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2022-10-17
Addio Milano. Così si uccide una città
Ansa
Il sindaco di Milano Beppe Sala sembra voler puntare a migliorare il record dello scorso anno: Milano ha chiuso il 2021 in cima alla classifica italiana per cancellazioni demografiche. Il 2022 potrebbe andare anche peggio, visto il fuggi fuggi che ha innescato con la cacciata degli automobilisti dal centro e con le restrizioni sulla mobilità che rendono la vita impossibile ai residenti. Per ora la differenza tra chi va via e chi sceglie la città della «Madunina» è di circa 3.000 abitanti in meno. Ed è il prodotto di un flusso di milanesi che se ne vanno più intenso rispetto a quelli che decidono di stabilire la residenza.
Le condizioni che rendono sempre meno vivibile la città spingono verso l’uscita. E ai primi posti c’è di certo l’indice di criminalità. Nel 2021 il capoluogo lombardo è primo anche in questa classifica, con oltre 193.000 reati denunciati, ovvero quasi 6.000 ogni 100.000 abitanti. Si tratta soprattutto di furti in negozi e auto in sosta. Ma è anche la seconda città italiana per rapine su strada e terza per associazioni a delinquere. Primati che tengono alla larga al pari dei roghi tossici, come quello alla Nitrolchimica. Altro che CO2 da auto datate. E poi ci sono le aggressioni in pieno giorno: al Lorenteggio, a via Gola, a Quarto Oggiaro, alla Barona, a Calvairate, a Ponte Lambro. E il degrado. Che da tempo non è più solo un problema delle periferie.
Basta fare un giro per le vie limitrofe alla Stazione centrale: da via Mauro Macchi a via Scarlatti passando per via Benedetto Marcello. Dove, sotto i palazzi in stile Liberty, si spaccia ed è possibile rimorchiare prostitute a tutte le ore del giorno. Qui i passanti rischiano di assistere a scene agghiaccianti. A luglio proprio davanti alla stazione un minorenne nordafricano è stato pestato a sangue. Si è scoperto che una tentata rapina era finita in una lite tra sbandati. Il malcapitato era arrivato solo qualche settimana prima con il solito barcone a Trapani. E appena raggiunta Milano ha disseminato il panico in città: denunciato dalla polizia per uno scippo a una turista straniera, poi fermato per interruzione di pubblico servizio mentre attraversava i binari alla metropolitana di Cadorna. E infine la rissa. Episodi che, basta spulciare la cronaca locale, si ripetono in continuazione e in qualsiasi quartiere della città.
Se si inseriscono le parole «rissa» e «Milano» nel motore di ricerca Google saltano fuori oltre dieci pagine fitte di notizie con titoli di questo tipo: «Milano corso Como, rissa fra due gruppi di giovani, due feriti»; «Milano, rissa con bottiglie e coltelli»; «Weekend di sangue, risse con i coltelli»; «Milano, sprangate e coltellate tra abusivi e africani». Gli scontri sono ormai una pratica all’ordine del giorno per le forze di polizia. «I feriti manco li contiamo più», dice alla Verità un funzionario della polizia locale al quale sono stati chiesti gli ultimi dati. Di certo tra luglio e agosto ci sono state 1.758 chiamate di vario genere alla centrale operativa. Dagli schiamazzi notturni ai reati di allarme sociale. Ma ci sono anche segnalazioni di degrado. Che non affollano solo i centralini delle forze dell’ordine. Libri bianchi e denunce di associazioni ne sono strapieni.
C’è chi si è concentrato sulle aree verdi. Piazza Aspromonte, tra Loreto e Piola: materassi, vestiti stesi sulle staccionata, resti di bivacchi, immondizia, cestini traboccanti di bottiglie di birra. Piazza Gobetti, di fronte alla stazione ferroviaria di Lambrate, nell’area giochi per i bambini le casette e gli scivoli sono stati colonizzati da senzatetto e la sera si apre il mercato del sesso. L’ultima denuncia risale a qualche giorno fa, con tanto di dossier fotografico preparato da Marco Cagnolati, consigliere forzista del Municipio 3, e pubblicato dal freepress Leggo.
Ci sono poi le aree inaccessibili. Quelle che si sono divisi romeni ed egiziani. In particolare, Lorenteggio, San Siro e via Gola. Aree della città che si sono beccate pure una segnalazione sul sito acchiappaturisti Visitare.pro, rientrando nei consigli sulle «zone da evitare». In via Padova, invece, con un po’ di sfortuna si può assistere a qualche scontro tra nigeriani e sudamericani, con tanto di machete.
E poi ci sono le baby gang. Incontrollabili. La mappa più aggiornata l’ha tirata fuori Sky tg24 sul suo sito Web. «Tra corso Lodi e Città studi ci sono quelli della Z4 specializzati nelle aggressioni ai coetanei». In zona San Siro «ci sono i Z7zoo che inneggiano ai gangsta rap americani». In tutto di baby gang se ne contano 16 in città, che ormai immerse nella subcultura del rap violento incendiano auto, picchiano gli anziani, scippano e rapinano. O si scontrano. Sono passate alla storia le maxi risse nel dehor del McDonald’s di piazza dei Mercanti.
