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2018-05-06
Mattarella
depreca il Rosatellum. Ma perché l’ha firmato? Partiti nel caos per le consultazioni
ANSA
Ma dove erano tutti il giorno in cui si votò il Rosatellum? Mistero. Che le leggi elettorali in Italia siano inganni e truffe destinate a restare senza padri, purtroppo è cosa nota. Ma il balletto di amnesie dolose che in queste ore si sta celebrando intorno alla legge con cui si è votato il 4 marzo ha il sapore acre di una commedia all'italiana immemore e vagamente cialtrona. Smemorato numero uno, purtroppo, su questo tema (forse l'unica macchia del mandato fino ad oggi) è Sergio Mattarella: i quirinalisti lo dipingono come inquieto, arrabbiato, addirittura indispettito per gli effetti della legge. Lo descrivono come animato dall'imperativo di correggerla nelle sue principali disfunzioni, e nei suoi plateali orrori.
Dicono che abbia in mente un governo di scopo che possa rimediare ai danni più insanabili. Tuttavia l'interrogativo resta: quando il Rosatellum era da controfirmare, perché Mattarella tacque? Il testo della legge elettorale imposta da Matteo Renzi al suo partito e al Parlamento era in palese conflitto con due sentenze della Corte costituzionale, non risolveva il problema della governabilità, rivelava in maniera quasi lampante una idea punitiva che era diretta contro i partiti che non votavano la legge. Ma in quella occasione il Quirinale tacque. Eppure molto si poteva fare: Roberto Calderoli - per esempio - ha raccontato di aver ricevuto una telefonata burrascosa dall'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi proprio alla vigilia dell'approvazione del fatidico Porcellum. Ciampi disse a Calderoli che il premio di maggioranza su base nazionale al Senato sarebbe stato incostituzionale, e quindi se fosse rimasto nel testo, lui avrebbe agito di conseguenza: «Se non cambia, non lo controfirmerò». Calderoli ne prese atto e - almeno su quel punto - il testo cambiò prima di essere votato. Chiamatela, se volete, moral suasion. In questo caso, non c'è traccia di interventi.
Smemorato numero due, Ettore Rosato. Il povero Rosato, ex capogruppo del Pd, padre putativo della legge, giovedì scorso ha fatto una figura tristissima a Piazza pulita, dove si arrampicava sugli specchi, costretto ad ammettere - incalzato da Peter Gomez - che la legge è stata votata per penalizzare il Movimento 5 stelle. Una bella rivelazione. Interessante soprattutto alla luce delle dichiarazioni della vigilia elettorale, in cui Rosato giurava e spergiurava: «Si tratta di una ottima legge, la migliore che si potesse fare, garantisce la possibilità di dare un governo al Paese». Unica nota positiva, alla fine di questa storia è che Rosato è stato trombato nel suo collegio, come un dottor Frankenstein divorato dalla sua stessa creatura.
Smemorato numero tre: Matteo Renzi. Su questi temi è decisamente svantaggiato. Iniziò con la memorabile frase: «Abbiamo votato l'Italicum, una legge che tutto il mondo ci invidia». E quella legge, come è noto, fu bocciata dalla Consulta. Ha proseguito con il Rosatellum intimando ai senatori e ai deputati: «Questa legge va votata, e se non passa i dissidenti se ne vanno a casa». Ma anche in questo caso il diavolo fa le pentole ma non i coperchi: «Siamo sopra il 35% come coalizione e diventeremo il primo partito nel Paese e in parlamento».
L'idea di Renzi era che il Pd avrebbe beneficiato di un effetto moltiplicatore nei collegi, dovuto alla notorietà dei candidati e al radicamento del partito. Come è finita si sa: cinque ministri trombati, il Pd terza forza e solo 30 collegi vinti, solo nei centri storici di tre città e in alcune roccaforti delle regioni rosse.
Smemorati numero quattro e cinque, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Entrambi hanno votato il testo, anche se il Pd sulla carta sarebbe stato autonomo. Erano convinti che, aderendo al patto sulla legge, avrebbero ottenuto modifiche che li avrebbero favoriti. A Berlusconi non è andata bene, perché la logica del radicamento territoriale ha premiato la Lega al Nord.
