Il pm chiede un anno e due mesi di reclusione per violenza sessuale. Il giudice per l’udienza preliminare, Lea Acampora, decide però di derubricare l’accusa da violenza sessuale a violenza privata. E poi di assolvere l’imputato con la formula prevista dall’articolo 131 bis del Codice penale, quello che prevede, nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, l’esclusione della pena se l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. Insomma, la molestia c’è stata, ma che vuoi che sia. È stato se non altro disposto un risarcimento di 5.000 euro alla donna, che si era costituita parte civile nel processo. I sindacati sono subito scesi sul piede di guerra: i rappresentanti di categoria di Cgil, Cisl e Uil hanno denunciato «la valutazione riduttiva dell’abuso di una libertà fisica volta a denigrare la figura femminile, a valle proprio del mese e della data dedicata alla lotta alla violenza sulle donne». La decisione del giudice, aggiungono, «ci sembra sminuisca la gravità del fatto e si ponga in controtendenza alle politiche di tutela di genere che si cercano di introdurre con difficoltà».
Il richiamo al contesto culturale è in effetti sacrosanto, anche se andrebbe approfondito oltre i generici riferimenti dei sindacati alle «politiche di tutela di genere». Una prima contestualizzazione riguarda le violenze sistematiche al personale ferroviario, spesso per mano di non italiani. Una «moda» decisamente spiacevole e che a quanto pare qualcuno tende a sminuire. Una seconda contestualizzazione riguarda però il doppio standard «etnico» che si registra ormai riguardo alla violenza sulle donne. Esistono, pare di capire, due binari (tanto per restare in tema ferroviario): per gli italiani vige la morale della colpevolizzazione a prescindere, quella in cui persino battute innocue, sguardi insistenti, desinenze sbagliate diventano violenza; per gli stranieri, invece, un abbraccio e un bacio diventano azioni di tenue gravità, pose machiste e retoriche misogine appaiono come esotici tratti culturali da comprendere, stupri veri e propri non sono ritenuti ragion sufficiente per espulsioni dal territorio nazionale. Lo si evince anche da sentenze come quella della Cassazione che, nel 2023, condannò per violenza sessuale proprio un capotreno che, in un ribaltamento della situazione, aveva tentato un approccio con una passeggera, riuscendo a darle un bacio sulla guancia, cui i supremi giudici hanno dato valenza di atto sessuale, senza sofismi sulla tenuità. Due molestie in ambito ferroviario, decisioni opposte. A cosa si deve la disparità? Un leggerissimo sospetto sorge. Ricordate campagne come quella «se ti dice “dove sei?” è violenza»? Ecco, nasce il dubbio che non fossero rivolte a tutti i maschi, ma solo a quelli di una certa tonalità cromatica. Ci sono, ovviamente, rari casi in cui le ipotesi di rieducazione del maschio sono state applicate anche a gruppi extra europei; è successo dopo gli stupri di Colonia, quando si pensò che la soluzione fossero i corsi di educazione sessuale per stranieri, ma pensiamo anche a quel magistrato salernitano per cui «non possiamo pretendere che un africano sappia che in Italia, su una spiaggia, non si può violentare». In quei casi, tuttavia, il corso assume sempre tratti bonari, paternalistici, giustificazionisti: poverini, è che non lo sapevano. Siamo ben lungi dalle connotazioni maoiste dei trattamenti rieducativi per maschi tossici autoctoni, dove l’abusatore o presunto tale deve decostruirsi, annullarsi, aprirsi a una radicale messa in questione di sé. E nessuna tenuità è concepibile.