Ma a rendere la vita dei residenti molto complicata ci sono anche le occupazioni abusive. Via Bolla è finita sulla cronaca nazionale per i pestaggi alla gitana. Ci sono caseggiati, però, che sono messi anche peggio: un appartamento su due è occupato da chi non ne ha diritto: da San Siro a via Gola, ma anche al Gallaratese e Baggio. Le ultime stime parlano di quasi il 6% di alloggi di edilizia popolare occupato illegalmente. E gli occupanti non sono quasi mai stinchi di santo. Chi ci vive fianco a fianco quotidianamente ne sa qualcosa. La città inoltre è diventata per nulla raccomandabile per le donne: molestie sessuali di gruppo (come a Capodanno). E stupri. Nel 2021 si sono registrate 477 violenze sessuali: più di un caso al giorno. Ad aprile il gruppo Facebook «Milano progetti e cantieri» ha chiesto ai propri utenti di esprimersi sul quartiere più pericoloso in città.
I risultati sono stati sorprendenti. Si va da San Siro a Corso Como, a via Bonfadini, a Corvetto e c’è perfino chi ha segnalato, con tanto di esperienze vissute, via Montenapoleone e via della Spiga, due zone centralissime che difficilmente un non milanese avrebbe immaginato nell’elenco. Su Milano tomorrow, giornale ultralocale che spesso affronta i problemi del degrado in città, hanno commentato: «Il quartiere più pericoloso di Milano è Milano stessa». Il capoluogo maglia nera in Italia, dal quale ormai chi può fugge, anche a causa delle strampalate idee green di Beppe Sala.
«Il bene collettivo non sta nel seguire i verdi talebani»
Gabriele Albertini, da ex sindaco di Milano, come giudica i divieti nell’area B voluti da Giuseppe Sala? Stanno creando grossi disagi ai milanesi, sfavorendo la parte della popolazione meno abbiente.
«Sono sempre stato molto scettico sul fatto che l’inquinamento fosse dovuto per la maggior parte all’autotrazione, perché negli anni in cui sono stato vicepresidente della commissione trasporti del parlamento europeo, cioè dal 2004 al 2009 ci siamo occupati di questo argomento e le statistiche di tutte le varie fonti di rilevazione a livello europeo davano l’inquinamento dovuto ai trasporti, quindi non solo le auto, non superiore al 23% dell’inquinamento totale. Il restante il 67% era più o meno tripartito nelle altre fonti di inquinamento: produzione di energia, la produzione industriale e per le città in particolare, il riscaldamento. Le scelte di questa amministrazione, ma anche di amministrazioni precedenti come quella di Letizia Moratti con la congestion charge, si sono invece concentrate sull’autotrazione cosa che è in contraddizione con gli elementi che ho appena citato. L’aria inoltre è un fluido; porre una barriera di accesso non fisica, come non potrebbe essere comunque, ma amministrativa all’aria che si muove dentro e fuori l’area B non evita che s’inquini».
Perché queste misure allora?
«Ci sono due interpretazioni: una ideologica e una funzionale. Quella ideologica è tipica dei verdi talebani: ce l’hanno con le macchine, per cui bisogna andare in bicicletta. Ricordo quando Milly Moratti, uno dei due consiglieri verde in consiglio comunale, da Galleria Passerella a Palazzo Marino veniva con una bicicletta. Quando pioveva però veniva un’autista a ritirare lei e un cameriere con l’ombrello a ritirare la bici. Inoltre, mi risulta utilizzasse il suo aereo privato per spostarsi in spazi esigui. Poi c’è un motivo funzionale. Tutti se la prendono con le auto perché le auto si vedono. Uno non è che parcheggia e si mette l’auto in tasca. Le auto si muovono e si possono controllare, mentre altre fonti di inquinamento, come il riscaldamento, sono difficili da controllare e imporre. Si pensa che l’auto si possa non usare, ma è tutto da vedere. Inoltre, è una misura che punisce chi non può cambiare l’auto con quella dell’ultimo modello. Mi dispiace criticare un collega e un successore, che globalmente stimo come persona, però devo dire che Sala nel secondo mandato si è politicizzato, con simpatie all’area dei Verdi e del Pd. Sembra si stia accreditando politicamente piuttosto che per i suoi atti amministrativi e per il governo della città, come tale senza colore politico. Il sindaco è civico. Nel momento in cui sei sindaco il simbolo del partito lo metti nel cassetto e fai il bene collettivo. Il bene collettivo non è seguire i verdi talebani o i centri sociali o la sinistra massimalista, ma il buon senso».
L’amministrazione come sta gestendo il problema sicurezza?
