
Dall'imam somalo che incitava al massacro a Campobasso agli immigrati che preparavano l'attentato alla base di Ghedi: i terroristi islamici arrestati negli ultimi tre anni, fra condanne lievi e sconti, sono usciti subito di cella. E noi paghiamo la difesa.Alcuni si sono visti ridurre la pena in Appello e in Cassazione, altri stanno finendo di scontare la condanna e, tra qualche mese, torneranno liberi.L'infornata di jihadisti, reclutatori, aspiranti martiri e simpatizzanti dell'Isis, arrestati in Italia tra il 2015 e il 2016, tra condanne lievi, sconti e buona condotta, sta per tornare in circolazione. Dopo i tre gradi di giudizio, quasi sempre affrontati a spese dello Stato grazie al sistema del gratuito patrocinio, che nella maggioranza dei casi hanno ridotto gli anni da scontare, una volta usciti di galera dovrebbero essere riaccompagnati a casa, con decreto di espulsione. Invece, ancora, la magnanima legge italiana prevede, per loro, l'ennesima possibilità: comparire di nuovo di fronte a un giudice che valuterà se ancora sussistono i motivi per ritenere fondata la pericolosità sociale. Domanda retorica, per chi guarda con obiettività al sistema carcerario italiano, tra i migliori per favorire la radicalizzazione di soggetti già orientati all'islam fondamentalista.Le storie dei potenziali terroristi, fermati in tempo, e ora in procinto di uscire di galera, sono centinaia. Tutte simili. C'è Mohamed Abudlahi Abshirì, il giovane somalo che era stato arrestato all'interno del centro di accoglienza Happy Family di Campomarino (Campobasso) perché ritenuto una sorta di imam molisano. Fu arrestato il 9 marzo 2016 per atti istigatori finalizzati al compimento di atti terroristici, condannato a due anni e sei mesi, è uscito di galera il 25 maggio scorso e sta valutando il ricorso, perché non ha usufruito della buona condotta.C'è Alali Alhussain Ahmad, al secolo Arhad Faowazil, vigile urbano dell'Isis (assoldato dal Califfato per dirigere il traffico a Raqqa), arrestato il 17 novembre 2015 mentre tentava di imbarcarsi su un aereo insieme a un minore con documenti falsi. Venne condannato a quattro anni e, poiché il nostro sistema carcerario prevede, per chi tiene appunto una buona condotta, uno sconto di pena di 45 giorni ogni sei mesi, a conti fatti potrebbe uscire a breve.Con lui c'è Ali Awil Khadar, arrestato nel giugno del 2016 perché ritenuto responsabile dell'ingresso in Italia di Alali, che avrebbe aiutato conoscendo perfettamente la sua appartenenza al Califfato. Fermato dagli agenti mentre cercava di fuggire dalla finestra di un hotel di Roma è stato condannato a poco più di cinque anni, ma, anche lui, grazie agli sconti di pena potrebbe uscire nei primi mesi del 2020. Poi c'è Bilal Mohamed, pakistano, considerato una cellula dormiente: divulgava, attraverso i suoi profili Facebook, materiale inneggiante alla jihad. Venne arrestato nell'ottobre del 2015 e condannato a tre anni e due mesi di reclusione. Sta per tornare libero.Ci sono i componenti della cellula di Merano, quattro sedicenti curdi, con alloggio e sussidio pagati dai servizi sociali, incarcerati nel corso delle indagini sull'imam norvegese mullah Krekar. Arrestati nel 2016 furono condannati a quattro anni di reclusione (tutti tranne uno che ne beccò cinque). Anche questi, grazie ai premi vari, potrebbero uscire fra pochi mesi.Tra i più fortunati c'è El Khalfi Abderrahim, arrestato perché, secondo l'accusa, era dedito al proselitismo, all'indottrinamento e all'addestramento di terroristi attraverso un sito web e un forum online. Condannato prima a sei e poi, in appello, a quattro anni, lo scorso 12 giugno è uscito di galera e finirà di scontare la pena agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico.E ancora. Ci sono Briki Lassaad e Waqas Mohamed, rispettivamente tunisino e pakistano, arrestati nel 2015 e condannati a sei anni di carcere perché intercettati mentre programmavano di compiere attentati alla base Nato di Ghedi, nel Bresciano. Anche a loro, con ogni probabilità, non manca molto per concludere la pena. E tanti altri. Compresi quelli finiti dentro per reati diversi, che potrebbero aver completato la loro radicalizzazione proprio nelle carceri italiane.Nel nostro Paese, spesso, per i radicalizzati che inneggiano al Califfo, a fronte di gravi reati contestati (come il 270 bis, cioè l'associazione con finalità di terrorismo che prevede fino a 16 anni di carcere), le condanne non superano i sei anni. E, inoltre, procedendo con i gradi di giudizio queste si riducono ulteriormente, fino alle assoluzioni concesse dalla Cassazione.Perché accade? Secondo l'avvocato Vittorio Plati, del foro di Catanzaro, esperto nella difesa di presunti terroristi, si tratta dell'effetto di ritorno di una «forzatura del principio penale, applicata dai tribunali, allarmati dal fenomeno» che, a lungo, hanno contestato agli imputati «l'adesione a una organizzazione terroristica, considerandola valida anche se unilaterale», cioè espressa esclusivamente a livello ideologico. Questo principio (su cui l'Isis ha, peraltro, fondato parte della sua forza capillare di penetrazione in Europa attraverso i cosiddetti lupi solitari) non è, però, previsto dal nostro sistema giudiziario, che per riconoscere la partecipazione a una organizzazione criminale deve dimostrare, con i fatti, una biunivocità nel rapporto (tra organizzazione e affiliato). Ecco il gap che porta sempre più frequentemente i tribunali a «riqualificare i reati contestati», da più gravi a meno gravi, con una progressiva riduzione delle pene comminate. Fino all'assoluzione.All'appello mancano, infatti, i prosciolti.Come Garouan Brahim, Garouan Mohamed e Dahaki Younes, arrestati nel 2011 con l'accusa di addestramento al terrorismo a Catanzaro e poi scagionati. Vinsero la causa per ingiusta detenzione, aggiudicandosi un rimborso da 60.000 euro a testa. Non tutti, però, ne poterono usufruire: uno di loro, Brahim Garouan, non riuscì a godersi la cifra, perché morto, pochi mesi dopo, durante una battaglia in Siria.O come El Ghazzaoui Mourad arrestato a dicembre 2015, pochi giorni dopo il suo sbarco a Pozzallo. Sui suoi numerosi cellulari gli inquirenti trovarono inequivocabili immagini con scenari di morte, persone ammazzate o mutilate, con tanto di giuramento di fedeltà all'Isis e al Califfo. L'uomo venne assolto nel febbraio del 2017.O, infine, Hosni Hachemi, tunisino quarantanovenne, arrestato nel 2013 insieme a quattro compari che, secondo l'accusa, utilizzavano un call center per reclutare gli aspiranti jihadisti e si addestravano sull'Etna per simulare situazioni di guerriglia. Fu condannato a cinque anni e poi scarcerato, insieme agli altri nel luglio del 2016, per una sentenza avversa della Cassazione.
(IStock)
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