2018-05-06
Mattarella
depreca il Rosatellum. Ma perché l’ha firmato? Partiti nel caos per le consultazioni
Sergio Mattarella guida l'esercito degli smemorati sulla legge elettorale. Il Colle fa trapelare irritazione per i difetti della norma, ma allora perché l'ha firmata? Ettore Rosato balbetta in tv, l'ex segretario dem nasconde la mano. Ma pure Forza Italia e Lega.Domani, al terzo giro di valzer, il centrodestra compatto domanderà al presidente di riconoscere le vittorie a politiche e regionali. Il governo di «tregua» sarà respinto. Crimi (M5s): «Offerta Lega tardiva, valutiamo...». Continua la guerra nel Partito Democratico. Il sindaco di Milano: «Non possiamo restare sotto il 20%».Lo speciale contiene tre articoliMa dove erano tutti il giorno in cui si votò il Rosatellum? Mistero. Che le leggi elettorali in Italia siano inganni e truffe destinate a restare senza padri, purtroppo è cosa nota. Ma il balletto di amnesie dolose che in queste ore si sta celebrando intorno alla legge con cui si è votato il 4 marzo ha il sapore acre di una commedia all'italiana immemore e vagamente cialtrona. Smemorato numero uno, purtroppo, su questo tema (forse l'unica macchia del mandato fino ad oggi) è Sergio Mattarella: i quirinalisti lo dipingono come inquieto, arrabbiato, addirittura indispettito per gli effetti della legge. Lo descrivono come animato dall'imperativo di correggerla nelle sue principali disfunzioni, e nei suoi plateali orrori. Dicono che abbia in mente un governo di scopo che possa rimediare ai danni più insanabili. Tuttavia l'interrogativo resta: quando il Rosatellum era da controfirmare, perché Mattarella tacque? Il testo della legge elettorale imposta da Matteo Renzi al suo partito e al Parlamento era in palese conflitto con due sentenze della Corte costituzionale, non risolveva il problema della governabilità, rivelava in maniera quasi lampante una idea punitiva che era diretta contro i partiti che non votavano la legge. Ma in quella occasione il Quirinale tacque. Eppure molto si poteva fare: Roberto Calderoli - per esempio - ha raccontato di aver ricevuto una telefonata burrascosa dall'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi proprio alla vigilia dell'approvazione del fatidico Porcellum. Ciampi disse a Calderoli che il premio di maggioranza su base nazionale al Senato sarebbe stato incostituzionale, e quindi se fosse rimasto nel testo, lui avrebbe agito di conseguenza: «Se non cambia, non lo controfirmerò». Calderoli ne prese atto e - almeno su quel punto - il testo cambiò prima di essere votato. Chiamatela, se volete, moral suasion. In questo caso, non c'è traccia di interventi. Smemorato numero due, Ettore Rosato. Il povero Rosato, ex capogruppo del Pd, padre putativo della legge, giovedì scorso ha fatto una figura tristissima a Piazza pulita, dove si arrampicava sugli specchi, costretto ad ammettere - incalzato da Peter Gomez - che la legge è stata votata per penalizzare il Movimento 5 stelle. Una bella rivelazione. Interessante soprattutto alla luce delle dichiarazioni della vigilia elettorale, in cui Rosato giurava e spergiurava: «Si tratta di una ottima legge, la migliore che si potesse fare, garantisce la possibilità di dare un governo al Paese». Unica nota positiva, alla fine di questa storia è che Rosato è stato trombato nel suo collegio, come un dottor Frankenstein divorato dalla sua stessa creatura.Smemorato numero tre: Matteo Renzi. Su questi temi è decisamente svantaggiato. Iniziò con la memorabile frase: «Abbiamo votato l'Italicum, una legge che tutto il mondo ci invidia». E quella legge, come è noto, fu bocciata dalla Consulta. Ha proseguito con il Rosatellum intimando ai senatori e ai deputati: «Questa legge va votata, e se non passa i dissidenti se ne vanno a casa». Ma anche in questo caso il diavolo fa le pentole ma non i coperchi: «Siamo sopra il 35% come coalizione e diventeremo il primo partito nel Paese e in parlamento». L'idea di Renzi era che il Pd avrebbe beneficiato di un effetto moltiplicatore nei collegi, dovuto alla notorietà dei candidati e al radicamento del partito. Come è finita si sa: cinque ministri trombati, il Pd terza forza e solo 30 collegi vinti, solo nei centri storici di tre città e in alcune roccaforti delle regioni rosse. Smemorati numero quattro e cinque, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Entrambi hanno votato il testo, anche se il Pd sulla carta sarebbe stato autonomo. Erano convinti che, aderendo al patto sulla legge, avrebbero ottenuto modifiche che li avrebbero favoriti. A Berlusconi non è andata bene, perché la logica del radicamento territoriale ha premiato la Lega al Nord.La sua speranza di poter ricomporre una maggioranza con il Pd scomponendo i poli è stata vanificata dal risultato. Salvini, invece, è l'unico dei sottoscrittori del patto che può dire di essere stato premiato (almeno questa volta). Conclusione? La Dc volle il Mattarellum e - grazie a quella legge - si estinse. Il Pdl volle il Porcellum (e perse). Il Pd ha imposto il Rosatellum ed è stato spazzato via. Domanda: siamo davvero sicuri che, dopo tre riforme in cui i partiti pensano prima di tutto al loro tornaconto (e perdono), questa volta andrà diversamente?Luca Telese<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/aiuto-sono-spariti-i-padri-del-rosatellum-2566188683.