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2023-05-04
L’accusa di 29 studiosi: l’ideologia woke mette a repentaglio il progresso della scienza
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(Getty Images)
L'ideologia woke non è una semplice bizzarria concettuale, ma un vero e proprio pericolo per il progresso della scienza. Ne sono convinti 29 studiosi di differenti nazionalità che hanno deciso di pubblicare sul Journal of Controversial Ideas un articolo per difendere il metodo scientifico dall'invasione della New Left. Le quote rosa o arcobaleno nei laboratori, o i paper scientifici letti sulla base della razza o del genere degli autori, spiegano, non funzionano, anzi, danneggiano irreparabilmente i meccanismi che promuovono la conoscenza e il progresso.
I sottoscrittori dell'articolo partono dal presupposto che «la scienza è solo uno strumento che
può essere usato nel bene e nel male. È nostra responsabilità come società usarla in modo responsabile, eticamente ed efficacemente. L'adempimento di questa responsabilità», aggiungono, «è però ostacolato da un nuovo, allarmante scontro tra epistemologia liberale e ideologie identitarie». Dal punto di vista linguistico, in realtà, la precisazione scopre il fianco a più di una critica. Se da un lato è discutibile che l'osservazione del metodo scientifico sia una caratteristica esclusivamente «liberale» (Guglielmo Marconi, Wernher von Braun, Yuri Gagarin hanno scolpito il loro nome nella storia della scienza pur non appartenendo a mondi liberali), dall'altro l'ideologia woke è una degenerazione di idee relative a quel mondo non a caso definito «liberal», termine che certo ha connotazioni diverse rispetto all'italiano «liberale», ma comunque non separato da questo da un abisso concettuale.
Considerazioni terminologiche a parte, tuttavia, il discorso appare chiaro e condivisibile. Il metodo scientifico, spiegano gli autori, si basa sulla libera e aperta valutazione degli argomenti scientifici, con lo scopo di selezionare quello migliore. «Lo status, l'identità, i dati demografici degli scienziati sono irrilevanti per questo grande vaglio di idee valide contro idee non valide. Al contrario, le ideologie basate sull'identità cercano di sostituire questi principi fondamentali liberali, essenziali per i progressi scientifici e tecnologici, con principi derivati dal postmodernismo e dalla Critical social justice (CSJ), che affermano che la scienza moderna è "razzista", "patriarcale" e "coloniale" e uno strumento di oppressione piuttosto che uno strumento di promozione della prosperità umana e del bene comune globale». In altre parole, spiegano gli studiosi, «la verità e le affermazioni non possono essere meno valide in virtù dell'appartenenza di chi le propone a un particolare gruppo. L'epistemologia liberale implica che le "dichiarazioni di posizione" (in cui gli scienziati rivelano le loro appartenenze a una data identità demografica e che ora vengono sostenute ovunque nell'accademia) non hanno alcun valore nelle valutazioni delle affermazioni scientifiche, poiché la validità di una verità non può essere valutata attraverso le affiliazioni tribali o demografiche dei richiedenti».
Insomma: uno scienziato maschio, bianco ed etero non ha necessariamente torto per il fatto di appartenere a un gruppo presuntamente «privilegiato». E viceversa, una studiosa femmina, nera e lesbica non avrà automaticamente ragione per il solo fatto di appartenere a categorie oppresse o presunte tali. Sono le prove, le evidenze e la pubblica discussione delle stesse a decidere. Si tratta di banalità epistemologiche, per decenni date per scontate, ma che ora vengono rimesse in discussione. «Questi principi fondamentali, che hanno funzionato bene per secoli, sono attaccati da ideologie originate dal postmodernismo e dalla Teoria Critica, le cui versioni rifiutano la realtà oggettiva a favore di “narrazioni multiple” promulgate da diversi gruppi identitari e "modi alternativi di conoscenza". Generano “un radicale scetticismo sul fatto che la conoscenza oggettiva o la verità siano ottenibili" e promuovono "un impegno per il costruttivismo culturale", che afferma che la conoscenza e la realtà sono prodotti del loro contesto culturale».
Si tratta di un appello da leggere con grande attenzione. Con una postilla: il valore di verità disinteressata e imparziale della scienza si tutela non solo combattendo l’ideologia woke, ma anche tutelandosi dalle ingerenze politiche ed economiche di qualsiasi tipo. La storia del Covid ci insegna che questo non sempre accade, che la scienza spesso è attraversata da condizionamenti che la inquinano. Essere meno attaccabili da questo punto di vista renderebbe l’atto d’accusa contro la sinistra talebana ben più potente.
