2020-11-01
Abbiamo dimenticato i nostri martiri per questo non capiamo chi ci attacca
Bernard-Henri Lévy ripete che i terroristi sono solo «fascisti» da combattere a colpi di apertura e tolleranza. L'esempio di eroi della fede come padre Jacques Hamel dice il contrario. Intanto a Lione ancora spari contro un prete.Le ultime parole che padre Jacques Hamel pronunciò prima di morire furono: «Vattene, Satana!». Le gridò più volte, guardando in faccia il suo carnefice, un soldato dello Stato islamico che lo obbligò a mettersi in ginocchio poi lo finì con un fendente alla gola. Padre Hamel è morto sgozzato a 85 anni, mentre stava dicendo messa nella chiesa di Saint-Étienne, in un sobborgo periferico di Rouen, in Francia. Era l'estate del 2016. Poco tempo dopo, papa Francesco usò frasi chiare per definire l'anziano sacerdote massacrato a coltellate: «È un martire!», disse. «E i martiri sono beati». In effetti la causa di beatificazione per Hamel è partita in fretta, e l'esame di carte e testimonianze si è concluso poco più di due mesi fa, dunque non resta che attendere il responso definitivo del Vaticano. Il problema è che il martirio di Jacques Hamel continua a non essere compreso dai più. Di solito viene derubricato a una sorta di curiosità che affiora qua e là negli articoli di cronaca dedicati al terrorismo islamico. Il sacerdote è diventato un morto tra i tanti, un puntino nell'ormai sterminato elenco di vittime innocenti dei jihadisti. Ma persino quando viene commemorato dalle autorità, passa in secondo piano il senso profondo del suo sacrificio. Proprio ieri il primo ministro francese, Jean Castex, si è recato in visita a Rouen, è entrato nella chiesa di Saint-Étienne e a modo suo ha reso omaggio alla memoria del vecchio aiuto parroco, dopo aver fatto sapere che la sorveglianza dei luoghi di culto sarebbe stata aumentata. Macabra coincidenza: più o meno nelle stesse ore, intorno alle 16 in rue Saint-Lazare, nel settimo arrondissement di Lione, un altro uomo di Dio cadeva a terra, ferito da due colpi d'arma da fuoco all'addome. Si tratta di Nicolas Kakavelakis, origini greche, 52 anni e tre figli, prete ortodosso. Stava chiudendo la chiesa quando un uomo gli è andato incontro e gli ha sparato con un fucile da caccia. Due colpi allo stomaco. Quando sono arrivati i soccorsi il religioso era già gravissimo ma ancora cosciente, è riuscito a sussurrare che non conosceva l'assalitore, il quale si era già dato alla fuga. Il quartiere è stato chiuso, è stata creata un'unità di crisi, si indaga per omicidio e nessuna pista è stata esclusa. Pare, tra le altre cose, che il prete stesse per lasciare la diocesi dopo diverse liti interne alla comunità. In serata è stato arrestato un sospetto, intanto Nicolas era impegnato a lottare per la vita. Non appena letta la notizia, la mente di tutti è corsa al massacro avvenuto solo tre giorni fa nella chiesa di Notre-Dame de l'Assomption a Nizza, dove la furia jihadista si è abbattuta sul sacrestano Vincent Loquès, 55 anni e padre di due figli, e su due donne, di cui una è stata decapitata.Se un prete viene aggredito e immediatamente si pensa al terrore islamico, non è per pregiudizio. C'è la sensazione forte, concreta, che ora, in Francia, anche soltanto sfiorare una chiesa cristiana equivalga a rischiare la pelle. La minaccia è potente, è da quanto accaduto a Lione (a prescindere che si tratti di terrorismo o meno) risulta evidente che avvicinarsi a un qualsiasi luogo di culto è fin troppo facile per un aggressore comune, figuriamoci per un combattente musulmano. Il martirio di padre Hamel avrebbe dovuto farci capire da tempo che nel mirino ci sono i cristiani. Non la «laicità», come hanno scritto tutti i giornali all'unisono. Non la democrazia e nemmeno la «libertà», come vanno sostenendo i nostri politici. La libertà di entrare in una moschea, infatti, non viene negata. I fedeli islamici non devono temere di essere sgozzati, decapitati, finiti a colpi di fucile da caccia. Non sono loro a dover pensare al terrorismo ogni volta che sentono l'eco di un fatto di sangue.Dunque l'attacco non è ai presunti «nostri valori europei» multiculturali, libertari e laici: sono i nemici dell'islam a essere sotto assedio. Quali nemici? Basta dare uno sguardo alla pubblicistica dei fondamentalisti per comprenderlo. Al primo posto ci sono, ovviamente, i perfidi crociati, e chi se ne importa se si tratta di vecchine che pregano, di innocui sacrestani, di parroci ottuagenari o di sacerdoti inermi. Poi, certo, non vanno dimenticati gli ebrei, che l'odore del pericolo nei dintorni delle sinagoghe lo conoscono fin troppo bene. Eppure, dalle nostre parti, sono ancora tutti impegnati a parlare di «islamofobia». Nominano l'antisemitismo soltanto se c'è da collegarlo all'estrema destra. I martiri della fede diventano martiri della laicità o dello «stile di vita» occidentale, che non si sa nemmeno bene cosa sia. Gli unici a cui questa Europa riesce ad accordare lo status di martiri, di vittime, sono i migranti in arrivo sui barconi (uno dei quali era il terrorista di Nizza, giova ricordarlo). Si sprecano giornate del ricordo, celebrazioni e ricorrenze per i morti in mare, i quali vengono costantemente evocati e sono al centro di infiniti e stucchevoli dibattiti politici. Ma il martirio dei cristiani, degli uomini e delle donne di fede... su quello si può soprassedere. Guai a parlare di odio verso una religione, in quel caso. Guai a parlare di attacco a una cultura. «Fermiamo lo scontro di civiltà!», gridava ieri il nano filosofico Bernard-Henri Levy (Bellachioma per gli amici) dalla prima pagina di Repubblica. Nel suo delirio è riuscito addirittura a trasformare la battaglia contro l'islam radicale in una lotta al «fascislamismo». Ovvio, poiché sotto attacco sono «democrazia, libertà e laicità», allora il cattivo deve essere «fascista». E se è fascista va combattuto con «l'antifascismo» nella sua versione contemporanea, cioè con più inclusione, più apertura, più integrazione. Così la poltiglia omogeneizzante si autoalimenta, e ogni volta tutto riparte da capo: non capiamo chi ci attacca, teniamo bassa la guardia e siamo colpiti. Non siamo più in grado di chiamare per nome i nostri martiri, dunque nemmeno i nostri nemici. Perché accade? Ecco una risposta possibile: «È la conseguenza di uno sconvolgimento spirituale, quello del nichilismo assoluto, in altre parole l'oblio della nostra tradizione». Lo ha scritto, tempo fa, un uomo che ha scelto la via del sacrificio di sé, una sorta di martirio, nel tentativo di svegliare l'Europa. Si chiamava Dominique Venner, e nemmeno lui è stato ascoltato.
Sehrii Kuznietsov (Getty Images)