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2020-01-01
L'Europa tace ma la polizia francese è infiltrata da jihadisti
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Nonostante l'Europa continuai a guardare dall'altra parte, la penetrazione della radicalizzazione islamista nei ranghi della polizia francese non accenna a diminuire. In soli due mesi, dopo l'attentato terrorista del 3 ottobre 2019 alla prefettura di Parigi, l'ispettorato generale della polizia transalpina ha ricevuto un centinaio di segnalazioni. Allerte lanciate da agenti preoccupati dal comportamento tenuto dai loro vicini di scrivania o dai colleghi di pattuglia che, più o meno improvvisamente, hanno iniziato a lasciar trasparire una qualche simpatia per i terroristi islamici. L'aumento delle segnalazioni ha registrato una vera e propria impennata, come ha rivelato la radio francese Rtl a fine novembre. Basti pensare che, nei quattro anni precedenti all'attacco, sferrato contro i propri colleghi da Mickaël Harpon nella sede della polizia parigina, erano pervenute solo 70 segnalazioni. Un numero comunque preoccupante ma molto più diluito nel tempo.
Certo, circa la metà delle allerte lanciate dai poliziotti nell'ultimo trimestre del 2019 è già stata archiviata. Tuttavia l'idea che una cinquantina di casi sia ancora al vaglio degli ispettori, è estremamente preoccupante, anche perché l'archiviazione non mette la parola fine sulla segnalazione, i superiori devono infatti continuare a tenere sotto controllo gli agenti per i quali sono state lanciate le allerte. Le indagini sulla potenziale radicalizzazione all'interno delle forze dell'ordine richiedono tempo e risorse. Due elementi che i poliziotti preferirebbero destinare al miglioramento delle proprie condizioni di lavoro.
Tra le segnalazioni rese note dalla stampa, dopo l'attacco jihadista alla prefettura della capitale francese, ce ne sono alcune che fanno venire la pelle d'oca, perché viene da chiedersi come sia stato possibile che dei poliziotti radicalizzati, abbiano potuto tranquillamente svolgere mansioni estremamente delicate.
È il caso di una guardia carceraria di Argentan, in Normandia, riportato da diversi media francesi, come il quotidiano Ouest-France. La donna, una quarantenne madre di due figli, si è convertita all'islam nel giro di tre mesi dopo essere stata telecomandata da Mohammed Tayeb, un detenuto trentasettenne algerino già condannato per due aggressioni sessuali e uno stupro. La storia ha dell'incredibile. Al ritorno delle vacanze estive, la donna si è invaghita dell'algerino che l'ha riempita di complimenti fino a dichiarare di essere innamorato di lei. L'agente carceraria è caduta nella trappola. L'uomo è riuscito a convincerla ad indossare costantemente un auricolare, riuscendo così a muovere la propria pedina all'interno e all'esterno del carcere. Il detenuto ha così potuto ottenere cinque cellulari e tre sim, inoltre ha fatto consegnare 4.000 euro a Parigi - che saranno stati utilizzati per chissà quali traffici - il tutto senza destare il minimo sospetto. Questo perché i telefoni, le sim e i soldi, erano nascosti nella sacca usata dalla donna per andare in palestra. La manipolazione non si è fermata al traffico di oggetti e del denaro. Il detenuto algerino ha ottenuto anche che la donna cambiasse stile di vita, conformandosi ai precetti islamici visto che, come detto, si era convertita alla religione musulmana. Durante un'udienza tenutasi all'inizio di dicembre 2019, la donna ha spiegato ai giudici che non aveva più il diritto di salutare le persone baciandole sulla guancia, come si usa fare in Francia. Inoltre, ha aggiunto la poliziotta radicalizzata pentita, «dovevo indossare qualcosa che coprisse il mio sedere, perché altri non lo guardassero». Sfruttando le frustrazioni della donna, il criminale è riuscito addirittura a convincerla a chiedere il divorzio.
Ma quello della convertita frustrata non è il solo caso di guardia carceraria radicalizzata. All'inizio di novembre 2019, il quotidiano Le Figaro ha rivelato che la presidenza del Tribunale di Parigi ha chiesto il trasferimento immediato di un agente penitenziario conosciuto per essere radicalizzato. L'aspetto più allucinante della vicenda è che l'uomo lavorava come carceriere nell'area detta la trappola per topi del Palazzo di Giustizia parigino, che include un centinaio di celle destinate ai detenuti in attesa di processo. Questo nonostante fosse già un sorvegliato speciale prima di arrivare al tribunale della capitale francese. L'idea che il carceriere islamista potesse offrire una qualsiasi forma di collaborazione con dei prevenuti per terrorismo giunti dai loro rispettivi carceri per essere giudicati, lascia allibiti.
Viene da chiedersi cosa controllino gli organi incaricati di verificare la compatibilità dei profili degli agenti con le mansioni di pubblica sicurezza. Sembra che i controllori passino al setaccio la vita privata dei sospetti: le loro frequentazioni, il comportamento tenuto lungo tutta la carriera. Poi ovviamente ci sono i segni esteriori: come la richiesta di effettuare le preghiere sul posto di lavoro, l'improvvisa scelta di farsi crescere la barba o, per le donne, di indossare il velo islamico fuori servizio. Nei fatti però i controlli e vanno a rilento. Da un lato per il timore di stigmatizzare i poliziotti (e i milioni di cittadini francesi) di fede islamica, dall'altro perché i radicalizzati adottano sempre più magistralmente la tecnica della Taqiyya. Questo termine arabo, indica la possibilità di rinnegare esteriormente la propria fede. Una strategia che, come hanno dimostrato le indagini su attacchi terroristici passati, ha permesso agli islamisti di arrivare fino al cuore delle istituzioni di vari Paesi, a cominciare dalla Francia e dalla sua polizia.