La sua speranza di poter ricomporre una maggioranza con il Pd scomponendo i poli è stata vanificata dal risultato. Salvini, invece, è l'unico dei sottoscrittori del patto che può dire di essere stato premiato (almeno questa volta). Conclusione? La Dc volle il Mattarellum e - grazie a quella legge - si estinse. Il Pdl volle il Porcellum (e perse). Il Pd ha imposto il Rosatellum ed è stato spazzato via. Domanda: siamo davvero sicuri che, dopo tre riforme in cui i partiti pensano prima di tutto al loro tornaconto (e perdono), questa volta andrà diversamente?
Luca Telese
Berlusconi e Meloni spingono Salvini. L'incarico a lui, altrimenti elezioni
Quando, domani alle 11, Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni e Matteo Salvini incontreranno il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, gli sottoporranno due possibilità: il preincarico per Salvini o le elezioni a ottobre. «Nessuna subordinata», spiegava ieri alla Verità uno dei parlamentari di Forza Italia più vicini a Berlusconi. Il centrodestra è compatto, come non mai. Le elezioni in Friuli Venezia Giulia e in Molise hanno stretto i bulloni della coalizione, con il successone della Lega accompagnato dai buoni risultati di Forza Italia e Fratelli d'Italia. Il Carroccio, in sostanza, cresce, ma solo in minima parte drenando voti ai «soci» del centrodestra: è la dimostrazione che, compatto, il centrodestra stravince, così come, compatto, sarà in grado, domattina, di fronteggiare l'ultimo disperato tentativo di Sergio Mattarella di tenere Salvini lontano da Palazzo Chigi e Berlusconi lontano dal governo.
La diffidenza dei leghisti verso Forza Italia, ancora ieri, era comprensibile. «E se Berlusconi», si chiedevano in molti, «davanti a Mattarella, dovesse cedere a una ipotesi di governo del presidente col Pd?». Non accadrà. Non è un mistero che Berlusconi ha un canale di comunicazione aperto con Matteo Renzi, e che avrebbe accolto con favore un accordo tra centrodestra e Pd. Ma tra i due Matteo, Berlusconi ha già scelto. Le asprezze delle ultime settimane sono state provocate solo dalla sensazione che Salvini fosse tentato dal rompere l'alleanza per dare vita a un governo Lega-M5s. Inoltre, come sa benissimo chiunque conosca Berlusconi, l'uomo va costantemente rassicurato, gli vanno riconosciuti successi e «leadership storica»: è bastata una serata in allegria a Trieste per far tornare il sereno tra Silvio e Matteo, che insieme a Giorgia Meloni si preparano a fare la voce grossa al Quirinale.
A Mattarella, i tre leader del centrodestra chiederanno il preincarico per Salvini, ricordando al presidente della Repubblica che fino a questo momento alla coalizione uscita vittoriosa dalle elezioni politiche del 4 marzo e dalle successive regionali non è stata data ancora la possibilità di tentare di formare un governo, mentre il Quirinale ha puntato tutto su Luigi Di Maio, docile esecutore delle direttive di Washington e Bruxelles, e sulla minoranza del Pd, docile esecutrice delle direttive di Mattarella, attraverso l'ufficiale di collegamento Dario Franceschini. Non è un caso che Di Maio sia infuriato con il capo dello Stato: era stato il Quirinale, infatti, a convincere Giggino da Pomigliano che il Pd avrebbe accettato le sue condizioni, e che Matteo Renzi era ormai innocuo. Come sappiamo, le cose sono andate in maniera assai diversa, e adesso per Mattarella sono guai: la sua eventuale proposta di un governo di responsabilità verrà rispedita al mittente dal centrodestra. «Se Mattarella dirà no a Salvini», spiega un esponente di primo piano di Fratelli d'Italia, «noi potremo tranquillamente dire no a qualunque ipotesi non politica e chiederemo il ritorno alle elezioni a ottobre».