«Se vuoi trasformare le forze di polizia in assistenti sociali, se non vuoi i militari, perché non vuoi la città militarizzata, se non vuoi le telecamere per la privacy o l’illuminazione perché vuoi guardare le stelle, il malintenzionato trova spazi adeguati per commettere crimini. I devianti vanno corretti con l’effetto dissuasivo della sanzione, ma anche impedendo di commettere reati, e ciò prevede sorveglianza e uso della forza. Non è questione di essere militarizzati ma non si può negoziare nelle fauci di una tigre. Non sono d’accordo con questo profilo buonista, che è partito con Pisapia, che in un secondo momento se l’è rimangiato. E non chiamiamola microcriminalità, perché non è per niente micro che un povero pensionato esca dalla posta e ci sia un ragazzaccio pronto a strappargli i soldi con cui vive. È una criminalità predatoria diffusa, non microcriminalità. È su questa base che si deve muovere un’amministrazione».
Cosa pensa dei monopattini che viaggiano in lungo e in largo per la città?
«Sono molto favorevole allo sharing, un intermedio tra i taxi e il mezzo pubblico. Sui monopattini però il problema è un po’ come con i ciclisti. Una volta che c’è un mezzo che ingombra poco, molto diffuso, poco regolamentato e non sanzionato, succedono dei guai. Chi si muove con questi mezzi ha una specie di prevalenza antropologica. Sembra che queste persone siano sopra le leggi del trasporto collettivo perché sono ecologiche e rispettano il pianeta, mentre gli altri devono inchinarsi di fronte al loro strapotere. Vanno messi gli orologi a posto, e ci vuole un orologiaio, il sindaco, che abbia la voglia e la determinazione di prendersela con i cittadini indisciplinati, come un padre con il figlio monello, prima che diventi delinquente».
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Dicono che sia la metropoli italiana «più europea»: invece è diventata invivibile e i cittadini scappano. Le restrizioni alle auto sono solo la punta dell’iceberg: c’è un degrado fatto di furti, rapine, aggressioni e violenze, anche in pieno giorno. Per non parlare delle risse tra baby gang.L’ex sindaco Gabriele Albertini: «Milly Moratti esibiva la bici, poi però si spostava con un aereo privato. E le industrie inquinano più delle auto».Lo speciale contiene due articoliIl sindaco di Milano Beppe Sala sembra voler puntare a migliorare il record dello scorso anno: Milano ha chiuso il 2021 in cima alla classifica italiana per cancellazioni demografiche. Il 2022 potrebbe andare anche peggio, visto il fuggi fuggi che ha innescato con la cacciata degli automobilisti dal centro e con le restrizioni sulla mobilità che rendono la vita impossibile ai residenti. Per ora la differenza tra chi va via e chi sceglie la città della «Madunina» è di circa 3.000 abitanti in meno. Ed è il prodotto di un flusso di milanesi che se ne vanno più intenso rispetto a quelli che decidono di stabilire la residenza.Le condizioni che rendono sempre meno vivibile la città spingono verso l’uscita. E ai primi posti c’è di certo l’indice di criminalità. Nel 2021 il capoluogo lombardo è primo anche in questa classifica, con oltre 193.000 reati denunciati, ovvero quasi 6.000 ogni 100.000 abitanti. Si tratta soprattutto di furti in negozi e auto in sosta. Ma è anche la seconda città italiana per rapine su strada e terza per associazioni a delinquere. Primati che tengono alla larga al pari dei roghi tossici, come quello alla Nitrolchimica. Altro che CO2 da auto datate. E poi ci sono le aggressioni in pieno giorno: al Lorenteggio, a via Gola, a Quarto Oggiaro, alla Barona, a Calvairate, a Ponte Lambro. E il degrado. Che da tempo non è più solo un problema delle periferie. Basta fare un giro per le vie limitrofe alla Stazione centrale: da via Mauro Macchi a via Scarlatti passando per via Benedetto Marcello. Dove, sotto i palazzi in stile Liberty, si spaccia ed è possibile rimorchiare prostitute a tutte le ore del giorno. Qui i passanti rischiano di assistere a scene agghiaccianti. A luglio proprio davanti alla stazione un minorenne nordafricano è stato pestato a sangue. Si è scoperto che una tentata rapina era finita in una lite tra sbandati. Il malcapitato era arrivato solo qualche settimana prima con il solito barcone a Trapani. E appena raggiunta Milano ha disseminato il panico in città: denunciato dalla polizia per uno scippo a una turista straniera, poi fermato per interruzione di pubblico servizio mentre attraversava i binari alla metropolitana di Cadorna. E infine la rissa. Episodi che, basta spulciare la cronaca locale, si ripetono in continuazione e in qualsiasi quartiere della città.Se si inseriscono le parole «rissa» e «Milano» nel motore di ricerca Google saltano fuori oltre dieci pagine fitte di notizie con titoli di questo tipo: «Milano corso Como, rissa fra due gruppi di giovani, due feriti»; «Milano, rissa con bottiglie e coltelli»; «Weekend di sangue, risse con i coltelli»; «Milano, sprangate