La senatrice Goulet: «In tutte le istituzioni ci sono state carenze nella vigilanza e scarsa attenzione alle procedure di controllo»

La senatrice Nathalie Goulet
Il Senato francese ha assunto, negli ultimi anni, un ruolo di controllo sulle istituzioni repubblicane sempre più importante. Durante l'affaire di Alexandre Benalla, ad esempio, la commissione senatoriale delle leggi si è trasformata in commissione d'inchiesta sulla vicenda. Anche in materia di terrorismo, già nel giugno del 2014, la Camera Alta francese ha varato una commissione d'inchiesta sull'organizzazione e i mezzi della lotta contro la rete jihadista in Francia e in Europa, presieduta dalla senatrice dell'Orne, Nathalie Goulet. Dopo l'attentato alla prefettura di Parigi, il Senato transalpino ha creato un nuovo organismo: la Commissione d'inchiesta sulla radicalizzazione islamista e i mezzi per combatterla.
Tra i senatori francesi c'è dunque molta preoccupazione per la crescita del fenomeno che lo stesso presidente Emmanuel Macron, ha definito «'Idra islamista». Ma preoccupazione non basta perché - come spiega la senatrice Goulet (*) a La Verità - «in tutte le istituzioni ci sono state carenze nella vigilanza perché non abbiamo prestato sufficientemente attenzione alle procedure di controllo». In particolare, per la senatrice francese i problemi maggiori si concentrano sulle attività di intelligence e sono legate anche alla mancanza di mezzi. «A volte il trattamento delle informazioni che provengono dall'intelligence è molto dispersivo, quindi la sua azione diventa inesatta» spiega. «Oggi sappiamo ad esempio che gli attacchi contro i militari e la scuola ebraica di Tolosa, compiuti nel 2012 da Mohammed Merah - si rammarica la senatrice - avrebbero potuto essere evitati». Parlando del timore di alcuni politici di discriminare o stigmatizzare la popolazione francese di religione musulmana, la senatrice spera che le défaillances dell'intelligence non c'entrino nulla. «Altrimenti - sottolinea - faremmo il gioco del Rassemblement National». Per Goulet «il discorso politicamente corretto del pas d'amalgame (che tradotto, significa non fare tutta un'erba un fascio, ndr) è durato abbastanza. Queste persone (i terroristi) non sono buddiste, sono musulmane».
Nota (*): La senatrice Nathalie Goulet si riferisce alla propria esperienza passata nell'ambito della lotta al terrorismo islamico. Questo perché, sebbene sia una delle vicepresidenti della commissione istituita nell'ottobre 2019, non può parlare dei lavori di quest'ultima per ragioni di sicurezza nazionale.
Il terrorismo islamico e la riforma delle pensioni

La minaccia terrorista che pesa anche sulle forze dell'ordine torna spesso anche nel dibattito sulla riforma delle pensioni, oggetto in queste settimane di un duro braccio di ferro tra i sindacati e il governo di Parigi. Essendo uno dei simboli dell'ordine istituzionale, i poliziotti sanno di essere particolarmente esposti al pericolo jihadista. Così quando Édouard Philippe ha ipotizzato di calcolare diversamente le pensioni dei poliziotti impegnati a combattere il crimine sul campo e dei loro colleghi dietro le scrivanie, c'è stata una levata di scudi. Durante la manifestazione dell'11 dicembre 2019, organizzata in concomitanza con la presentazione della riforma pensionistica da parte del Primo ministro, Thomas Toussaints - uno dei leader del sindacato Unsa Police - aveva parlato chiaro. «I poliziotti, restano poliziotti ventiquattr'ore su ventiquattro. Non c'è alcuna differenza tra chi lavora in ufficio e chi è di pattuglia». Un'opinione condivisa da Loïc Travers - della segreteria del sindacato Alliance Police Nationale - «diversi poliziotti sono morti recentemente in servizio o fuori servizio, come nel caso dell'attentato di Magnanville», dove una coppia di poliziotti era stata ammazzata da un terrorista islamico nella loro abitazione, sotto gli occhi del figlio della coppia, di soli tre anni.
Se i fatti di Magnanville e della prefettura di Parigi suscitano emozione e timori tra i poliziotti, i commenti si fanno più rari quando si inizia a parlare del rischio legato alla radicalizzazione degli agenti. Questo vale anche per i sindacati che preferiscono orientare i giornalisti su comunicati o prese di posizione precedenti. Ancora una volta, sembra prevalere il timore di stigmatizzare la stragrande maggioranza di poliziotti musulmani che, a differenza di qualche pericoloso scalmanato, non hanno assolutamente grilli per la testa. Ma è inutile nascondere la testa sotto la sabbia anche perché, negli attentati che hanno sconvolto la Francia negli ultimi anni, sono morti anche degli agenti musulmani. È il caso di Ahmed Merabet, ucciso dal commando che ha colpito la strage a Charlie Hebdo. Questo lo sanno anche i sindacati, come confermano le loro prese di posizione dopo l'attentato alla prefettura. Ad esempio, in un comunicato diffuso ventiquattro ore dopo il dramma, il sindacato Alternative Police Cfdt riconosceva che «è nota la radicalizzazione di un certo numero di poliziotti» ma si domandava anche se i controlli amministrativi condotti su questi individui, fossero efficaci. Nello stesso comunicato, si parlava anche del «tema della radicalizzazione all'interno della pubblica amministrazione» al quale, per il sindacato, «i poteri pubblici dovrebbero prestare molta attenzione».
