2022-03-09
L’8 marzo delle soldatesse al fronte «Eravamo ragazzine, ora uccidiamo»
(Credit: Niccolò Celesti)
A Irpin, villaggio a ridosso di Kiev, tra i profughi che fuggono dalle bombe ci sono anche tante giovani che hanno imbracciato il fucile: «Abbiamo visto morire in guerra troppi coetanei, siamo segnate».Niccolò Celesti da KievÈ stata una triste festa della donna, quella di ieri a Kiev, anche se è stato il giorno di una piccola tregua sul fronte di Irpin, villaggio al confine con la capitale. Per la prima volta da quando siamo qui non ci sono stati continui tuoni provocati dall’artiglieria. È stato quindi possibile evacuare i civili, donne, bambini e anziani. Quando arriviamo sulla terza linea difensiva della città, quella più lontana dal fronte, i civili stanno uscendo da un furgone. I mezzi per evacuare le persone che vediamo arrivare dalla strada che proviene dal ponte distrutto domenica sono tanti e diversi. Gli autobus di linea gialli della città fanno la spola seguiti da ambulanze, jeep private, mezzi militari.È un via vai continuo e alcuni giungono a piedi dalla strada che passa dentro a un bosco completamente minato. Dopo poco si vede arrivare anche una coppia ciclisti con le giacche a vento colorate e le borse attaccate sul portapacchi come fossero in vacanza. Scappano dai colpi di mortaio, raccontano di civili morti e militari lasciati sulle strade. Sono persone che si sono separate da familiari impossibilitati a uscire dai rifugi o ancora peggio intrappolati e accerchiati dall’esercito russo che sta usando il villaggio di Butcha conquistato qualche giorno fa come rifugio sicuro dai bombardamenti perché gli ucraini non intendono sparare sui loro concittadini. Ci racconta un militare che questa è una tecnica, una maniera feroce di mettere al sicuro i propri soldati a discapito dei civili: «Anche una guerra ha la sue regole, ma la comunità internazionale si limita a dichiarazioni di intenti e a riunirsi nei salotti europei, qui abbiamo solo bisogno di armi invece». Dietro a questo giovane militare c’è un uomo che al posto del fucile tiene in mano un mazzo di rose gialle. Ci dice che era il minimo che potesse fare. Ci chiede se conosciamo qualcuno della stampa canadese: è arrivato dal Quebec e aspetta il figlio che è nascosto da tre giorni in un sottoscala nel palazzo dove abita a Butcha. Poi mostra di non aver perso la speranza e fa il gesto della vittoria con la mano libera. Lungo la strada che da Irpin porta nel centro di Kiev ci fermiamo presso un benzinaio. Ci sono due giovani militari che aspettano su una panchina, altri appostati su una collinetta, altri al lavoro per orientare delle telecamere situate su un palo verso il viale dal quale proveniamo. Sono tutti al lavoro tranne i primi due. Passano il tempo al cellulare. Oggi non si spara a Kiev e con il permesso dei superiori aspettano le proprie fidanzate. Vicino ad uno dei distributori appare una ragazza, con il fucile e il cappello di lana tirato sulla fronte fino a coprire le sopracciglia. «Mi chiamo Olga» ci dice con la voce bassa. Sembra preoccupata, agitata e si guarda intorno.Olga ci dice di essere di Kiev e di essersi arruolata nell’esercito 3 anni fa, a 21 anni, nella fanteria, ci dice che dopo le proteste di piazza Maidan, gli scontri con la polizia e l’esercito, dopo la guerra nel Donbass non poteva fare altro che servire il suo Paese. «Avevo 16 anni. Oggi ne ho 24, ho passato quasi un terzo della mia vita in un Paese in guerra, anche se una guerra lontana e di cui nessuno ha parlato se non all’inizio». Mentre parla arriva una macchina che parcheggia a circa 20 metri di distanza, lei si gira, fa un verso, quasi come un fischio. La macchina riparte e viene verso di noi. «Scusa è mio marito» ci dice. Dall’auto esce un ragazzone alto e grosso, con il mitra a tracolla e 3 grandi caricatori posizionati sul petto. Lei di corsa gli salta addosso, lui la sostiene si abbracciano e lei rimane sospesa da terra, si abbracciano ancora più forte e lei perde il caricatore del fucile. Lui ride, la lascia per raccoglierlo e sistemarle il fucile al collo. Anche lui è giovanissimo: ha 25 anni e si chiama Olexy. Combatte alle porte della città, non si vedono da una settimana e mentre parlano con noi non si lasciano la mano neanche quando tirano fuori i cellulari per appuntare i nostri contatti. Lui parla e lei lo guarda come se dovesse non vederlo più. Dalla collinetta scende un’altra giovane. Ha un guanto di lattice legato sul fucile. Immaginiamo che debba essere un paramedico pronto a intervenire. Si chiama Katherina e viene da un piccolo villaggio vicino a Poltova. È arrivata a Kiev 8 anni fa e da 3 si è arruolata. Dice: «Io avevo tutto, studiavo all’università. Prima di entrare nell’esercito sognavo di lavorare all’Onu nella cooperazione internazionale. Avevo già svolto un servizio di volontariato umanitario proprio in Donbass, dove alcuni miei amici erano morti in battaglia. In quella prima missione feci esperienza, ma venivamo esposti al fuoco tutto il tempo e mi sono resa conto che c’era una guerra, che dovevo fare qualcosa di più e che stare lì a fare la calamita per le pallottole senza neanche difendere il mio Paese non mi andava più. Inoltre mi sentivo troppo in colpa per quello che stava accadendo ai ragazzi della mia età che io curavo e per questo nel 2018 ho deciso di arruolarmi nei paramedici perché è il corpo più adatto a me, non sapevo usare il fucile e non volevo combattere tutto il tempo». La ragazza ammette che tutto il sangue e la violenza che ha visto l’hanno cambiata: «La mia testa ha avuto un’evoluzione: prima ero una pacifista un po’ naïf, poi stare sul campo e vedere tutte quelle ingiustizie mi ha spinto a entrare nell’esercito. Sono cambiata, oggi sono pronta a sparare per uccidere, la ragazzina delicata che ero non c’è più».
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