Ieri, al Tg1, è stato Sestino Giacomoni ad anticipare le richieste del centrodestra al capo dello Stato. «Forza Italia», ha dichiarato Giacomoni, «da sempre chiede due cose: prima di tutto un governo che riduca le tasse, che blocchi l'immigrazione clandestina. La seconda cosa è che il governo sia guidato da chi ha vinto le elezioni. Le formule per raggiungere questo obiettivo le valuterà nel migliore dei modi il capo dello Stato».
Giacomoni, deputato di Forza Italia, poco conosciuto al grande pubblico, è, insieme a Valentino Valentini, il più fidato collaboratore del leader azzurro (i due, con Licia Ronzulli, sono gli attuali pretoriani di Berlusconi). Messo in disparte nell'epoca del «cerchio magico» capitanato da Mariarosaria Rossi, Giacomoni è stato richiamato in fretta e furia, insieme a Valentini, dai figli di Berlusconi, nei giorni dell'intervento al cuore, nell'estate del 2016, quando Marina e Piersilvio decisero di tornare ad affidarsi ai collaboratori storici. Le parole di Giacomoni, dunque, è come se fossero state pronunciate da Berlusconi in persona.
Matteo Salvini, da parte sua, ieri ha attaccato il premier in carica, Paolo Gentiloni, che al Colle qualcuno immaginava di lasciare a palazzo Chigi fino alle elezioni: «Chiamate un medico!» ha detto Salvini, riferendosi alla dichiarazione del premier, che aveva affermato: «L'Italia ha bisogno di migranti ma con un flusso sicuro». Se Mattarella non permetterà al centrodestra di provare a convincere 50 deputati e 30 senatori a dare la fiducia a un governo guidato da Salvini, allora il capo dello Stato si troverà di fonte un muro di gomma che respingerà qualunque soluzione tecnica. L'unica, remotissima possibilità di un «sì», sarebbe per un preincarico alla presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, per un governo che sarebbe di centrodestra ma anche «istituzionale».
Sul fronte grillino, intervistato da Maria Latella, il senatore Vito Crimi ha detto, sibillino: «L'offerta di governo di Salvini? È tardiva, ma valutiamo...».
Carlo Tarallo
Il Pd non perde occasione di sfasciarsi un giorno sì e l'altro anche. A pochi giorni dal documento unitario in direzione, per una presunta pace tra il reggente Maurizio Martina e l'ex segretario Matteo Renzi, è un continuo fuoco incrociato all'interno del Nazareno.
Dopo l'attacco pesante del ministro della Cultura Dario Franceschini al Bullo, ieri è stata la volta del sindaco di Milano Beppe Sala, da tempo non più in sintonia con l'ex presidente del Consiglio e il suo Giglio magico toscano. Nell'auditorium di Radio Popolare, insieme con l'assessore Pierfrancesco Majorino, l'ex amministratore delegato di Expo non cita mai esplicitamente Renzi, ma ribadisce che il Pd che vuole «deve essere radicalmente diverso da quello che il 4 marzo si è inabissato al 18%, una dimensione nella quale non possiamo stare». C'è un problema di leader? Se ne può fare anche a meno. «Ricominciamo», dice Sala, «dalle persone, dalla nostra città, da un nuovo Pd: chiediamo a 10 personalità, sul modello dei saggi, di fare un sacrificio per far rinascere il partito».
Al solito è il modello Milano il punto di partenza, nonostante la sonora sconfitta alle ultime elezioni regionali in Lombardia, dove Giorgio Gori ha perso di più di 20 punti contro il candidato leghista Attilio Fontana. Sala vuole ripartire dal centro storico, ultimo baluardo dem? «Del resto», spiega un dem con una battuta, «Nicola Zingaretti da Roma ha detto di ripartire praticamente dai Parioli, ci mancava giusto Brera….». Eppure Sala ci crede. Nei giorni scorsi aveva aperto anche a un accordo di governo con il Movimento 5 stelle. Il modello è quello di un'alleanza tra tutti quelli che vogliono un vero cambio per riportare il centrosinistra a Palazzo Chigi. Ma con quali voti?