In un'intervista realizzata negli studi di Franceinfo, il 7 ottobre 2019, il segretario generale delegato del sindacato Unité Sgp-Fo Police, Grégory Joron ha rivelato che solo una volta ogni tre mesi, si riuniscono «gli agenti della Dgsi (Direzione generale della sicurezza interna, ndr) e quelli della sottodirezione dell'antiterrorismo». Il sindacalista si chiedeva laconicamente se non fosse il caso di organizzare di aumentare la frequenza di tali riunioni nonché il personale formato su questi rischi in modo da «analizzare i casi (di radicalizzazione) in modo più reattivo».
Impossibile espellere i radicalizzati dalla sicurezza pubblica senza la volontà politica
L'individuazione e l'espulsione dalla polizia delle «mele marce» radicalizzate è un lavoro che le autorità francesi dovranno svolgere sul lungo periodo, sperando che non si verifichino ulteriori attentati.
Per accelerare il processo di pulizia all'interno delle forze dell'ordine serve una volontà politica chiara, che non sia influenzata ad esempio da manovre elettorali. Visto che può contare su una larghissima maggioranza parlamentare, il governo transalpino potrebbe, se lo volesse veramente, approvare norme per licenziare più facilmente gli agenti delle forze dell'ordine radicalizzati. Ma l'introduzione nel corpus giuridico transalpino di norme che facilitano i licenziamenti rimane un tabù. Inoltre, alcune forze di sinistra, in particolare quella estrema del partito La France Insoumise, da qualche mese sostengono la vittimizzazione portata avanti da una parte galassia islamica francese. Basti pensare che il leader di questo partito, Jean-Luc Melenchon ha partecipato alla manifestazione contro l'islamofobia, svoltasi a Parigi il 10 novembre scorso.
Le varie anime della sinistra d'oltralpe sembrano preoccuparsi più delle scadenze elettorali che del pericolo dell'islamismo radicale. Forse scommettono su una rivincita elettorale alle prossime municipali, previste per marzo 2020. Questo permetterebbe loro di pesare di più nelle decisioni politiche anche perché, alcuni dei futuri consiglieri comunali potranno partecipare alle prossime elezioni senatoriali (in Francia il Senato non è eletto direttamente dai cittadini ma da dei grandi elettori, nrd).
Mostrandosi alla manifestazione contro l'islamofobia, alcuni politici devono aver voluto mandare un messaggio chiaro all'elettorato musulmano non moderato. E pazienza se tra i manifestanti ci fosse anche Marwan Muhammad, descritto da Le Parisien e da Franceinfo come una «figura controversa dell'islam di Francia [...] ex direttore del Collettivo contro l'islamofobia in Francia, il movimento accusato di essere vicino ai Fratelli Musulmani». Questo leader musulmano è stato filmato in piedi sulla tettoia di una pensilina, intento ad arringare i manifestanti al grido di «Allah Akbar!».
È difficile dunque immaginare che la maggioranza macronista - composta anche da una folta componente di sinistra e impaurita da una eventuale nuova sconfitta elettorale - decida di prendere il toro per le corna. Il rischio è che l'introduzione di nuove leggi per lottare contro la radicalizzazione dei poliziotti e di altri agenti della pubblica amministrazione, sia accolta con sospetto da un certo elettorato. Una scommessa troppo rischiosa quando, dopo un anno di Gilet Gialli e quasi un mese di scioperi, la contestazione nel Paese è estremamente forte.
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Oltre 100 segnalazioni ricevute dall'ispettorato generale delle forze dell'ordine transalpine. Il fenomeno è gravissimo ma Bruxelles continua a guardare altrove. La senatrice Nathalie Goulet sottolinea le falle all'interno dell'intelligence: «Gli attacchi contro i militari e la scuola ebraica di Tolosa del 2012 avrebbero potuto essere evitati senza la dispersione di informazioni».Il problema del contrasto al terrorismo tocca il tema delle pensioni delle forze dell'ordine, la cui riforma è in queste settimane oggetto di un duro braccio di ferro tra sindacati e governo.L'introduzione di leggi che facilitino i licenziamenti degli agenti radicalizzati resta ancora un tabù: per velocizzare il processo servirebbe una volontà politica netta.Lo speciale contiene quattro articoli.Nonostante l'Europa continuai a guardare dall'altra parte, la penetrazione della radicalizzazione islamista nei ranghi della polizia francese non accenna a diminuire. In soli due mesi, dopo l'attentato terrorista del 3 ottobre 2019 alla prefettura di Parigi, l'ispettorato generale della polizia transalpina ha ricevuto un centinaio di segnalazioni. Allerte lanciate da agenti preoccupati dal comportamento tenuto dai loro vicini di scrivania o dai colleghi di pattuglia che, più o meno improvvisamente, hanno iniziato a lasciar trasparire una qualche simpatia per i terroristi islamici. L'aumento delle segnalazioni ha registrato una vera e propria impennata, come ha rivelato la radio francese Rtl a fine novembre. Basti pensare che, nei quattro anni precedenti all'attacco, sferrato contro i propri colleghi da Mickaël Harpon nella sede della polizia parigina, erano pervenute solo 70 segnalazioni. Un numero comunque preoccupante ma molto più diluito nel tempo.Certo, circa la metà delle allerte lanciate dai poliziotti nell'ultimo trimestre del 2019 è già stata archiviata. Tuttavia l'idea che una cinquantina di casi sia ancora al vaglio degli ispettori, è estremamente preoccupante, anche perché l'archiviazione