e coltellate tra abusivi e africani». Gli scontri sono ormai una pratica all’ordine del giorno per le forze di polizia. «I feriti manco li contiamo più», dice alla Verità un funzionario della polizia locale al quale sono stati chiesti gli ultimi dati. Di certo tra luglio e agosto ci sono state 1.758 chiamate di vario genere alla centrale operativa. Dagli schiamazzi notturni ai reati di allarme sociale. Ma ci sono anche segnalazioni di degrado. Che non affollano solo i centralini delle forze dell’ordine. Libri bianchi e denunce di associazioni ne sono strapieni.C’è chi si è concentrato sulle aree verdi. Piazza Aspromonte, tra Loreto e Piola: materassi, vestiti stesi sulle staccionata, resti di bivacchi, immondizia, cestini traboccanti di bottiglie di birra. Piazza Gobetti, di fronte alla stazione ferroviaria di Lambrate, nell’area giochi per i bambini le casette e gli scivoli sono stati colonizzati da senzatetto e la sera si apre il mercato del sesso. L’ultima denuncia risale a qualche giorno fa, con tanto di dossier fotografico preparato da Marco Cagnolati, consigliere forzista del Municipio 3, e pubblicato dal freepress Leggo.Ci sono poi le aree inaccessibili. Quelle che si sono divisi romeni ed egiziani. In particolare, Lorenteggio, San Siro e via Gola. Aree della città che si sono beccate pure una segnalazione sul sito acchiappaturisti Visitare.pro, rientrando nei consigli sulle «zone da evitare». In via Padova, invece, con un po’ di sfortuna si può assistere a qualche scontro tra nigeriani e sudamericani, con tanto di machete.E poi ci sono le baby gang. Incontrollabili. La mappa più aggiornata l’ha tirata fuori Sky tg24 sul suo sito Web. «Tra corso Lodi e Città studi ci sono quelli della Z4 specializzati nelle aggressioni ai coetanei». In zona San Siro «ci sono i Z7zoo che inneggiano ai gangsta rap americani». In tutto di baby gang se ne contano 16 in città, che ormai immerse nella subcultura del rap violento incendiano auto, picchiano gli anziani, scippano e rapinano. O si scontrano. Sono passate alla storia le maxi risse nel dehor del McDonald’s di piazza dei Mercanti. Ma a rendere la vita dei residenti molto complicata ci sono anche le occupazioni abusive. Via Bolla è finita sulla cronaca nazionale per i pestaggi alla gitana. Ci sono caseggiati, però, che sono messi anche peggio: un appartamento su due è occupato da chi non ne ha diritto: da San Siro a via Gola, ma anche al Gallaratese e Baggio. Le ultime stime parlano di quasi il 6% di alloggi di edilizia popolare occupato illegalmente. E gli occupanti non sono quasi mai stinchi di santo. Chi ci vive fianco a fianco quotidianamente ne sa qualcosa. La città inoltre è diventata per nulla raccomandabile per le donne: molestie sessuali di gruppo (come a Capodanno). E stupri. Nel 2021 si sono registrate 477 violenze sessuali: più di un caso al giorno. Ad aprile il gruppo Facebook «Milano progetti e cantieri» ha chiesto ai propri utenti di esprimersi sul quartiere più pericoloso in città. I risultati sono stati sorprendenti. Si va da San Siro a Corso Como, a via Bonfadini, a Corvetto e c’è perfino chi ha segnalato, con tanto di esperienze vissute, via Montenapoleone e via della Spiga, due zone centralissime che difficilmente un non milanese avrebbe immaginato nell’elenco. Su Milano tomorrow, giornale ultralocale che spesso affronta i problemi del degrado in città, hanno commentato: «Il quartiere più pericoloso di Milano è Milano stessa». Il capoluogo maglia nera in Italia, dal quale ormai chi può fugge, anche a causa delle strampalate idee green di Beppe Sala. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/addio-milano-cosi-si-uccide-una-citta-2658458713.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-bene-collettivo-non-sta-nel-seguire-i-verdi-talebani" data-post-id="2658458713" data-published-at="1665954701" data-use-pagination="False"> «Il bene collettivo non sta nel seguire i verdi talebani» Gabriele Albertini, da ex sindaco di Milano, come giudica i divieti nell’area B voluti da Giuseppe Sala? Stanno creando grossi disagi ai milanesi, sfavorendo la parte della popolazione meno abbiente. «Sono sempre stato molto scettico sul fatto che l’inquinamento fosse dovuto per la maggior parte all’autotrazione, perché negli anni in cui sono stato vicepresidente della commissione trasporti del parlamento europeo, cioè dal 2004 al 2009 ci siamo occupati di questo argomento e le statistiche di tutte le varie fonti di rilevazione a livello europeo davano l’inquinamento dovuto ai trasporti, quindi non solo le auto, non superiore al 23% dell’inquinamento totale. Il restante il 67% era più o meno tripartito nelle altre fonti di inquinamento: produzione di energia, la produzione industriale e per le città in particolare, il riscaldamento. Le scelte di questa amministrazione, ma anche di amministrazioni precedenti come quella di Letizia Moratti con la congestion charge, si sono