Il patrimonio di ricchezza privata degli italiani deve rimanere in mani nazionali e occorre tutelarlo. Non soltanto dalla folle idea di nuove tasse e da eventuali patrimoniali, ma anche dagli interessi stranieri. Con un quadro normativo e fiscale chiaro e costante.
Il patrimonio di ricchezza privata degli italiani deve rimanere in mani nazionali e occorre tutelarlo. Non soltanto dalla folle idea di nuove tasse e da eventuali patrimoniali, ma anche dagli interessi stranieri. Con un quadro normativo e fiscale chiaro e costante.Era il 2013 quando a Cipro infuriava la crisi bancaria (risolta con il primo bail in della storia europea) e in Germania la Bundesbank diffondeva in un report per confrontare la ricchezza privata dei vari Paesi Ue. Risultato gli italiani già all’epoca risultavano i più ricchi del Continente. La diffusione del documento fu la scintilla che spinse il capoeconomista della Commerzbank, Jörg Kramer , a suggerire la patrimoniale secca al 15% per gli italiani. Da allora, Bruxelles, Fondo monetario, Ocse, Pd e falsi liberali ogni settimana si svegliano convinti che gli italiani debbano rispondere in solido per il debito pubblico italiano e gli errori commessi dagli ultimi dieci governi. Ieri, la Fabi, principale organizzazione sindacale bancaria, ha diffuso un interessante e aggiornato report sulla ricchezza privata degli italiani. Dal 2011 al dicembre scorso la massa complessiva è aumentata del 50% arrivando a valer 5.256 miliardi. Nel decennio successivo al whatever it takes di Mario Draghi è aumentata la liquidità sui conti correnti, l’investimento in polizze assicurative e soprattutto le azioni. Il motivo è semplice. L’era dei Btp redditizi è finita più di un lustro fa e la stabilità delle politiche dell’era Draghi alla Bce ha garantito ritorni interessanti. Oggi però il mondo è cambiato. Nel diffondere il report, il segretario della Fabi, Lando Maria Sileoni, ha chiesto ai partiti di occuparsi di più della ricchezza degli italiani e tutelarla di fronte alla folle idea di nuove tasse. Parole sante. Che fanno il paio con le ultime uscite del numero uno di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, il quale ha ricordato come le impennate dello spread non siano in alcun modo legate ai fondamentali della nostra economia. La massa dei risparmi è quasi il doppio del debito pubblico. E anche se i due fattori sono scollegati è vero che sono pilastri che si sostengono a vicenda. Per cui si torna ossessivamente al punto di partenza. A quel 2013, anno della crisi di Cipro. Cercando di riproporre le stesse ricette, sbagliate. Nell’aprile del 2020, discutendo di recovery plan per la prima volta, Angela Merkel e il suo ministro delle Finanze, Olaf Scholz, puntarono il dito di nuovo sulla ricchezza degli italiani. L’ex ministro e ora cancelliere fece riferimento al «dumping fiscale nell’Ue» e al «sentiero di convergenza dei sistemi di tassazione» mettendo sotto schiaffo Paesi Ue assai diversi tra loro, comunque tutti in difetto agli occhi di Berlino: l’Olanda, primo paradiso fiscale in Europa per le grandi imprese, e l’Italia, dove il sistema tributario, a giudizio dei tedeschi, non contrasta a dovere l’evasione fiscale ed è troppo tenero nei confronti della ricchezza privata delle famiglie. C’è dunque da scommettere che a fronte di un aumento della nostra ricchezza la minaccia di nuove tasse tornerà sulle colonne dei giornali. Purtroppo questo non è il primo problema di cui la politica dovrebbe occuparsi. Infatti un conto è tutelarli dalle tasse e da eventuali patrimoniali, un altro conto è tutelarli dagli interessi stranieri. E non stiamo parlando di un concetto di sovranità astratta, ma di concreto business sul quale soprattutto i francesi si stanno muovendo da anni. I numeri parlano da soli. Se spacchettiamo la massa della ricchezza e analizziamo quella affidata a banche d’affari o gestori