non mette la parola fine sulla segnalazione, i superiori devono infatti continuare a tenere sotto controllo gli agenti per i quali sono state lanciate le allerte. Le indagini sulla potenziale radicalizzazione all'interno delle forze dell'ordine richiedono tempo e risorse. Due elementi che i poliziotti preferirebbero destinare al miglioramento delle proprie condizioni di lavoro. Tra le segnalazioni rese note dalla stampa, dopo l'attacco jihadista alla prefettura della capitale francese, ce ne sono alcune che fanno venire la pelle d'oca, perché viene da chiedersi come sia stato possibile che dei poliziotti radicalizzati, abbiano potuto tranquillamente svolgere mansioni estremamente delicate. È il caso di una guardia carceraria di Argentan, in Normandia, riportato da diversi media francesi, come il quotidiano Ouest-France. La donna, una quarantenne madre di due figli, si è convertita all'islam nel giro di tre mesi dopo essere stata telecomandata da Mohammed Tayeb, un detenuto trentasettenne algerino già condannato per due aggressioni sessuali e uno stupro. La storia ha dell'incredibile. Al ritorno delle vacanze estive, la donna si è invaghita dell'algerino che l'ha riempita di complimenti fino a dichiarare di essere innamorato di lei. L'agente carceraria è caduta nella trappola. L'uomo è riuscito a convincerla ad indossare costantemente un auricolare, riuscendo così a muovere la propria pedina all'interno e all'esterno del carcere. Il detenuto ha così potuto ottenere cinque cellulari e tre sim, inoltre ha fatto consegnare 4.000 euro a Parigi - che saranno stati utilizzati per chissà quali traffici - il tutto senza destare il minimo sospetto. Questo perché i telefoni, le sim e i soldi, erano nascosti nella sacca usata dalla donna per andare in palestra. La manipolazione non si è fermata al traffico di oggetti e del denaro. Il detenuto algerino ha ottenuto anche che la donna cambiasse stile di vita, conformandosi ai precetti islamici visto che, come detto, si era convertita alla religione musulmana. Durante un'udienza tenutasi all'inizio di dicembre 2019, la donna ha spiegato ai giudici che non aveva più il diritto di salutare le persone baciandole sulla guancia, come si usa fare in Francia. Inoltre, ha aggiunto la poliziotta radicalizzata pentita, «dovevo indossare qualcosa che coprisse il mio sedere, perché altri non lo guardassero». Sfruttando le frustrazioni della donna, il criminale è riuscito addirittura a convincerla a chiedere il divorzio.Ma quello della convertita frustrata non è il solo caso di guardia carceraria radicalizzata. All'inizio di novembre 2019, il quotidiano Le Figaro ha rivelato che la presidenza del Tribunale di Parigi ha chiesto il trasferimento immediato di un agente penitenziario conosciuto per essere radicalizzato. L'aspetto più allucinante della vicenda è che l'uomo lavorava come carceriere nell'area detta la trappola per topi del Palazzo di Giustizia parigino, che include un centinaio di celle destinate ai detenuti in attesa di processo. Questo nonostante fosse già un sorvegliato speciale prima di arrivare al tribunale della capitale francese. L'idea che il carceriere islamista potesse offrire una qualsiasi forma di collaborazione con dei prevenuti per terrorismo giunti dai loro rispettivi carceri per essere giudicati, lascia allibiti.Viene da chiedersi cosa controllino gli organi incaricati di verificare la compatibilità dei profili degli agenti con le mansioni di pubblica sicurezza. Sembra che i controllori passino al setaccio la vita privata dei sospetti: le loro frequentazioni, il comportamento tenuto lungo tutta la carriera. Poi ovviamente ci sono i segni esteriori: come la richiesta di effettuare le preghiere sul posto di lavoro, l'improvvisa scelta di farsi crescere la barba o, per le donne, di indossare il velo islamico fuori servizio. Nei fatti però i controlli e vanno a rilento. Da un lato per il timore di stigmatizzare i poliziotti (e i milioni di cittadini francesi) di fede islamica, dall'altro perché i radicalizzati adottano sempre più magistralmente la tecnica della Taqiyya. Questo termine arabo, indica la possibilità di rinnegare esteriormente la propria fede. 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Durante l'affaire di Alexandre Benalla, ad esempio, la commissione senatoriale delle leggi si è trasformata in commissione d'inchiesta sulla vicenda. Anche in materia di terrorismo, già nel giugno del 2014, la Camera Alta francese ha varato una commissione d'inchiesta sull'organizzazione e i mezzi della lotta contro la rete jihadista in Francia e in Europa, presieduta dalla senatrice dell'Orne, Nathalie Goulet. Dopo l'attentato alla prefettura di Parigi, il Senato transalpino ha creato un nuovo organismo: la Commissione d'inchiesta sulla radicalizzazione islamista e i mezzi per combatterla.Tra i senatori francesi c'è dunque molta preoccupazione per la crescita del fenomeno che lo stesso presidente Emmanuel Macron, ha definito «'Idra islamista». Ma preoccupazione non basta perché - come spiega la senatrice Goulet (*) a La Verità - «in tutte le istituzioni ci sono state carenze nella vigilanza perché non abbiamo prestato sufficientemente attenzione alle procedure di controllo». In particolare, per la senatrice francese i problemi maggiori si concentrano sulle attività di intelligence e sono legate anche alla mancanza di mezzi. «A volte il trattamento delle informazioni che provengono