invece concentrate sull’autotrazione cosa che è in contraddizione con gli elementi che ho appena citato. L’aria inoltre è un fluido; porre una barriera di accesso non fisica, come non potrebbe essere comunque, ma amministrativa all’aria che si muove dentro e fuori l’area B non evita che s’inquini». Perché queste misure allora? «Ci sono due interpretazioni: una ideologica e una funzionale. Quella ideologica è tipica dei verdi talebani: ce l’hanno con le macchine, per cui bisogna andare in bicicletta. Ricordo quando Milly Moratti, uno dei due consiglieri verde in consiglio comunale, da Galleria Passerella a Palazzo Marino veniva con una bicicletta. Quando pioveva però veniva un’autista a ritirare lei e un cameriere con l’ombrello a ritirare la bici. Inoltre, mi risulta utilizzasse il suo aereo privato per spostarsi in spazi esigui. Poi c’è un motivo funzionale. Tutti se la prendono con le auto perché le auto si vedono. Uno non è che parcheggia e si mette l’auto in tasca. Le auto si muovono e si possono controllare, mentre altre fonti di inquinamento, come il riscaldamento, sono difficili da controllare e imporre. Si pensa che l’auto si possa non usare, ma è tutto da vedere. Inoltre, è una misura che punisce chi non può cambiare l’auto con quella dell’ultimo modello. Mi dispiace criticare un collega e un successore, che globalmente stimo come persona, però devo dire che Sala nel secondo mandato si è politicizzato, con simpatie all’area dei Verdi e del Pd. Sembra si stia accreditando politicamente piuttosto che per i suoi atti amministrativi e per il governo della città, come tale senza colore politico. Il sindaco è civico. Nel momento in cui sei sindaco il simbolo del partito lo metti nel cassetto e fai il bene collettivo. Il bene collettivo non è seguire i verdi talebani o i centri sociali o la sinistra massimalista, ma il buon senso». L’amministrazione come sta gestendo il problema sicurezza? «Se vuoi trasformare le forze di polizia in assistenti sociali, se non vuoi i militari, perché non vuoi la città militarizzata, se non vuoi le telecamere per la privacy o l’illuminazione perché vuoi guardare le stelle, il malintenzionato trova spazi adeguati per commettere crimini. I devianti vanno corretti con l’effetto dissuasivo della sanzione, ma anche impedendo di commettere reati, e ciò prevede sorveglianza e uso della forza. Non è questione di essere militarizzati ma non si può negoziare nelle fauci di una tigre. Non sono d’accordo con questo profilo buonista, che è partito con Pisapia, che in un secondo momento se l’è rimangiato. E non chiamiamola microcriminalità, perché non è per niente micro che un povero pensionato esca dalla posta e ci sia un ragazzaccio pronto a strappargli i soldi con cui vive. È una criminalità predatoria diffusa, non microcriminalità. È su questa base che si deve muovere un’amministrazione». Cosa pensa dei monopattini che viaggiano in lungo e in largo per la città? «Sono molto favorevole allo sharing, un intermedio tra i taxi e il mezzo pubblico. Sui monopattini però il problema è un po’ come con i ciclisti. Una volta che c’è un mezzo che ingombra poco, molto diffuso, poco regolamentato e non sanzionato, succedono dei guai. Chi si muove con questi mezzi ha una specie di prevalenza antropologica. Sembra che queste persone siano sopra le leggi del trasporto collettivo perché sono ecologiche e rispettano il pianeta, mentre gli altri devono inchinarsi di fronte al loro strapotere. Vanno messi gli orologi a posto, e ci vuole un orologiaio, il sindaco, che abbia la voglia e la determinazione di prendersela con i cittadini indisciplinati, come un padre con il figlio monello, prima che diventi delinquente».
Alberto Stasi (Ansa)
Ieri, nell’aula del tribunale di Pavia, quell’ombra è stata cancellata dall’incidente probatorio. «È stato chiarito definitivamente che Stasi è escluso». Lo dice senza giri di parole all’uscita dal palazzo di giustizia Giada Bocellari, difensore con Antonio De Rensis di Stasi. «Tenete conto», ha spiegato Bocellari, «che noi partivamo da una perizia del professor Francesco De Stefano (il genetista che nel 2014 firmò la perizia nel processo d’appello bis, ndr) che diceva che il Dna era tutto degradato e che Stasi non poteva essere escluso da quelle tracce». È il primo elemento giudiziario della giornata di ieri. La stessa Bocellari, però, mette anche un freno a ogni lettura forzata: «Non è che Andrea Sempio verrà condannato per il Dna. Non verrà mai forse neanche rinviato a giudizio solo per il Dna». Gli elementi ricavati dall’incidente probatorio, spiega, sono «un dato processuale, una prova che dovrà poi essere valutata e questo lo potrà fare innanzitutto la Procura quando dovrà decidere, alla fine delle indagini, cosa fare». Dentro l’aula, però, la tensione non è stata solo scientifica. È stata anche simbolica. Perché Stasi era presente. Seduto, in silenzio. E la sua presenza ha innescato uno scontro.
