il Pd sul suo nome e scavalcare i 5 stelle».E la caccia al voto per Berlusconi?«Quando Berlusconi mi ha chiesto di votarlo, per lealtà ho detto sì. Ma i 100 voti in più che gli avevano garantito non c’erano. Io gli ho semplicemente rivelato tutto questo. Salvini avrebbe potuto fare il nome di Draghi in due momenti: o il 23 dicembre, raffreddando le aspirazioni di Berlusconi, oppure dopo il passo indietro del Cavaliere».Per quale motivo non lo ha fatto? Ha voluto vincerla a tutti i costi?«A volte è meglio accontentarsi di uno zero a zero che rischiare di perdere».Perché proporre una rosa di tre nomi - Marcello Pera, Letizia Moratti e Carlo Nordio - per poi non prenderne in considerazione neanche uno?«È bizzarro indicare nomi per lasciare che siano gli altri a scegliere. Quei 3 non hanno avuto neanche una risposta».Di fronte all’impossibilità di trovare un nome condiviso, è vero che ha provato a tirare fuori il «metodo Sgarbi»? Cosa ha suggerito nei vertici con gli alleati?«Di indicare un nome del campo avversario, costringendo così gli altri a dire di no».Per esempio? Il famoso «coniglio nel cilindro»?«Sabino Cassese sarebbe stata una soluzione formidabile, che però aveva i veti di Forza Italia. Tajani e Ronzulli erano contro, per via di una frase che Cassese avrebbe pronunciato nel corso di una trasmissione televisiva».Si riferisce a quel «Berlusconi sarebbe il primo presidente pregiudicato», uscita nel corso di una puntata di Piazzapulita?«Esatto, parole mai pronunciate. Quella frase è del conduttore, ma tanto è bastato per dire no. Un’eventuale candidatura di Cassese sarebbe stata perfetta per creare imbarazzo nel centrosinistra: se avessero voluto la bocciatura, sarebbero stati loro a intestarsela. Giocando con i nomi che abbiamo in casa, non c’era nessuno che potesse ottenere il voto del centrosinistra».Il centrodestra ha spesso difficoltà a trasformare il consenso in risultati concreti? Per quale motivo, secondo lei, non c’è stata la possibilità di vincere questa partita?«Il centrodestra non ha i voti sufficienti, innanzitutto. È unito sul piano politico, ma è diviso su quello governativo. C’è una contraddizione evidente. A parte i numeri ballerini, non si può vincere quando si è divisi». La coalizione terrà dopo questa elezione?«Per citare Lorenzo Da Ponte, la nostra coalizione è un “casinetto”. Dopo tutto, una condizione meno grave se paragonata a quella avversaria: nel campo del Pd e dei 5 stelle, l’elezione ha mostrato una divisione sostanziale». Che ruolo ha avuto Matteo Renzi?«In cuor suo, ha sempre voluto Draghi. Per giocare la partita su ogni scacchiera, i suoi hanno sostenuto anche Casini». Il nome di Pier Ferdinando Casini è circolato con una certa insistenza. «Secondo me è sempre stata una bufala». Per quale motivo?«Sarebbe stata una sconfitta: è un personaggio simpatico, ma non ha lo status del presidente. Il fatto che sia stato in entrambi gli schieramenti politici non è sufficiente: la motivazione, sostenuta da molti, fa ridere». E Luigi Di Maio? Come si è mosso nelle trattative?«È l’unico esponente politico dentro i 5 stelle. L’unico che, al di là delle antipatie pregiudizievoli legate a Conte, avrebbe potuto far votare anche Draghi. Insomma, è il più realista di tutti». Nell’ultima settimana, le elezioni hanno catalizzato l’attenzione, distraendo in parte l’opinione pubblica dalle preoccupazioni legate al Covid. Eppure, lei non è sfuggito al rigore di Vincenzo De Luca, governatore della Campania, che l’ha rimproverata per l’utilizzo «improprio» della mascherina.«La mia è una posizione opposta a quella di De Luca: sulle questioni sanitarie, il governo non deve rompere le scatole. Invece, in questi mesi, lui è stato uno dei rompiscatole più grandi. Ai governi spetta il compito di suggerire, di indicare, non di dare degli ordini: continuo a ritenere grotteschi certi divieti e rifiuto il dirigismo politico di De Luca». Ci dica la verità: non avrà intenzione di avanzare davvero una sua candidatura alle prossime elezioni del 2029?«Avrei già in mente la data di inizio della campagna elettorale: maggio 2028». Non sarà mica troppo divisivo, onorevole. «Cercherò di non esserlo. Del resto, ho sempre due legislature davanti. Se fai una campagna corpo a corpo, come quella che ho tentato per Berlusconi, puoi sempre trovare degli amici imprevedibili. I grandi elettori sono come un piccolo Comune: chi si candida per fare il sindaco, sa di doversi spendere nei comizi, di provare a conoscere gli elettori uno a uno. L’operazione Berlusconi è stata una specie di incompiuta: nessuno ha voluto incontrare l’area dei 5 stelle che non vedono di buon occhio Conte o gli uomini del Pd che avevo accostato. Credevo che il voto a Berlusconi potesse superare il confine politico per diventare un voto psicologico. Non è stato così».
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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