dall'intelligence è molto dispersivo, quindi la sua azione diventa inesatta» spiega. «Oggi sappiamo ad esempio che gli attacchi contro i militari e la scuola ebraica di Tolosa, compiuti nel 2012 da Mohammed Merah - si rammarica la senatrice - avrebbero potuto essere evitati». Parlando del timore di alcuni politici di discriminare o stigmatizzare la popolazione francese di religione musulmana, la senatrice spera che le défaillances dell'intelligence non c'entrino nulla. «Altrimenti - sottolinea - faremmo il gioco del Rassemblement National». Per Goulet «il discorso politicamente corretto del pas d'amalgame (che tradotto, significa non fare tutta un'erba un fascio, ndr) è durato abbastanza. Queste persone (i terroristi) non sono buddiste, sono musulmane». Nota (*): La senatrice Nathalie Goulet si riferisce alla propria esperienza passata nell'ambito della lotta al terrorismo islamico. Questo perché, sebbene sia una delle vicepresidenti della commissione istituita nell'ottobre 2019, non può parlare dei lavori di quest'ultima per ragioni di sicurezza nazionale. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/100-denunce-per-agenti-radicalizzati-nella-polizia-francese-2642430168.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="il-terrorismo-islamico-e-la-riforma-delle-pensioni" data-post-id="2642430168" data-published-at="1765817447" data-use-pagination="False"> Il terrorismo islamico e la riforma delle pensioni La minaccia terrorista che pesa anche sulle forze dell'ordine torna spesso anche nel dibattito sulla riforma delle pensioni, oggetto in queste settimane di un duro braccio di ferro tra i sindacati e il governo di Parigi. Essendo uno dei simboli dell'ordine istituzionale, i poliziotti sanno di essere particolarmente esposti al pericolo jihadista. Così quando Édouard Philippe ha ipotizzato di calcolare diversamente le pensioni dei poliziotti impegnati a combattere il crimine sul campo e dei loro colleghi dietro le scrivanie, c'è stata una levata di scudi. Durante la manifestazione dell'11 dicembre 2019, organizzata in concomitanza con la presentazione della riforma pensionistica da parte del Primo ministro, Thomas Toussaints - uno dei leader del sindacato Unsa Police - aveva parlato chiaro. «I poliziotti, restano poliziotti ventiquattr'ore su ventiquattro. Non c'è alcuna differenza tra chi lavora in ufficio e chi è di pattuglia». Un'opinione condivisa da Loïc Travers - della segreteria del sindacato Alliance Police Nationale - «diversi poliziotti sono morti recentemente in servizio o fuori servizio, come nel caso dell'attentato di Magnanville», dove una coppia di poliziotti era stata ammazzata da un terrorista islamico nella loro abitazione, sotto gli occhi del figlio della coppia, di soli tre anni.Se i fatti di Magnanville e della prefettura di Parigi suscitano emozione e timori tra i poliziotti, i commenti si fanno più rari quando si inizia a parlare del rischio legato alla radicalizzazione degli agenti. Questo vale anche per i sindacati che preferiscono orientare i giornalisti su comunicati o prese di posizione precedenti. Ancora una volta, sembra prevalere il timore di stigmatizzare la stragrande maggioranza di poliziotti musulmani che, a differenza di qualche pericoloso scalmanato, non hanno assolutamente grilli per la testa. Ma è inutile nascondere la testa sotto la sabbia anche perché, negli attentati che hanno sconvolto la Francia negli ultimi anni, sono morti anche degli agenti musulmani. È il caso di Ahmed Merabet, ucciso dal commando che ha colpito la strage a Charlie Hebdo. Questo lo sanno anche i sindacati, come confermano le loro prese di posizione dopo l'attentato alla prefettura. Ad esempio, in un comunicato diffuso ventiquattro ore dopo il dramma, il sindacato Alternative Police Cfdt riconosceva che «è nota la radicalizzazione di un certo numero di poliziotti» ma si domandava anche se i controlli amministrativi condotti su questi individui, fossero efficaci. Nello stesso comunicato, si parlava anche del «tema della radicalizzazione all'interno della pubblica amministrazione» al quale, per il sindacato, «i poteri pubblici dovrebbero prestare molta attenzione». In un'intervista realizzata negli studi di Franceinfo, il 7 ottobre 2019, il segretario generale delegato del sindacato Unité Sgp-Fo Police, Grégory Joron ha rivelato che solo una volta ogni tre mesi, si riuniscono «gli agenti della Dgsi (Direzione generale della sicurezza interna, ndr) e quelli della sottodirezione dell'antiterrorismo». Il sindacalista si chiedeva laconicamente se non fosse il caso di organizzare di aumentare la frequenza di tali riunioni nonché il personale formato su questi rischi in modo da «analizzare i casi (di radicalizzazione) in modo più reattivo». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/100-denunce-per-agenti-radicalizzati-nella-polizia-francese-2642430168.