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="berlusconi-e-meloni-spingono-salvini-lincarico-a-lui-altrimenti-elezioni" data-post-id="2566188683" data-published-at="1757891618" data-use-pagination="False"> Berlusconi e Meloni spingono Salvini. L'incarico a lui, altrimenti elezioni Quando, domani alle 11, Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni e Matteo Salvini incontreranno il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, gli sottoporranno due possibilità: il preincarico per Salvini o le elezioni a ottobre. «Nessuna subordinata», spiegava ieri alla Verità uno dei parlamentari di Forza Italia più vicini a Berlusconi. Il centrodestra è compatto, come non mai. Le elezioni in Friuli Venezia Giulia e in Molise hanno stretto i bulloni della coalizione, con il successone della Lega accompagnato dai buoni risultati di Forza Italia e Fratelli d'Italia. Il Carroccio, in sostanza, cresce, ma solo in minima parte drenando voti ai «soci» del centrodestra: è la dimostrazione che, compatto, il centrodestra stravince, così come, compatto, sarà in grado, domattina, di fronteggiare l'ultimo disperato tentativo di Sergio Mattarella di tenere Salvini lontano da Palazzo Chigi e Berlusconi lontano dal governo. La diffidenza dei leghisti verso Forza Italia, ancora ieri, era comprensibile. «E se Berlusconi», si chiedevano in molti, «davanti a Mattarella, dovesse cedere a una ipotesi di governo del presidente col Pd?». Non accadrà. Non è un mistero che Berlusconi ha un canale di comunicazione aperto con Matteo Renzi, e che avrebbe accolto con favore un accordo tra centrodestra e Pd. Ma tra i due Matteo, Berlusconi ha già scelto. Le asprezze delle ultime settimane sono state provocate solo dalla sensazione che Salvini fosse tentato dal rompere l'alleanza per dare vita a un governo Lega-M5s. Inoltre, come sa benissimo chiunque conosca Berlusconi, l'uomo va costantemente rassicurato, gli vanno riconosciuti successi e «leadership storica»: è bastata una serata in allegria a Trieste per far tornare il sereno tra Silvio e Matteo, che insieme a Giorgia Meloni si preparano a fare la voce grossa al Quirinale. A Mattarella, i tre leader del centrodestra chiederanno il preincarico per Salvini, ricordando al presidente della Repubblica che fino a questo momento alla coalizione uscita vittoriosa dalle elezioni politiche del 4 marzo e dalle successive regionali non è stata data ancora la possibilità di tentare di formare un governo, mentre il Quirinale ha puntato tutto su Luigi Di Maio, docile esecutore delle direttive di Washington e Bruxelles, e sulla minoranza del Pd, docile esecutrice delle direttive di Mattarella, attraverso l'ufficiale di collegamento Dario Franceschini. Non è un caso che Di Maio sia infuriato con il capo dello Stato: era stato il Quirinale, infatti, a convincere Giggino da Pomigliano che il Pd avrebbe accettato le sue condizioni, e che Matteo Renzi era ormai innocuo. Come sappiamo, le cose sono andate in maniera assai diversa, e adesso per Mattarella sono guai: la sua eventuale proposta di un governo di responsabilità verrà rispedita al mittente dal centrodestra. «Se Mattarella dirà no a Salvini», spiega un esponente di primo piano di Fratelli d'Italia, «noi potremo tranquillamente dire no a qualunque ipotesi non politica e chiederemo il ritorno alle elezioni a ottobre». Ieri, al Tg1, è stato Sestino Giacomoni ad anticipare le richieste del centrodestra al capo dello Stato. «Forza Italia», ha dichiarato Giacomoni, «da sempre chiede due cose: prima di tutto un governo che riduca le tasse, che blocchi l'immigrazione clandestina. La seconda cosa è che il governo sia guidato da chi ha vinto le elezioni. Le formule per raggiungere questo obiettivo le valuterà nel migliore dei modi il capo dello Stato». Giacomoni, deputato di Forza Italia, poco conosciuto al grande pubblico, è, insieme a Valentino Valentini, il più fidato collaboratore del leader azzurro (i due, con Licia Ronzulli, sono gli attuali pretoriani di Berlusconi). Messo in disparte nell'epoca del «cerchio magico» capitanato da Mariarosaria