«È venuto perché questa era una giornata importante», spiega ancora Bocellari, aggiungendo: «Tenete conto che sono undici anni che noi parliamo di questo Dna e finalmente abbiamo assunto un risultato nel contraddittorio». Una scelta rivendicata senza tentennamenti: «Tenete conto anche del fatto che lui ha sempre partecipato al suo processo, è sempre stato presente alle udienze e quindi questo era un momento in cui esserci, nel massimo rispetto anche dell’autorità giudiziaria che oggi sta procedendo nei confronti di un altro soggetto». E quel soggetto è Sempio. Indagato. Ma assente. Una scelta opposta, spiegata dai suoi legali. «In ogni caso non avrebbe potuto parlare», chiarisce Angela Taccia, che spiega: «Il Dna non è consolidato, non c’è alcuna certezza contro Sempio. Il software usato non è completo, anzi è molto scarno, non si può arrivare a nessun punto fermo». Lo stesso tono lo usa Liborio Cataliotti, l’altro difensore di Sempio. «Confesso che non mi aspettavo oggi la presenza di Stasi. Però non mi sono opposto, perché si è trattato di una presenza, sia pur passiva, di chi è interessato all’espletamento della prova. Non mi sembrava potessero esserci controindicazioni alla sua presenza». Se per la difesa di Sempio la presenza di Stasi è neutra, sul fronte della famiglia Poggi il clima è diverso. L’avvocato Gian Luigi Tizzoni premette: «Vedere Stasi non mi ha fatto nessun effetto, non ho motivi per provare qualsiasi tipo di emozione». Ma la linea processuale è chiara. Durante l’udienza i legali dei Poggi (rappresentati anche dall’avvocato Francesco Compagna) hanno chiesto che Stasi uscisse dall’aula perché «non è né la persona offesa né l’indagato». Richiesta respinta dal gip Daniela Garlaschelli come «irrilevante e tardiva», perché giunta «a sei mesi di distanza dall’inizio dell’incidente probatorio». Stasi è stato quindi ammesso come «terzo interessato». Ma l’avvocato Compagna tiene il punto: «Credo che di processuale ci sia poco in questa vicenda, è un enorme spettacolo mediatico». E attacca sul merito: «La verità è che le unghie sono prive di significato, visto che la vittima non si è difesa e giocare su un dato che non è scientifico è una follia».
La perita Denise Albani, ricorda Compagna, «ha ribadito che non si può dire come, dove e quando quella traccia è stata trasferita e quindi non ha valore». Deve essersi sentito un terzo interessato anche il difensore dell’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti (indagato a Brescia per un’ipotesi di corruzione in atti giudiziari riferita all’archiviazione della posizione di Sempio nel 2017). L’avvocato Domenico Aiello, infatti, ha alzato il livello dello scontro: «Non mi risulta che esista la figura della parte processuale del “terzo interessato”. Si è palesato in aula a Pavia il titolare effettivo del subappalto di manodopera nel cantiere della revisione». E insiste: «Sarei curioso di capire se sia soddisfatto e in quale veste sarà registrato al verbale di udienza, se spettatore abusivo o talent scout od osservatore interessato. Ancora una grave violazione del Codice di procedura penale. Spero non si sostituisca un candidato innocente con un altro sfortunato innocente e a spese di un sicuro innocente».
Ma mentre le polemiche rimbalzano fuori dall’aula, dentro il dato resta tecnico. E su quel dato, paradossalmente, tutti escono soddisfatti. «Dal nostro punto di vista abbiamo ottenuto risposte che riteniamo molto ma molto soddisfacenti sulla posizione di Sempio», dice Cataliotti. Taccia conferma: «Siamo molto soddisfatti di com’è andata oggi». La difesa di Sempio ribadisce che il dato è neutro, parziale, non decisivo. La difesa di Stasi incassa l’esclusione definitiva del Dna. E alla fine l’incidente probatorio ha fatto la sua parte. Ha prodotto una prova. Ha chiarito un equivoco storico. E ha lasciato ognuno con il proprio argomento in mano. Fuori dall’aula, però, il processo mediatico si è concentrato tutto sulla presenza di Stasi e sull’assenza di Sempio, come se l’innocenza o la colpevolezza di qualcuno fosse misurabile a colpi di apparizioni sceniche.
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E come si può chiamare un tizio che promette «appena posso (violare la legge, ndr) lo rifaccio»?. «Costi quel che costi», disse Luca Casarini, «al vostro ordine continuerò a disobbedire, perché obbedisco ad altro, di fronte al quale le vostre leggi ingiuste e criminali, ciniche e orribili non possono niente». Quelle contestate sono le leggi dello Stato italiano, approvate dal Parlamento italiano, vigilate dalla Corte costituzionale italiana, rispettate dalla maggioranza degli italiani. Ma per Casarini e compagni si possono ignorare. Anzi, si devono violare. E nessuno può permettersi il diritto di critica e di chiamarli pirati. «Abbiamo disobbedito a un ordine ingiusto e inumano del ministero dell’Interno», disse Beppe Caccia, capo missione di Mediterranea, «ma così facendo abbiamo obbedito al diritto marittimo, alla Costituzione italiana, alle leggi dell’umanità». Chi si può arrogare il diritto di stabilire che ci si può infischiare di una legge? Ve la immaginate quale sarebbe la reazione di fronte a un tizio che ignora il codice della strada o la normativa fiscale e dice che lui risponde a una legge superiore? E vi ricorda qualche cosa la definizione di «legge criminale»? Negli anni della contestazione lo Stato era criminale, le misure repressive, i divieti autoritari. Come sia finita si sa.