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="impossibile-espellere-i-radicalizzati-dalla-sicurezza-pubblica-senza-la-volonta-politica" data-post-id="2642430168" data-published-at="1765817447" data-use-pagination="False"> Impossibile espellere i radicalizzati dalla sicurezza pubblica senza la volontà politica L'individuazione e l'espulsione dalla polizia delle «mele marce» radicalizzate è un lavoro che le autorità francesi dovranno svolgere sul lungo periodo, sperando che non si verifichino ulteriori attentati.Per accelerare il processo di pulizia all'interno delle forze dell'ordine serve una volontà politica chiara, che non sia influenzata ad esempio da manovre elettorali. Visto che può contare su una larghissima maggioranza parlamentare, il governo transalpino potrebbe, se lo volesse veramente, approvare norme per licenziare più facilmente gli agenti delle forze dell'ordine radicalizzati. Ma l'introduzione nel corpus giuridico transalpino di norme che facilitano i licenziamenti rimane un tabù. Inoltre, alcune forze di sinistra, in particolare quella estrema del partito La France Insoumise, da qualche mese sostengono la vittimizzazione portata avanti da una parte galassia islamica francese. Basti pensare che il leader di questo partito, Jean-Luc Melenchon ha partecipato alla manifestazione contro l'islamofobia, svoltasi a Parigi il 10 novembre scorso. Le varie anime della sinistra d'oltralpe sembrano preoccuparsi più delle scadenze elettorali che del pericolo dell'islamismo radicale. Forse scommettono su una rivincita elettorale alle prossime municipali, previste per marzo 2020. Questo permetterebbe loro di pesare di più nelle decisioni politiche anche perché, alcuni dei futuri consiglieri comunali potranno partecipare alle prossime elezioni senatoriali (in Francia il Senato non è eletto direttamente dai cittadini ma da dei grandi elettori, nrd).Mostrandosi alla manifestazione contro l'islamofobia, alcuni politici devono aver voluto mandare un messaggio chiaro all'elettorato musulmano non moderato. E pazienza se tra i manifestanti ci fosse anche Marwan Muhammad, descritto da Le Parisien e da Franceinfo come una «figura controversa dell'islam di Francia [...] ex direttore del Collettivo contro l'islamofobia in Francia, il movimento accusato di essere vicino ai Fratelli Musulmani». Questo leader musulmano è stato filmato in piedi sulla tettoia di una pensilina, intento ad arringare i manifestanti al grido di «Allah Akbar!».È difficile dunque immaginare che la maggioranza macronista - composta anche da una folta componente di sinistra e impaurita da una eventuale nuova sconfitta elettorale - decida di prendere il toro per le corna. Il rischio è che l'introduzione di nuove leggi per lottare contro la radicalizzazione dei poliziotti e di altri agenti della pubblica amministrazione, sia accolta con sospetto da un certo elettorato. Una scommessa troppo rischiosa quando, dopo un anno di Gilet Gialli e quasi un mese di scioperi, la contestazione nel Paese è estremamente forte.
i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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Getty Images
Nel 2025 la pirateria torna a imporsi come una minaccia fluida, che si adatta ad ogni situazione, capace di sfruttare ogni varco lasciato aperto nel fragile equilibrio della sicurezza marittima globale. Due aree, più di altre, raccontano questa nuova stagione di attacchi: il Golfo di Guinea e l’Oceano Indiano. Non si tratta più di fenomeni isolati come mostrano i report di Praesidium, società che si occupa di intelligence marittima, né di improvvise fiammate criminali. È un ecosistema in movimento, che segue logiche precise, approfitta delle lacune statali, cavalca il maltempo o il suo contrario, e ridisegna continuamente la mappa del rischio.
Nel Golfo di Guinea, l’andamento dell’anno ha mostrato un susseguirsi di incursioni che sembrano quasi seguire una traiettoria invisibile. All’inizio la pressione è stata particolarmente intensa nel settore orientale, tra Gabon, Guinea Equatoriale e São Tomé e Príncipe. L’attacco del 31 gennaio al peschereccio Amerger VII ha inaugurato la stagione. Tre membri dell’equipaggio sono finiti nelle mani dei pirati a poche miglia da Owendo, un episodio che ha posto subito il tema dell’audacia dei gruppi criminali e della loro capacità di muoversi vicino alle acque territoriali. Interessante notare che la stessa imbarcazione era già stata attaccata nella stessa area nel 2020.
Pochi giorni dopo, l’abbordaggio della Jsp Vento, nella Zona economica esclusiva (Zee) della Repubblica della Guinea Equatoriale, ha mostrato un altro tratto distintivo della pirateria del 2025: attacchi rapidi e condotti contro navi senza scorta, dove gli equipaggi sono spesso lasciati a loro stessi visti i lunghi tempi di reazione delle autorità locali. In questo caso i pirati hanno abbandonato la nave dopo essere stati avvistati dall’equipaggio. A marzo l’escalation si è fatta più chiara. L’incursione alla petroliera Bitu River, al largo di São Tomé, è durata ore e ha incluso la violazione della cittadella, con i pirati che sono riusciti a prendere in ostaggio diversi membri dell’equipaggio e a fuggire. Il trasferimento degli ostaggi in Nigeria e il loro rilascio settimane dopo suggeriscono canali consolidati, territori di appoggio e una filiera criminale ben riconoscibile.
La traiettoria della minaccia è poi scivolata verso ovest, raggiungendo il Ghana, dove a fine marzo il peschereccio Meng Xin 1 è stato assaltato e tre marittimi sono stati rapiti e trasportati nel Delta del Niger, cuore storico delle milizie locali. In quest’area, simili episodi ai danni di pescherecci sono stati in passato ricondotti a dispute locali o ad azioni di ritorsione. Tuttavia, il fatto che gli assalitori comunicassero in pidgin english nigeriano richiama il modus operandi tipico dei sequestri a scopo di riscatto riconducibili alla pirateria nigeriana, lasciando aperta l’ipotesi di un’evoluzione dell’evento in tale contesto.
