2019-11-23
Zingaretti come un pugile suonato
è ormai vicino a gettare la spugna
Il voto della piattaforma Rousseau è stata l'ultima botta all'improvvido patto con i 5 stelle. Non c'è un tema su cui vadano d'accordo: Ilva, Alitalia, riforma della giustizia, Mes. E poi c'è l'incubo della débâcle in Emilia.Contrordine, compagni: abbiamo scherzato. Eh, sì: ci vorrebbe la penna di Giovanni Guareschi, per raccontare l'atmosfera da «rompete le righe» che ormai corre come un brivido lungo la schiena del governo giallorosso. Il voto della piattaforma Rousseau, che giovedì sera ha imposto ai grillini di andare soli alle prossime elezioni regionali, è stata davvero l'ultima botta all'improvvida alleanza tra Partito democratico e Movimento 5 stelle. Così ieri è stato un fosco «day after» per il segretario Nicola Zingaretti, quasi peggiore di quello toccato a Luigi Di Maio e al presidente del Consiglio (sempre più) pro tempore Giuseppe Conte. A descrivere l'aria da smobilitazione generale, in effetti, non bastano nemmeno i retroscena sulla cena romana organizzata al ristorante giovedì sera dallo stesso Conte per 22 ministri. I giornali hanno descritto mormorii spaventati, cupe previsioni sulla durata dell'esecutivo e una depressa certezza collettiva: «Al 26 gennaio ci arriviamo, dopo chissà». Dopo aver perso il governo dell'Umbria lo scorso 27 ottobre, ora grillini e democratici spostano lo sguardo terrorizzato sull'Emilia Romagna, dove per l'appunto si voterà il 26 gennaio. Ieri il governatore uscente Stefano Bonaccini, che il Pd candida a capo del centrosinistra, era più nero in faccia che sotto la suola delle scarpe, là dove peraltro era di colpo scivolata anche la sua verve elettorale. Tanto da lanciare un patetico appello ai 5 stelle: «Le forze che vincono insieme governano insieme», ha implorato Bonaccini, «e se loro (cioè i grillini, ndr) rinunciano ad assumersi responsabilità, regalano un vantaggio alla destra, che (…) vuole solo mandare a casa il governo Conte». In effetti, da 24 ore Matteo Salvini va ripetendo che, con il voto su Rousseau, «i militanti del M5s hanno sfiduciato Di Maio e Beppe Grillo, e con loro il governo "contro natura" con il Pd». Se questo è vero, è però soprattutto in casa dei Democratici che la sfiducia monta, e la situazione s'è fatta irrespirabile. È come se d'improvviso si fosse tornati allo scorso agosto, quando Zingaretti e Di Maio giuravano - ciascuno per la sua parte - che mai e poi mai si sarebbero messi assieme. C'era voluta la bacchetta magica di un Silvan come Matteo Renzi, allora, per arrivare al pastrocchio del 5 settembre, con la nascita del Conte bis. A quel punto, Pd e grillini s'erano messi addirittura a favoleggiare di «costruire assieme l'alternativa alla destra sovranista»: così era scritto nello schema programmatico di Dario Francheschini, condiviso da Zingaretti. Ma la magia di Renzi è durata poco, anche meno di quelle di Silvan: e se il governo gialloblù è durato 14 mesi, quello giallorosso rischia di spezzarsi molto prima. Lo stesso Di Maio, ormai, chiude ogni prospettiva. Neanche fosse un redivivo Tony Blair, proclama che «il M5s è la terza via, un'alternativa alla destra e alla sinistra».Ma in un crudele gioco di specchi anche il Pd deve scoprire che non c'è più un solo tema su cui le differenze con lo scomodo alleato grillino non siano divenuti fossati insuperabili. A partire dall'Ilva, un disastro tanto «divisivo» (uno degli insopportabili aggettivi forgiati nelle assemblee dem) che continuano a saltare perfino le convocazioni del Consiglio dei ministri. Per non parlare dell'Alitalia: qui i 5 stelle innalzano muri contro il passo avanti dei Benetton, che intanto cercano una sponda nel Pd per imporre lo scambio «noi cresciamo in Alitalia se ci garantite la concessione su Autostrade». Ma la concessione è nel mirino dei grillini dal 14 agosto 2018, con la caduta del ponte Morandi di Genova, e oggi la loro opposizione è incattivita dalle rivelazioni su presunte manovre dei manager benettoniani per celare la pericolosità del viadotto.Anche sul Mes, il Meccanismo europeo di stabilità che imbarazza Conte, ormai stretto alle corde dall'accusa di aver stretto disastrosi accordi sottobanco con Bruxelles, ieri il governo s'è spaccato: i grillini si sono messi di traverso, mentre il Pd è rimasto in fase «struzzo», così il vertice di maggioranza sul tema è stato rinviato a data da stabilirsi. Non bastassero i guai, l'ex ministro pd della Giustizia, Andrea Orlando, ha riaperto il fronte dell'addio alla prescrizione, cioè la bandiera del suo successore Alfonso Bonafede e di una decennale canea giustizialista grillina. «Il rinvio della riforma è inevitabile», ha detto Orlando. Apriti cielo.In tutto questo, il povero Zingaretti sembra sempre più frastornato. Pochi giorni fa, mentre Venezia si allagava e metà del Paese mostrava la malata fragilità del suo suolo, ha riesumato la vecchia idea dello ius soli, da regalare agli immigrati. Davanti a tanto masochismo, perfino nel Pd c'è chi l'ha zittito. Ieri, il segretario ha trovato il tempo per chiedere al suo ufficio stampa di smentire la frase «ormai navighiamo a vista», che gli era stata attribuita da Repubblica. Un tentativo generoso, da parte di Zingaretti, ma senza troppo senso: che il governo, il M5s e soprattutto il Pd non abbiano più una rotta davanti a sé, ormai, è un dato di fatto. Del resto, sempre ieri, Zingaretti ha detto un no alla riforma elettorale in senso proporzionale, dicendosi convinto che «non vada fatta cadere la proposta di Giancarlo Giorgetti». E si sa che, in Italia, quando si comincia a parlare di legge elettorale...
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