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Un articolo uscito sul «Journal of Controversial Ideas» accusa la nuova sinistra di sabotare la ricerca: «L’identità razziale o di genere degli scienziati è irrilevante per valutare le loro scoperte».L'ideologia woke non è una semplice bizzarria concettuale, ma un vero e proprio pericolo per il progresso della scienza. Ne sono convinti 29 studiosi di differenti nazionalità che hanno deciso di pubblicare sul Journal of Controversial Ideas un articolo per difendere il metodo scientifico dall'invasione della New Left. Le quote rosa o arcobaleno nei laboratori, o i paper scientifici letti sulla base della razza o del genere degli autori, spiegano, non funzionano, anzi, danneggiano irreparabilmente i meccanismi che promuovono la conoscenza e il progresso.I sottoscrittori dell'articolo partono dal presupposto che «la scienza è solo uno strumento chepuò essere usato nel bene e nel male. È nostra responsabilità come società usarla in modo responsabile, eticamente ed efficacemente. L'adempimento di questa responsabilità», aggiungono, «è però ostacolato da un nuovo, allarmante scontro tra epistemologia liberale e ideologie identitarie». Dal punto di vista linguistico, in realtà, la precisazione scopre il fianco a più di una critica. Se da un lato è discutibile che l'osservazione del metodo scientifico sia una caratteristica esclusivamente «liberale» (Guglielmo Marconi, Wernher von Braun, Yuri Gagarin hanno scolpito il loro nome nella storia della scienza pur non appartenendo a mondi liberali), dall'altro l'ideologia woke è una degenerazione di idee relative a quel mondo non a caso definito «liberal», termine che certo ha connotazioni diverse rispetto all'italiano «liberale», ma comunque non separato da questo da un abisso concettuale. Considerazioni terminologiche a parte, tuttavia, il discorso appare chiaro e condivisibile. Il metodo scientifico, spiegano gli autori, si basa sulla libera e aperta valutazione degli argomenti scientifici, con lo scopo di selezionare quello migliore. «Lo status, l'identità, i dati demografici degli scienziati sono irrilevanti per questo grande vaglio di idee valide contro idee non valide. Al contrario, le ideologie basate sull'identità cercano di sostituire questi principi fondamentali liberali, essenziali per i progressi scientifici e tecnologici, con principi derivati dal postmodernismo e dalla Critical social justice (CSJ), che affermano che la scienza moderna è "razzista", "patriarcale" e "coloniale" e uno strumento di oppressione piuttosto che uno strumento di promozione della prosperità umana e del bene comune globale». In altre parole, spiegano gli studiosi, «la verità e le affermazioni non possono essere meno valide in virtù dell'appartenenza di chi le propone a un particolare gruppo. L'epistemologia liberale implica che le "dichiarazioni di posizione" (in cui gli scienziati rivelano le loro appartenenze a una data identità demografica e che ora vengono sostenute ovunque nell'accademia) non hanno alcun valore nelle valutazioni delle affermazioni scientifiche, poiché la validità di una verità non può essere valutata attraverso le affiliazioni tribali o demografiche dei richiedenti». Insomma: uno scienziato maschio, bianco ed etero non ha necessariamente torto per il fatto di appartenere a un gruppo presuntamente «privilegiato». E viceversa, una studiosa femmina, nera e lesbica non avrà automaticamente ragione per il solo fatto di appartenere a categorie oppresse o presunte tali. Sono le prove, le evidenze e la pubblica discussione delle stesse a decidere. Si tratta di banalità epistemologiche, per decenni date per scontate, ma che ora vengono rimesse in discussione. «Questi principi fondamentali, che hanno funzionato bene per secoli, sono attaccati da ideologie originate dal postmodernismo e dalla Teoria Critica, le cui versioni rifiutano la realtà oggettiva a favore di “narrazioni multiple” promulgate da diversi gruppi identitari e "modi alternativi di conoscenza". Generano “un radicale scetticismo sul fatto che la conoscenza oggettiva o la verità siano ottenibili" e promuovono "un impegno per il costruttivismo culturale", che afferma che la conoscenza e la realtà sono prodotti del loro contesto culturale».Si tratta di un appello da leggere con grande attenzione. Con una postilla: il valore di verità disinteressata e imparziale della scienza si tutela non solo combattendo l’ideologia woke, ma anche tutelandosi dalle ingerenze politiche ed economiche di qualsiasi tipo. La storia del Covid ci insegna che questo non sempre accade, che la scienza spesso è attraversata da condizionamenti che la inquinano. Essere meno attaccabili da questo punto di vista renderebbe l’atto d’accusa contro la sinistra talebana ben più potente.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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