Il vero punto di svolta è arrivato il 21 aprile, quando la Sea Panther è stata abbordata a oltre 130 miglia da Brass. L’episodio ha segnato il ritorno ufficiale della pirateria all’interno della Zee nigeriana, un territorio che non registrava attacchi confermati dal 2021. Per gli analisti si è trattato della prova definitiva che la pressione militare degli anni precedenti si è attenuata, lasciando di nuovo spazio a cellule in grado di spingersi in acque profonde. Poche settimane dopo, a fine maggio, l’assalto alla Orange Frost nella zona di sviluppo congiunto tra Nigeria e São Tomé ha completato il quadro, mostrando come i gruppi criminali siano capaci di colpire anche aree formalmente pattugliate da due Stati.
L’estate ha portato una calma apparente, dissoltasi con l’arrivo di nuovi episodi a partire da agosto, quando il tentativo di sequestro della Endo Ponente è stato sventato dalla pronta ritirata nella cittadella da parte dell’equipaggio, che è rimasto all’interno fino all’intervento delle forze navali avvenuto comunque ore dopo l’attacco. Un altro tentato attacco è stato registrato nella regione occidentale del Golfo in ottobre contro la Alfred Temile 10 al largo del Benin. A novembre la minaccia è tornata a concentrarsi a est, dove la Ual Africa è stata presa di mira al confine tra la Zee di São Tomé e Principe e quella della Guinea Equatoriale: l’equipaggio ha resistito chiudendosi in un’area blindata all’interno della nave - un locale protetto, sigillato e dotato di comunicazioni indipendenti - progettata per consentire all’equipaggio di mettersi al sicuro durante un attacco. Non riuscendo a fare breccia nelle difese, i pirati hanno devastato ponte e alloggi prima di ritirarsi.
Se il Golfo di Guinea racconta una pirateria che cambia posizione ma non perde incisività, l’Oceano Indiano nel 2025 ha dato vita a uno scenario ancora più inquietante. La regione somala è tornata teatro di sequestri e attacchi con una frequenza che ricorda i periodi più bui della pirateria del decennio precedente. La stagione è iniziata a febbraio con una serie di dirottamenti per mezzo di dhow yemeniti, piccole imbarcazioni utilizzate dai pirati come piattaforme mobili per proiettarsi molto a largo. Il sequestro dell’Al Najma N.481 ha rivelato un modus operandi ormai consueto: catturare un peschereccio, impossessarsi delle piccole imbarcazioni, rifornirsi a bordo e ripartire verso obiettivi più remunerativi. Anche gli altri casi registrati tra il 15 febbraio e il 16 marzo mostrano lo stesso schema, con dhow impiegati come basi avanzate e poi abbandonati dopo l’intervento delle forze navali internazionali o a seguito del pagamento di riscatti.
Il periodo dei monsoni, tra maggio e settembre, ha rallentato l’attività, ma non l’ha soppressa. Appena il mare è tornato praticabile, gli avvistamenti sospetti sono ripresi con un’intensità che ha sorpreso perfino le missioni navali. Tra ottobre e novembre si è assistito a un ritorno deciso dei gruppi somali in acque profonde, con tentativi di abbordaggio a centinaia di miglia dalla costa, un dettaglio che ricorda i livelli operativi raggiunti nel 2011-2012. Il primo attacco avvenuto nel 2025 contro una nave commerciale è stato registrato il 3 novembre alla petroliera Stolt Sagaland, a oltre 332 miglia nautiche da Mogadiscio: quattro uomini armati hanno aperto il fuoco prima di ritirarsi, segno di una rinnovata audacia. Pochi giorni dopo, la Hellas Aphrodite è stata addirittura abbordata a più di 700 miglia nautiche dalla Somalia, un dato che conferma l’utilizzo di «navi madre» capaci di sostenere missioni lunghe e complesse. Proprio in questo contesto si inserisce il misterioso dhow iraniano Issamamohamadi, sequestrato a fine ottobre e ritrovato abbandonato l’11 novembre: secondo gli investigatori è molto probabile che sia stato utilizzato come base per gli attacchi alla Stolt Sagaland e alla Hellas Aphrodite.
Il mese di novembre ha proposto un crescendo di avvicinamenti sospetti, scafi non identificati che si accostano a mercantili per poi allontanarsi all’improvviso, petroliere che segnalano la presenza di droni in aree dove solo pochi anni fa sarebbe stato impensabile. Le due regioni – Golfo di Guinea e Oceano Indiano – raccontano, seppure con dinamiche diverse, una stessa verità: la pirateria non è affatto un fenomeno residuale. È una minaccia che continua a mutare, sfrutta gli spazi lasciati liberi dalla sicurezza internazionale e approfitta delle fragilità degli Stati costieri. Nel 2025, il mare torna a parlare il linguaggio inquieto delle rotte clandestine, dei sequestri silenziosi e dei gruppi armati che conoscono perfettamente le pieghe della geografia nautica e delle debolezze politiche di intere regioni. Una minaccia che non chiede di essere osservata: semplicemente, ritorna.
«La lotta agli Huthi ha sottratto risorse. Contro i sequestri i mezzi sono limitati»
Stefano Ràkos, è manager del dipartimento di intelligence e responsabile del progetto M.a.r.e. di Praesidium.
In che modo la pirateria nel Golfo di Guinea nel 2025 dimostra una crescente capacità organizzativa rispetto agli anni precedenti?