terzi, si vede che nel 2005 il patrimonio gestito da gruppi di diritto italiano era di oltre 1.033 miliardi (tra gestioni collettive e di portafoglio), mentre quello gestito da soggetti esteri era poco più di 81 milioni, pari al 7% del totale. Nel 2021, quella percentuale è lievitata: a fronte degli 1,7 miliardi di patrimonio gestito da italiani, quelli in mano a gruppi di diritto estero sono stati quasi 890 milioni, ovvero il 34%. Purtroppo se osserviamo le mosse di gruppi come Crédit Agricole c’è da scommettere che la percentuale sia destinata a salire. Non serve spiegare che chi gestisce il denaro ha un enorme potere anche politico. Investire su un asset piuttosto che su altro può fare enorme differenza. Per competere, dunque, i big nazionali hanno bisogno di poter giocare la partita ad armi pari, ovvero dovrebbero contare su un quadro normativo e fiscale chiaro e che non cambi in continuazione ma anche su un’attività di lobbying che rappresenti adeguatamente gli interessi dell’industria finanziaria in Europa. Ciò non solo non sta avvenendo per colpa nostra. O meglio per colpa un po’ di tutti i governi che si sono susseguiti almeno dopo il 2011. Ma non sta avvenendo anche perché le continue pressioni politiche che agitano lo spauracchio dello spread e della finanza internazionale pronta a disinvestire o scommettere contro gli asset tricolore non fa altro che indebolire il nostro sistema bancario. Ecco che tutto si tiene. Più il complesso finanziario è debole più è facile scalarlo emettere le mani su una fetta ancora più ampia degli oltre 5.000 miliardi risparmiati dagli italiani. Ciò consentirebbe ai francesi ancor più che ai tedeschi di accrescere il potere di veto e di ingrassare le loro banche che dal risparmio gestito avrebbero interessanti dividendi.
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)
Un mio profilo è stato cancellato quando ho pubblicato dati sanitari sulle pratiche omoerotiche. Un altro è stato bloccato in pandemia e poi eliminato su richiesta dei pro Pal. Ne ho aperto un terzo: parlerò dei miei libri. E, tramite loro, dell’attualità.
Se qualcosa è gratis, il prodotto siamo noi. Facebook è gratis, come Greta è pro Lgbt, pro vax, anzi anti no vax, e pro Pal. Se sgarri, ti abbatte. Il mio primo profilo Facebook con centinaia di migliaia di follower è stato cancellato qualche anno fa, da un giorno all’altro: avevo riportato le statistiche sanitarie delle persone a comportamento omoerotico, erroneamente chiamate omosessuali (la sessualità è una funzione biologica possibile solo tra un maschio e una femmina). In particolare avevo riportato le statistiche sanitarie dei maschi cosiddetti «passivi».
A Fuori dal coro Raffaella Regoli mostra le immagini sconvolgenti di un allontanamento di minori. Un dramma che non vive soltanto la famiglia nel bosco.
Le persone sfollate da El Fasher e da altre aree colpite dal conflitto sono state sistemate nel nuovo campo di El-Afadh ad Al Dabbah, nello Stato settentrionale del Sudan (Getty Images)
Donald Trump torna a guardare all’Africa. Il presidente americano si è infatti impegnato ad agire per cercare di portare a termine il sanguinoso conflitto civile che agita il Sudan da oltre due anni.
«Pensavo fosse solo una cosa folle e fuori controllo. Ma ora capisco quanto sia importante per te e per molti dei tuoi amici qui presenti il Sudan. E inizieremo a lavorare sul Sudan», ha dichiarato l’inquilino della Casa Bianca, rivolgendosi al principe ereditario saudita, Mohammad bin Salman. Ricordiamo che la guerra civile in corso è esplosa nell’aprile del 2023 tra le Forze armate sudanesi e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces. Secondo The Hill, «più di 150.000 persone sono morte nel conflitto, circa 14 milioni sono state sfollate e si prevede che circa metà della popolazione di 50 milioni di persone soffrirà la fame quest'anno».