Il soccorso in mare ha un obiettivo politico: è un’azione che mira a «contrastare e a sovvertire il sistema capitalista e patriarcale» come ha spiegato don Mattia Ferrari, il cappellano di Mediterranea. «Abbiamo abbattuto un muro. Quello innalzato in mare dal decreto sicurezza bis. Siamo stati costretti a farlo», ha aggiunto Carola Rackete, la capitana che nella foga di attraccare nonostante le fosse stato negato il diritto allo sbarco andò a sbattere con la sua nave contro una motovedetta della Guardia di finanza. E costoro non si possono definire pirati? Chiamarli tali, perché come diceva il filosofo Giulio Giorello a proposito dei bucanieri, ritengono la loro coscienza «superiore a ogni legge», sarebbe diffamatorio? E quale offesa alla propria reputazione, quale danno, avrebbero patito, di grazia? È evidente che le querele hanno un obiettivo: tappare la bocca a chi esprime un giudizio critico, impedire alla libera stampa di dire quel che pensa e di chiamare le cose con il loro nome.
Da una settimana si discute di giornali comprati e venduti, perché John Elkann ha messo in vendita Repubblica e La Stampa. Ma la minaccia all’articolo 21 della Costituzione non viene da un imprenditore greco o italiano che compra una testata, bensì dal tentativo di imbavagliare chi si oppone, con le inchieste e le notizie, alla strategia dell’immigrazione, arma - come predica don Ferrari - usata per abbattere il sistema capitalistico e patriarcale. Sono certo che di fronte alla sentenza contro Panorama non si leveranno le voci degli indignati speciali. Quelle si alzano solo quando condannano Roberto Saviano a pagare mille euro per aver chiamato bastardi Meloni e Salvini. Visti i risultati, mi conveniva titolare «I nuovi bastardi».
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Giorgia Meloni (Ansa)
La commissione per le libertà civili dell’Eurocamera e i negoziatori del Consiglio hanno concordato informalmente le nuove norme in base alle quali gli Stati membri possono decidere che un Paese extra Ue sia da considerarsi Paese terzo sicuro (Stc) nei confronti di un richiedente asilo che non ne è cittadino. Alla base di tutto c’è stata un’iniziativa del governo di Giorgio Meloni e l’appoggio di Ursula von der Leyen, che aveva capito che bisognava intervenire contro le interpretazioni creative.
La Commissione ha subito emesso una nota di soddisfazione: «Queste nuove norme aiuteranno gli Stati membri ad accelerare il trattamento delle domande di asilo, a ridurre la pressione sui sistemi di asilo e a ridurre gli incentivi alla migrazione illegale verso l’Ue, preservando nel contempo le garanzie giuridiche per i richiedenti e garantendo il rispetto dei diritti fondamentali».
Il fronte contrario a una miglior specificazione del concetto di Paese sicuro teme che le nuove regole possano tradursi in una minor tutela dei richiedenti asilo. Ma dall’altro, i contrari non sembrano propensi ad ammettere che i Paesi veramente democratici, almeno secondo i canoni occidentali, sono sempre meno.
A margine del Consiglio europeo, Giorgia Meloni, insieme ai colleghi danese, Mette Frederiksen, e olandese, Dick Schoof, ha ospitato una nuova riunione informale dei 15 Stati membri più interessati al tema delle soluzioni in ambito migratorio.
Insieme a Italia, Danimarca, Paesi Bassi e Commissione europea, hanno preso parte all’incontro i leader di Austria, Bulgaria, Cipro, Croazia, Germania, Grecia, Polonia, Repubblica ceca, Lettonia, Malta, Ungheria e Svezia.
In questa sede, come spiega una nota di Palazzo Chigi, il premier italiano ha aggiornato i colleghi sul lavoro in corso «sul tema della capacità delle Convenzioni internazionali di rispondere alle sfide della migrazione irregolare e sulle prossime iniziative previste».
Dopo il risultato dello scorso 10 dicembre, quando 27 Stati membri del Consiglio d’Europa hanno sottoscritto la dichiarazione politica italo-danese, ora il lavoro continua in vista della Ministeriale del Consiglio d’Europa, sotto la presidenza moldava, del prossimo 15 maggio.
I leader hanno anche concordato di lanciare iniziative congiunte anche nei diversi contesti internazionali, a partire dall’Onu, per «promuovere più efficacemente l’approccio europeo ad una gestione ordinata dei flussi migratori».
Per Alessandro Ciriani, eurodeputato di Fdi-Ecr e relatore per il Parlamento europeo del dossier sui Paesi terzi sicuri, «la lista concordata - che comprende, oltre ai Paesi candidati, Egitto, Bangladesh, Tunisia, India, Colombia, Marocco e Kosovo - produrrà effetti immediati sulle pratiche di esame delle domande di protezione internazionale, accelerando le procedure e rafforzando la certezza applicativa». In generale, per Ciriani «è un momento storico: grazie al lavoro del governo italiano, anche in Europa si supera la polarizzazione politica in tema di immigrazione e si sceglie la via del buonsenso».
