2023-02-03
La realtà non garba alle minoranze. Il «Washington Post» la abolisce
Rivoluzione nel giornalismo americano: la celebre «obiettività» anglosassone non va più bene, perché nasce in redazioni con troppi ricchi bianchi. Perciò va messa da parte: meglio farsi spiegare il mondo da neri e gay.C’è una beffarda forma di giustizia nel fatto che ad annunciare la fine del giornalismo sia una delle testate che più hanno contribuito a edificarne il mito hollywoodiano. Il Washington Post, in ogni caso, ha mirato ancora più in alto, arrivando a teorizzare la scomparsa della realtà. Diversi anni fa il filosofo Jean Baudrillard - convinto che la nostra civiltà fosse affetta dal male incurabile della simulazione - si era domandato: perché non è ancora tutto scomparso? Ecco, ormai ci siamo. Leonard Downie Jr., già membro della direzione del blasonato quotidiano americano e professore di giornalismo e comunicazioni di massa alla Walter Cronkite School of Journalism and Mass dell’Arizona State University, ha consegnato alla stampa la nuova regola: bisogna superare l’oggettività. «Sempre più spesso, giornalisti, redattori e critici dei media sostengono che il concetto di obiettività giornalistica è una distorsione della realtà. Sottolineano che lo standard è stato dettato nel corso di decenni da redattori maschi in redazioni prevalentemente bianche». Ne deriva che l’obiettività dei giornalisti «maschi-bianchi-ricchi» è inadeguata a raccontare «storie sulla razza, il trattamento delle donne, i diritti Lgbtq+, la disuguaglianza di reddito, il cambiamento climatico e molti altri argomenti». Non si tratta, attenzione, dell’opinione di un singolo giornalista, per quanto importante. No: questa posizione è condivisa da decine e decine di cronisti che occupano posizioni di rilievo nei media statunitensi. «Per capire meglio i cambiamenti che stanno avvenendo», spiega Downie Jr., «io e l’ex presidente della Cbs News Andrew Heyward, un collega della Walter Cronkite School of Journalism dell’Arizona State University, abbiamo studiato i valori e le pratiche nelle redazioni tradizionali di oggi, con una sovvenzione della Stanton Foundation. Ciò che abbiamo trovato ci ha convinto che i mezzi di informazione in cerca di verità devono andare oltre qualsiasi “obiettività” che si riteneva servisse a fornire notizie più affidabili. Abbiamo intervistato più di 75 news leaders, giornalisti e altri esperti della stampa mainstream, delle trasmissioni e dei media digitali, molti dei quali sostengono tale cambiamento. Sembra essere l’inizio di un altro cambiamento generazionale nel giornalismo americano».Qualche esempio. L’attuale executive editor del Washington Post, Sally Buzbee, ha rilevato che «molti giornalisti vogliono fare la differenza su questioni come il cambiamento climatico, l’immigrazione e l’istruzione». Emilio Garcia-Ruiz, redattore capo del San Francisco Chronicle, decreta che «l’oggettività deve finire». La sua testata, a tale proposito, ha deciso di consultare gruppi di «donne, neri, latini, asiatici americani e persone Lgbtq+» per coinvolgerli «nelle decisioni della redazione».Insomma, il punto è che i giornalisti, per svolgere adeguatamente il proprio mestiere, dovrebbero tenere conto di elementi quali «la discriminazione e l’abuso delle donne; il razzismo persistente e il nazionalismo bianco; la brutalità e le uccisioni della polizia; il trattamento delle persone Lgbtq+; la disuguaglianza di reddito e i problemi sociali; l’immigrazione e il trattamento degli immigrati; le cause e gli effetti del cambiamento climatico; il diritto di voto». E come, concretamente, i giornali dovrebbero mostrarsi più sensibili a tutto ciò? Al Los Angeles Times, ad esempio, spingono i loro giornalisti a occuparsi di argomenti che coinvolgano le loro comunità di appartenenza, tra cui «la storia di un giornalista latino sul basso tasso di vaccinazione nella sua comunità e la storia di un giornalista gay sul suo matrimonio e la potenziale minaccia alla legalità dei matrimoni gay da parte della Corte suprema Usa». All’emittente Abc hanno creato apposite squadre di reporter che forniscano «contenuti di razza e cultura». E ancora: «Elizabeth Green, co-founder e amministratore delegato di Chalkbeat, i cui siti web di notizie in tutto il Paese si occupa di istruzione, ha affermato di aver adottato l’antirazzismo come valore fondamentale». Dalle numerose conversazioni con i colleghi, il professore di giornalismo Leonard Downie Jr. ha tratto alcune lezioni fondamentali. E cioè che le redazioni devono essere «inclusive», e devono «sviluppare valori fondamentali avendo conversazioni sincere, inclusive e aperte». Tutte bellissime e correttissime parole servono a nascondere l’unico e inevitabile approdo della ideologia cosiddetta Woke: i «risvegliati» o «illuminati» che la sostengono puntano al controllo dei mezzi di informazione non per dare ai lettori più verità, ma meno. Se diventare più «inclusivi» significasse mostrare più attenzione alle diverse fasce sociali, indagare più a fondo le ragioni delle varie comunità e cose di questo genere, beh, non ci sarebbe bisogno dell’inclusività: basterebbe fare buon giornalismo come quello che tanti media d’Occidente hanno sempre fatto, svelando scandali e contrastando il discorso dominante. Ciò che i vari esponenti di tv e quotidiani americani propongono, adesso, è qualcosa di completamente diverso: un giornalismo ricattato dalle istanze di piccoli gruppi di attivisti che pretendono di rappresentare le loro comunità e di stabilire che cosa si possa o non si possa dire. Alcuni degli esempi forniti dal Washington Post già mostrano quale sia l’orientamento prevalente. Che faranno i direttori politicamente corretti quando si troveranno per le mani una notizia potenzialmente irritante per Black Lives Matter o le associazioni trans? La pubblicheranno o in nome della inclusività la silenzieranno o pervertiranno? Intendiamoci: qui non siamo certo a favore di un giornalismo anodino, disimpegnato e neutro. I fatti, tuttavia, restano fatti. Poi ci sono le interpretazioni, e proprio per questo esiste il pluralismo dell’informazione. Della stessa notizia, il giornale di riferimento degli afroamericani potrebbe dare una lettura diversa da quella fornita da un quotidiano che si rivolge ai latinos. Ma questo è il bello della vera diversità. Ciò che invece gli attivisti odierni (e i terrorizzati scendiletto che li assecondano) pretendono, e che il New York Times dia di una notizia sui neri la stessa lettura che darebbe la testata di riferimento dei neri. E così dovranno fare il Post, il Los Angeles Times, il Globe eccetera. Le varie comunità non si limitano a esprimere il proprio punto di vista: pretendono che esso diventi legge. Per altro, risulta curioso che, in questa tensione alla valorizzazione delle differenze, si tenda sempre a nascondere ciò che invece avvicina e lega gli esseri umani: è un bel mondo per spingere i popoli a dividersi in bande che si fanno costante concorrenza sul mercato dei diritti. L’unico risultato possibile dell’auspicato nuovo corso del giornalismo statunitense è un orrore politicamente corretto in cui la stessa versione artificiosa della realtà viene imposta ovunque, a discapito dell’interesse per la verità e del pensiero critico, cioè gli unici requisiti che servano per far bene il mestiere.