A Milano c'è chi sostiene che il primo cittadino sia preoccupato dal calo dei consensi. Le ultime elezioni, come detto, non sono andate bene come alcuni vogliono far credere. Le periferie hanno votato Lega. In alcune zone sono aumentati i consensi dei grillini. Le politiche sull'hinterland non stanno funzionando, tanto che il centrodestra continua da giorni a battere sul tasto dolente. In città lo sanno tutti. Il leader del centrodestra Matteo Salvini è in crescita in città. E il Carroccio inizia a conquistare fette di tessuto economico politico dove prima non riusciva a fare breccia. Mancano ancora tre anni alle prossime elezioni, ma a Palazzo Marino inizia a circolare una certa preoccupazione.
«Sala vuole tenere unito il centrosinistra», spiega un fonte di piazza della Scala, «ma deve prendere voti al centro e conquistare voti a destra, spostandosi a sinistra rischia di perderne molti altri». A Milano il vento sta cambiando. Le aggressioni della scorsa settimane di due marocchini irregolari hanno creato malumore nel centrosinistra, anche perché si è sempre insistito sull'accoglienza a tutti i costi. E in Bellerio, sede della Lega, c'è già chi dice che nel 2021, se Salvini dovesse fallire l'obiettivo di Palazzo Chigi, la candidatura naturale del leghista sarebbe proprio quella per Palazzo Marino: è un obiettivo che coltiva da anni.
Alessandro Da Rold
Continua a leggereRiduci
Sergio Mattarella guida l'esercito degli smemorati sulla legge elettorale. Il Colle fa trapelare irritazione per i difetti della norma, ma allora perché l'ha firmata? Ettore Rosato balbetta in tv, l'ex segretario dem nasconde la mano. Ma pure Forza Italia e Lega.Domani, al terzo giro di valzer, il centrodestra compatto domanderà al presidente di riconoscere le vittorie a politiche e regionali. Il governo di «tregua» sarà respinto. Crimi (M5s): «Offerta Lega tardiva, valutiamo...». Continua la guerra nel Partito Democratico. Il sindaco di Milano: «Non possiamo restare sotto il 20%».Lo speciale contiene tre articoliMa dove erano tutti il giorno in cui si votò il Rosatellum? Mistero. Che le leggi elettorali in Italia siano inganni e truffe destinate a restare senza padri, purtroppo è cosa nota. Ma il balletto di amnesie dolose che in queste ore si sta celebrando intorno alla legge con cui si è votato il 4 marzo ha il sapore acre di una commedia all'italiana immemore e vagamente cialtrona. Smemorato numero uno, purtroppo, su questo tema (forse l'unica macchia del mandato fino ad oggi) è Sergio Mattarella: i quirinalisti lo dipingono come inquieto, arrabbiato, addirittura indispettito per gli effetti della legge. Lo descrivono come animato dall'imperativo di correggerla nelle sue principali disfunzioni, e nei suoi plateali orrori. Dicono che abbia in mente un governo di scopo che possa rimediare ai danni più insanabili. Tuttavia l'interrogativo resta: quando il Rosatellum era da controfirmare, perché Mattarella tacque? Il testo della legge elettorale imposta da Matteo Renzi al suo partito e al Parlamento era in palese conflitto con due sentenze della Corte costituzionale, non risolveva il problema della governabilità, rivelava in maniera quasi lampante una idea punitiva che era diretta contro i partiti che non votavano la legge. Ma in quella occasione il Quirinale tacque. Eppure molto si poteva fare: Roberto Calderoli - per esempio - ha raccontato di aver ricevuto una telefonata burrascosa dall'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi proprio alla vigilia dell'approvazione del fatidico Porcellum. Ciampi disse a Calderoli che il premio di maggioranza su base nazionale al Senato sarebbe stato incostituzionale, e quindi se fosse rimasto nel testo, lui avrebbe agito di conseguenza: «Se non cambia, non lo controfirmerò». Calderoli ne prese atto e - almeno su quel punto - il testo cambiò prima di essere votato. Chiamatela, se