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Carola Rackete (Getty Images)
Era marzo 2021 e così prometteva di sfidare la magistratura Luca Casarini, fondatore e capomissione di Mediterranea Saving Humans. L’ex disobbediente del Nord-Est dichiarava di voler continuare a non rispettare le regole, l’ha ribadito anche lo scorso ottobre in apertura del processo a Ragusa dove è accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina con l’aggravante di averne tratto profitto. «¡Aquí no se rinde nadie! qui non si arrende nessuno», terminò il suo post su Facebook poco prima dell’udienza, citando la frase pronunciata dal comandante rivoluzionario Juan Almeida Bosque durante lo sbarco dei guerriglieri a Cuba. Casarini non riconosce la legge e poco importa se traveste l’inosservanza con scuse umanitarie: la lista dei disobbedienti per torti e offese subìte sarebbe interminabile, mentre in uno Stato di diritto non si fa giustizia a propria misura calpestando l’ordinamento.
Il capomissione della Ong si vanta di essere un trasgressore, solca i mari con «la nave dei centri sociali» agendo senza regole se non le condivide. «Io ho fatto del ragionamento sulla disobbedienza una caratteristica della mia vita [...] Sono i governi che violano continuamente la legge», è una sua precedente affermazione datata marzo 2019 in piena vicenda Mare Jonio, la barca entrata nel porto di Lampedusa malgrado il no del Viminale allora retto da Matteo Salvini.
Non è da meno il capo missione di Mediterranea, Beppe Caccia, che lo scorso agosto ammetteva con orgoglio di avere infranto la legge: «Abbiamo disobbedito a un ordine ingiusto e inumano del ministero dell’Interno. Ma così facendo abbiamo obbedito al diritto marittimo, alla Costituzione italiana e alle leggi dell’umanità». No, la Costituzione afferma che la legge è uguale per tutti, senza distinzioni di sorta e che tutti sono tenuti a rispettarla.
Eppure Carola Rackete si è vantata più volte di averla calpestata nel nostro Paese. La comandante tedesca della nave Sea Watch 3, che con le sue 650 tonnellate di stazza aveva investito la motovedetta della Guardia di finanza colpevole solo di avere intimato l’alt, nel giugno del 2019 giustificava l’azione. «Non è stato un atto di violenza. Solo di disobbedienza. Ma ho sbagliato la manovra. Per me era vietato obbedire. Mi chiedevano di riportarli in Libia. Ma per la legge sono persone che fuggono da un Paese in guerra, la legge vieta che io le possa riportare là», era la sua strabiliante versione accolta anche dal gip del tribunale di Agrigento che archiviò le accuse di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina e disobbedienza a nave da guerra. Salvini protestò: «Quindi, se capisco bene la sentenza, speronare una motovedetta militare italiana con uomini a bordo non è reato. Torniamo ai tempi dei pirati… No comment». Rackete un mese dopo tornava a vantarsi: «Abbiamo abbattuto un muro. Quello innalzato in mare dal Decreto sicurezza bis. Siamo stati costretti a farlo. Talvolta servono azioni di disobbedienza civile per affermare diritti umani e portare leggi sbagliate di fronte a un giudice».
In quest’ottica, l’assurdità dei decreti legge emanati durante l’emergenza Covid dovrebbero giustificare gli atti di disobbedienza compiuti, anche con il rifiuto di vaccinarsi che invece è stato perseguito e punito. Spesso il principio di legalità non ha affatto rappresentato la massima garanzia di libertà, anzi ha modificato diritti fondamentali dei cittadini e chi si è ribellato ne ha pagato le conseguenze. Solo le Ong sarebbero libere di infrangere le leggi?
Nel maggio del 2024 associazioni come Baobab experience, Collettivo rotte balcaniche, Linea d’ombra, Kitchen on borders difendevano un network nato «nell’autodenuncia della propria pratica quotidiana di disobbedienza civile, contro le politiche migratorie italiana ed europea, contro i confini interni ed esterni».
E se ci si mette anche la Chiesa, la disobbedienza può appare il nuovo credo a cui dare ascolto. In spregio alle leggi e ai tribunali, stando alle parole di don Mattia Ferrari, il cappellano di Mediterranea Saving Humans. «La morale per noi invece è che tu devi lottare accanto a chi è oppresso. Tu devi contrastare questo sistema. Tu devi sovvertire questo sistema capitalista e patriarcale. E allora abbiamo introdotto l’espressione disobbedienza morale», spiegava nel luglio del 2023.
Anche Alessandra Sciurba, già presidente di Mediterranea Saving Humans, nel 2020 parlava di «disobbedienza morale e obbedienza civile» che l’aveva animata a soccorrere migranti sulla barca a vela Alex sfidando decreti-legge e imposizioni governative illegittimi. È la stessa Associazione di promozione sociale (Aps) in cui si è trasformata Mediterranea a lamentarsi perché «le Ong sono costrette a spendere una gran quantità di tempo e risorse per contestare la restrittiva legislazione italiana e i fermi amministrativi arbitrariamente imposti». Navigano contro legge.
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