Rossi, Giacomoni è stato richiamato in fretta e furia, insieme a Valentini, dai figli di Berlusconi, nei giorni dell'intervento al cuore, nell'estate del 2016, quando Marina e Piersilvio decisero di tornare ad affidarsi ai collaboratori storici. Le parole di Giacomoni, dunque, è come se fossero state pronunciate da Berlusconi in persona. Matteo Salvini, da parte sua, ieri ha attaccato il premier in carica, Paolo Gentiloni, che al Colle qualcuno immaginava di lasciare a palazzo Chigi fino alle elezioni: «Chiamate un medico!» ha detto Salvini, riferendosi alla dichiarazione del premier, che aveva affermato: «L'Italia ha bisogno di migranti ma con un flusso sicuro». Se Mattarella non permetterà al centrodestra di provare a convincere 50 deputati e 30 senatori a dare la fiducia a un governo guidato da Salvini, allora il capo dello Stato si troverà di fonte un muro di gomma che respingerà qualunque soluzione tecnica. L'unica, remotissima possibilità di un «sì», sarebbe per un preincarico alla presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, per un governo che sarebbe di centrodestra ma anche «istituzionale». Sul fronte grillino, intervistato da Maria Latella, il senatore Vito Crimi ha detto, sibillino: «L'offerta di governo di Salvini? È tardiva, ma valutiamo...». Carlo Tarallo <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/aiuto-sono-spariti-i-padri-del-rosatellum-2566188683.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="particle-2" data-post-id="2566188683" data-published-at="1757891618" data-use-pagination="False"> Il Pd non perde occasione di sfasciarsi un giorno sì e l'altro anche. A pochi giorni dal documento unitario in direzione, per una presunta pace tra il reggente Maurizio Martina e l'ex segretario Matteo Renzi, è un continuo fuoco incrociato all'interno del Nazareno. Dopo l'attacco pesante del ministro della Cultura Dario Franceschini al Bullo, ieri è stata la volta del sindaco di Milano Beppe Sala, da tempo non più in sintonia con l'ex presidente del Consiglio e il suo Giglio magico toscano. Nell'auditorium di Radio Popolare, insieme con l'assessore Pierfrancesco Majorino, l'ex amministratore delegato di Expo non cita mai esplicitamente Renzi, ma ribadisce che il Pd che vuole «deve essere radicalmente diverso da quello che il 4 marzo si è inabissato al 18%, una dimensione nella quale non possiamo stare». C'è un problema di leader? Se ne può fare anche a meno. «Ricominciamo», dice Sala, «dalle persone, dalla nostra città, da un nuovo Pd: chiediamo a 10 personalità, sul modello dei saggi, di fare un sacrificio per far rinascere il partito». Al solito è il modello Milano il punto di partenza, nonostante la sonora sconfitta alle ultime elezioni regionali in Lombardia, dove Giorgio Gori ha perso di più di 20 punti contro il candidato leghista Attilio Fontana. Sala vuole ripartire dal centro storico, ultimo baluardo dem? «Del resto», spiega un dem con una battuta, «Nicola Zingaretti da Roma ha detto di ripartire praticamente dai Parioli, ci mancava giusto Brera….». Eppure Sala ci crede. Nei giorni scorsi aveva aperto anche a un accordo di governo con il Movimento 5 stelle. Il modello è quello di un'alleanza tra tutti quelli che vogliono un vero cambio per riportare il centrosinistra a Palazzo Chigi. Ma con quali voti? A Milano c'è chi sostiene che il primo cittadino sia preoccupato dal calo dei consensi. Le ultime elezioni, come detto, non sono andate bene come alcuni vogliono far credere. Le periferie hanno votato Lega. In alcune zone sono aumentati i consensi dei grillini. Le politiche sull'hinterland non stanno funzionando, tanto che il centrodestra continua da giorni a battere sul tasto dolente. In città lo sanno tutti. Il leader del centrodestra Matteo Salvini è in crescita in città. E il Carroccio inizia a conquistare fette di tessuto economico politico dove prima non riusciva a fare breccia. Mancano ancora tre anni alle prossime elezioni, ma a Palazzo Marino inizia a circolare una certa preoccupazione. «Sala vuole tenere unito il centrosinistra», spiega un fonte di piazza della Scala, «ma deve prendere voti al centro e conquistare voti a destra, spostandosi a sinistra rischia di perderne molti altri». A Milano il vento sta cambiando. Le aggressioni della scorsa settimane di due marocchini irregolari hanno creato malumore nel centrosinistra, anche perché si è sempre insistito sull'accoglienza a tutti i costi. E in Bellerio, sede della Lega, c'è già chi dice che nel 2021, se Salvini dovesse fallire l'obiettivo di Palazzo Chigi, la candidatura naturale del leghista sarebbe proprio quella per Palazzo Marino: è un obiettivo che coltiva da anni. Alessandro Da Rold
Jose Mourinho (Getty Images)