volete, moral suasion. In questo caso, non c'è traccia di interventi. Smemorato numero due, Ettore Rosato. Il povero Rosato, ex capogruppo del Pd, padre putativo della legge, giovedì scorso ha fatto una figura tristissima a Piazza pulita, dove si arrampicava sugli specchi, costretto ad ammettere - incalzato da Peter Gomez - che la legge è stata votata per penalizzare il Movimento 5 stelle. Una bella rivelazione. Interessante soprattutto alla luce delle dichiarazioni della vigilia elettorale, in cui Rosato giurava e spergiurava: «Si tratta di una ottima legge, la migliore che si potesse fare, garantisce la possibilità di dare un governo al Paese». Unica nota positiva, alla fine di questa storia è che Rosato è stato trombato nel suo collegio, come un dottor Frankenstein divorato dalla sua stessa creatura.Smemorato numero tre: Matteo Renzi. Su questi temi è decisamente svantaggiato. Iniziò con la memorabile frase: «Abbiamo votato l'Italicum, una legge che tutto il mondo ci invidia». E quella legge, come è noto, fu bocciata dalla Consulta. Ha proseguito con il Rosatellum intimando ai senatori e ai deputati: «Questa legge va votata, e se non passa i dissidenti se ne vanno a casa». Ma anche in questo caso il diavolo fa le pentole ma non i coperchi: «Siamo sopra il 35% come coalizione e diventeremo il primo partito nel Paese e in parlamento». L'idea di Renzi era che il Pd avrebbe beneficiato di un effetto moltiplicatore nei collegi, dovuto alla notorietà dei candidati e al radicamento del partito. Come è finita si sa: cinque ministri trombati, il Pd terza forza e solo 30 collegi vinti, solo nei centri storici di tre città e in alcune roccaforti delle regioni rosse. Smemorati numero quattro e cinque, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Entrambi hanno votato il testo, anche se il Pd sulla carta sarebbe stato autonomo. Erano convinti che, aderendo al patto sulla legge, avrebbero ottenuto modifiche che li avrebbero favoriti. A Berlusconi non è andata bene, perché la logica del radicamento territoriale ha premiato la Lega al Nord.La sua speranza di poter ricomporre una maggioranza con il Pd scomponendo i poli è stata vanificata dal risultato. Salvini, invece, è l'unico dei sottoscrittori del patto che può dire di essere stato premiato (almeno questa volta). Conclusione? La Dc volle il Mattarellum e - grazie a quella legge - si estinse. Il Pdl volle il Porcellum (e perse). Il Pd ha imposto il Rosatellum ed è stato spazzato via. Domanda: siamo davvero sicuri che, dopo tre riforme in cui i partiti pensano prima di tutto al loro tornaconto (e perdono), questa volta andrà diversamente?Luca Telese<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/aiuto-sono-spariti-i-padri-del-rosatellum-2566188683.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="berlusconi-e-meloni-spingono-salvini-lincarico-a-lui-altrimenti-elezioni" data-post-id="2566188683" data-published-at="1765410304" data-use-pagination="False"> Berlusconi e Meloni spingono Salvini. L'incarico a lui, altrimenti elezioni Quando, domani alle 11, Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni e Matteo Salvini incontreranno il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, gli sottoporranno due possibilità: il preincarico per Salvini o le elezioni a ottobre. «Nessuna subordinata», spiegava ieri alla Verità uno dei parlamentari di Forza Italia più vicini a Berlusconi. Il centrodestra è compatto, come non mai. Le elezioni in Friuli Venezia Giulia e in Molise hanno stretto i bulloni della coalizione, con il successone della Lega accompagnato dai buoni risultati di Forza Italia e Fratelli d'Italia. Il Carroccio, in sostanza, cresce, ma solo in minima parte drenando voti ai «soci» del centrodestra: è la dimostrazione che, compatto, il centrodestra stravince, così come, compatto, sarà in grado, domattina, di fronteggiare l'ultimo