«La crescente capacità organizzativa emerge soprattutto dall’elevata adattabilità dei pirati al contesto di sicurezza. I gruppi dimostrano di monitorare costantemente l’evoluzione delle misure di protezione, inclusa l’estensione progressiva delle aree coperte da scorte armate o navi militari, e di raccogliere informazioni attraverso canali aperti e circuiti informali. Le aree di attacco vengono quindi selezionate in modo sempre più mirato, privilegiando i settori dove le scorte armate non sono consentite per motivi legali o di scarsa presenza di asset militari. Gli assalti risultano basati su informazioni preventive sui movimenti delle navi e non più su opportunità casuali, indicando un livello di pianificazione e coordinamento superiore rispetto al passato».
Quali fattori hanno consentito ai gruppi criminali dell’Oceano Indiano di tornare a operare a distanze così elevate dalla costa somala, arrivando a colpire navi a oltre 700 miglia?
«A partire dalla fine del 2023, il ritorno delle attività pirata a distanze superiori alle 700 miglia dalla costa somala è stato favorito dallo spostamento dell’attenzione navale internazionale verso il Mar Rosso e il Golfo di Aden a seguito della crisi legata agli Huthi, con una conseguente riduzione della pressione di controllo nell’Oceano Indiano. La fine del monsone ha ripristinato condizioni meteomarine favorevoli alle operazioni offshore. Sul piano operativo, si è registrata una persistente limitata capacità di interdizione effettiva da parte degli assetti navali internazionali. Nel caso del dirottamento della Ruen nel dicembre 2023, così come in un più recente episodio con dinamiche analoghe, le forze presenti si sono limitate ad attività di monitoraggio a distanza, senza procedere a un’azione diretta di interruzione prima del rientro delle unità verso le coste somale. Questo approccio ha di fatto confermato ai gruppi criminali l’esistenza di ampi margini di manovra operativa, rafforzando la percezione di un basso livello di rischio nelle fasi successive al sequestro».
Che ruolo ha giocato la cooperazione regionale degli Stati dell’Africa occidentale nella gestione dei sequestri e nella risposta agli attacchi, e quali limiti emergono da questi interventi?
«Nella pratica, la cooperazione regionale tra gli Stati dell’Africa occidentale ha inciso in modo molto limitato sulla gestione dei sequestri e sulla risposta agli attacchi. I principali quadri di riferimento, tra cui Ecowas e l’Architettura di Yaoundé con i relativi centri di coordinamento regionali, hanno prodotto soprattutto meccanismi formali di cooperazione e scambio informativo. Tuttavia, tali strutture non si sono tradotte in una capacità operativa realmente integrata. Le risposte restano nazionali, frammentate e spesso tardive, con forti disomogeneità tra le marine locali».
In che misura l’utilizzo di dhow come «navi madre» rappresenta un salto qualitativo nelle operazioni dei pirati somali, e quali rischi introduce per le rotte commerciali globali?
«L’impiego dei dhow come navi madre non rappresenta una tattica nuova, ma una strategia già utilizzata dai pirati somali in passato e oggi tornata pienamente operativa. Questo schema consente di superare i limiti degli skiff, che per autonomia di carburante e condizioni del mare non possono spingersi troppo lontano dalla costa. L’uso di un’imbarcazione più grande permette invece di operare a grande distanza, trasportando uomini, carburante e mezzi d’assalto in aree di mare molto più estese. Una volta avvicinato il bersaglio, vengono poi impiegati gli skiff, più rapidi e adatti alla fase di abbordaggio. Ne deriva un ampliamento diretto dell’area di rischio e una maggiore esposizione delle rotte commerciali globali, anche in settori che in passato erano considerati marginali rispetto alla minaccia pirata. Negli anni d’oro della pirateria somala il loro raggio operativo raggiungeva addirittura le Maldive».
Quali segnali osservabili indicano che nel 2025 la pirateria non è un fenomeno residuale ma un ecosistema in evoluzione che sfrutta lacune statali e vuoti di sicurezza internazionale?
«Nel contesto dell’Oceano Indiano, l’assenza di un controllo statale effettivo su ampie porzioni del territorio somalo continua a costituire un fattore strutturale di instabilità, che facilita la riorganizzazione delle reti criminali. Le missioni navali internazionali, tra cui le componenti europee e le task force multinazionali, non esercitano più il livello di deterrenza raggiunto negli anni precedenti. La Marina indiana mantiene una presenza attiva nella regione, ma gli interventi risultano spesso legati alla presenza di cittadini indiani a bordo delle unità coinvolte. Nel Golfo di Guinea, il quadro appare ancora più critico. I gruppi criminali nigeriani operano con crescente frequenza al di fuori della zona economica esclusiva della Nigeria, spesso in aree dove l’impiego di scorte armate non è consentito. I tempi di risposta delle marine locali risultano generalmente elevati e frammentati, in assenza di un dispositivo internazionale strutturato analogo a quello attivo in Oceano Indiano».
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(Ansa/Arma dei Carabinieri)
Si tratta in particolare di truffatori che ricorrevano al trucco del «finto carabiniere» per sottrarre denaro soprattutto a persone anziane. Tra gli indagati, uno era già detenuto per altra causa; sei sono stati portati in carcere, nove agli arresti domiciliari e cinque sottoposti all’obbligo di dimora.
Il provvedimento nasce da un’indagine convenzionalmente denominata «Altro Mondo», condotta dal Nucleo investigativo di Milano e avviata a partire dal 2023, come risposta alla recrudescenza di furti, rapine e truffe commessi prevalentemente in danno di soggetti vulnerabili, mediante la tecnica del «finto carabiniere».
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