2025-04-12
Affari e geopolitica tra Donald e Vlad. Invece qui ci si aggrappa alla guerra
Donald Trump e Vladimir Putin (Ansa)
Prima di un armistizio, le due superpotenze cercano un’intesa su rapporti reciproci e sfere d’influenza. Il Vecchio continente intanto si preoccupa solo dello sforzo bellico che vuole imporre a un Paese dissanguato.«È in corso un processo di normalizzazione delle relazioni e di ricerca delle basi per intraprendere la traiettoria di un accordo sulla questione ucraina». La spiegazione fornita ieri dal portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, illustra bene quale sia l’ordine delle priorità per Vladimir Putin: prima un macro accordo Russia-Stati Uniti; poi la fine delle ostilità nel Donbass e sugli altri fronti del conflitto. Donald Trump, dal canto suo, preme per portare a casa - entro fine mese? - un risultato concreto in direzione della tregua. Ha compreso che, al contrario, Mosca non ha fretta; anzi, il tempo gioca dalla parte dello zar e lui ha intenzione di sfruttare fino all’ultimo secondo utile a massimizzare i guadagni. Ma anche il presidente americano pensa che la vera questione in ballo, ancor più del destino di Kiev, di Mariupol e di Odessa, sia la possibilità di raggiungere un’intesa in virtù della quale statunitensi e russi riconoscano, rispettandole di qui in avanti, le rispettive sfere d’influenza. E magari cooperino un po’, in chiave anticinese. È una delle scommesse del tycoon, insieme al tentativo, forse ancora più complicato, di riformare il sistema del commercio internazionale: riformare pure l’ordine mondiale. Là dove oggi vige il linguaggio dell’internazionalismo liberale, riportare la logica della vecchia geopolitica. O almeno, costringere tutti gli Stati ad ammettere che essa è già tornata in auge, dopo che ha comunque continuato a scorrere, come un fiume carsico, al di sotto della crosta dell’ideologia.Anche il ministro degli Esteri di Mosca, Sergej Lavrov, consumato diplomatico, è stato esplicito: «È ragionevole ed essenziale», ha detto ieri, «lavorare per una normalizzazione basata sul reciproco riconoscimento e rispetto degli interessi nazionali di ciascun Paese». È una trattativa cinica? Senza dubbio: le sofferenze dell’Ucraina arretrano all’improvviso sullo sfondo. La terra per difendere la quale tanti giovani sono morti diventa un fastidio di cui liberarsi e un bottino da spartirsi. È indicativo che l’inviato della Casa Bianca, Steve Witkoff, prima di andare da Putin, ieri abbia incontrato Kirill Dmitriev, cioè il capo del Fondo russo per gli investimenti diretti e il rappresentante speciale del leader della Federazione per gli investimenti e la cooperazione economica. Della serie: troviamo un compromesso sulla base di un business comune. Ma cos’era stata prima l’Ucraina? Se non, nell’ottica russa, un cuscinetto per impedire l’attrito con la Nato e, nell’ottica americana, una pedina da sfruttare in un conflitto per procura? E non c’è del cinismo nella posizione dell’Europa, che promettendo aiuti militarmente inessenziali, pretende di prolungare la guerra «fino alla vittoria»?Ieri, il ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius, ha espresso un giudizio raggelante: «Dobbiamo ammettere che la pace appare fuori portata nell’immediato futuro. Ma la Russia deve capire che l’Ucraina è in grado di continuare a combattere e che noi la sosterremo». Dunque, mentre Trump e Putin certificano un cambiamento nel modo di gestire le relazioni internazionali, che si era già prodotto e che si trattava solo di non far più finta che non fosse avvenuto, nel Vecchio continente si rimane prigionieri di una dimensione parallela, nella quale non conta l’equilibrio di potenza, bensì la nobiltà della causa per la quale si combatte. O meglio, per la quale gli altri combattono e muoiono. Al punto che Francia e Regno Unito starebbero valutando l’invio di truppe a Est per un periodo di cinque anni, in attesa che l’Ucraina possa ricostituire le proprie forze armate. E sia di nuovo pronta per calarsi in trincea. Per tenere impegnati i russi, dei quali temiamo un’invasione entro il 2030? Perché ci occorre un pretesto che giustifichi massicci investimenti nel riarmo, a loro volta funzionali a rimediare al disastro industriale che ha provocato la transizione ecologica? Il nodo non sta nelle motivazioni opportunistiche celate dai proclami di valore.Ciò che è fondamentale rilevare è la divaricazione tra un Occidente che ha preso atto che la storia, se mai era finita, ormai è ricominciata, che quindi bisognerà difendere i propri interessi anche con strumenti militari, ma che al contempo sarà opportuno, nell’interesse di un pur precario bilanciamento globale, accordare ai propri avversari un legittimo spazio di egemonia; e un Occidente che supplisce al suo tragico deficit di capacità politica aggrappandosi a prese di posizione eticheggianti. Che nella migliore delle ipotesi si prestano a servire le ambizioni dei più scafati (le mire di Parigi sono un ottimo esempio); e nella peggiore, esigono il supplizio di una nazione già dissanguata. Perché noi questa guerra vogliamo continuarla, sì. Ma sacrificando i giovani soldati degli altri.
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