disperato tentativo di Sergio Mattarella di tenere Salvini lontano da Palazzo Chigi e Berlusconi lontano dal governo. La diffidenza dei leghisti verso Forza Italia, ancora ieri, era comprensibile. «E se Berlusconi», si chiedevano in molti, «davanti a Mattarella, dovesse cedere a una ipotesi di governo del presidente col Pd?». Non accadrà. Non è un mistero che Berlusconi ha un canale di comunicazione aperto con Matteo Renzi, e che avrebbe accolto con favore un accordo tra centrodestra e Pd. Ma tra i due Matteo, Berlusconi ha già scelto. Le asprezze delle ultime settimane sono state provocate solo dalla sensazione che Salvini fosse tentato dal rompere l'alleanza per dare vita a un governo Lega-M5s. Inoltre, come sa benissimo chiunque conosca Berlusconi, l'uomo va costantemente rassicurato, gli vanno riconosciuti successi e «leadership storica»: è bastata una serata in allegria a Trieste per far tornare il sereno tra Silvio e Matteo, che insieme a Giorgia Meloni si preparano a fare la voce grossa al Quirinale. A Mattarella, i tre leader del centrodestra chiederanno il preincarico per Salvini, ricordando al presidente della Repubblica che fino a questo momento alla coalizione uscita vittoriosa dalle elezioni politiche del 4 marzo e dalle successive regionali non è stata data ancora la possibilità di tentare di formare un governo, mentre il Quirinale ha puntato tutto su Luigi Di Maio, docile esecutore delle direttive di Washington e Bruxelles, e sulla minoranza del Pd, docile esecutrice delle direttive di Mattarella, attraverso l'ufficiale di collegamento Dario Franceschini. Non è un caso che Di Maio sia infuriato con il capo dello Stato: era stato il Quirinale, infatti, a convincere Giggino da Pomigliano che il Pd avrebbe accettato le sue condizioni, e che Matteo Renzi era ormai innocuo. Come sappiamo, le cose sono andate in maniera assai diversa, e adesso per Mattarella sono guai: la sua eventuale proposta di un governo di responsabilità verrà rispedita al mittente dal centrodestra. «Se Mattarella dirà no a Salvini», spiega un esponente di primo piano di Fratelli d'Italia, «noi potremo tranquillamente dire no a qualunque ipotesi non politica e chiederemo il ritorno alle elezioni a ottobre». Ieri, al Tg1, è stato Sestino Giacomoni ad anticipare le richieste del centrodestra al capo dello Stato. «Forza Italia», ha dichiarato Giacomoni, «da sempre chiede due cose: prima di tutto un governo che riduca le tasse, che blocchi l'immigrazione clandestina. La seconda cosa è che il governo sia guidato da chi ha vinto le elezioni. Le formule per raggiungere questo obiettivo le valuterà nel migliore dei modi il capo dello Stato». Giacomoni, deputato di Forza Italia, poco conosciuto al grande pubblico, è, insieme a Valentino Valentini, il più fidato collaboratore del leader azzurro (i due, con Licia Ronzulli, sono gli attuali pretoriani di Berlusconi). Messo in disparte nell'epoca del «cerchio magico» capitanato da Mariarosaria Rossi, Giacomoni è stato richiamato in fretta e furia, insieme a Valentini, dai figli di Berlusconi, nei giorni dell'intervento al cuore, nell'estate del 2016, quando Marina e Piersilvio decisero di tornare ad affidarsi ai collaboratori storici. Le parole di Giacomoni, dunque, è come se fossero state pronunciate da Berlusconi in persona. Matteo Salvini, da parte sua, ieri ha attaccato il premier in carica, Paolo Gentiloni, che al Colle qualcuno immaginava di lasciare a palazzo Chigi fino alle elezioni: «Chiamate un medico!» ha detto Salvini, riferendosi alla dichiarazione del premier, che aveva affermato: «L'Italia ha bisogno di migranti ma con un flusso sicuro». Se Mattarella non permetterà al centrodestra di provare a convincere 50 deputati e 30 senatori a dare la fiducia a un governo guidato da Salvini, allora il capo dello Stato si troverà di fonte un muro di gomma che respingerà qualunque soluzione tecnica. L'unica, remotissima possibilità di un «sì», sarebbe per un preincarico alla presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, per un governo che sarebbe di centrodestra ma anche «istituzionale». Sul fronte grillino, intervistato da Maria Latella, il senatore Vito Crimi ha detto, sibillino: «L'offerta di governo di Salvini? È tardiva, ma valutiamo...». Carlo Tarallo <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/aiuto-sono-spariti-i-padri-del-rosatellum-2566188683.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="particle-2" data-post-id="2566188683" data-published-at="1765410304" data-use-pagination="False"> Il Pd non perde occasione di sfasciarsi un giorno sì e l'altro anche. A pochi giorni dal documento unitario in direzione, per una presunta pace tra il reggente Maurizio Martina e l'ex segretario Matteo Renzi, è un continuo fuoco incrociato all'interno del Nazareno. Dopo l'attacco pesante del ministro della Cultura Dario Franceschini al Bullo, ieri è stata la volta del sindaco di Milano Beppe Sala, da tempo non più in sintonia con l'ex presidente del Consiglio e il suo Giglio magico toscano. Nell'auditorium di Radio Popolare, insieme con l'assessore Pierfrancesco Majorino, l'ex amministratore delegato di Expo non cita mai esplicitamente Renzi, ma ribadisce che il Pd che vuole «deve essere radicalmente diverso da quello che il 4 marzo si è inabissato al 18%, una dimensione nella quale non possiamo stare». C'è un problema di leader? Se ne può fare anche a meno. «Ricominciamo», dice Sala, «dalle persone, dalla nostra città, da un nuovo Pd: chiediamo a 10 personalità, sul modello dei saggi, di fare un sacrificio per far rinascere il partito». Al solito è il modello Milano il punto di partenza, nonostante la sonora sconfitta alle ultime elezioni regionali in Lombardia, dove Giorgio Gori ha perso di più di 20 punti contro il candidato leghista Attilio Fontana. Sala vuole ripartire dal centro storico, ultimo baluardo dem? «Del resto», spiega un dem con una battuta, «Nicola Zingaretti da Roma ha detto di ripartire praticamente dai Parioli, ci mancava giusto Brera….». Eppure Sala ci crede. Nei giorni scorsi aveva aperto anche a un accordo di governo con il Movimento 5 stelle. Il modello è quello di un'alleanza tra tutti quelli che vogliono un vero cambio per riportare il centrosinistra a Palazzo Chigi. Ma con quali voti? A Milano c'è chi sostiene che il primo cittadino sia preoccupato dal calo dei consensi. Le ultime elezioni, come detto, non sono andate bene come alcuni vogliono far credere. Le periferie hanno votato Lega. In alcune zone sono aumentati i consensi dei grillini. Le politiche sull'hinterland non stanno funzionando, tanto che il centrodestra continua da giorni a battere sul tasto dolente. In città lo sanno tutti. Il leader del centrodestra Matteo Salvini è in crescita in città. E il Carroccio inizia a conquistare fette di tessuto economico politico dove prima non riusciva a fare breccia. Mancano ancora tre anni alle prossime elezioni, ma a Palazzo Marino inizia a circolare una certa preoccupazione. «Sala vuole tenere unito il centrosinistra», spiega un fonte di piazza della Scala, «ma deve prendere voti al centro e conquistare voti a destra, spostandosi a sinistra rischia di perderne molti altri». A Milano il vento sta cambiando. Le aggressioni della scorsa settimane di due marocchini irregolari hanno creato malumore nel centrosinistra, anche perché si è sempre insistito sull'accoglienza a tutti i costi. E in Bellerio, sede della Lega, c'è già chi dice che nel 2021, se Salvini dovesse fallire l'obiettivo di Palazzo Chigi, la candidatura naturale del leghista sarebbe proprio quella per Palazzo Marino: è un obiettivo che coltiva da anni. Alessandro Da Rold
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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