2019-10-10
Vediamo cosa si inventa adesso Giuseppi
Il 20 agosto, nel discorso al Senato dopo la mozione di sfiducia presentata dalla Lega, Giuseppe Conte disse che Matteo Salvini avrebbe fatto meglio a presentarsi a Palazzo Madama e chiarire il caso russo. Un mese e mezzo fa, quello del presidente del Consiglio apparve come un elogio non solo della trasparenza, in una vicenda dai contorni oscuri, ma anche una riaffermazione del ruolo del Parlamento, a cui si devono informazioni sui fatti rilevanti della vita politica. Non si scappa davanti alle domande, era il senso del discorso al veleno con cui il premier servì il ministro che intendeva sfiduciarlo. Certo, il capo del governo non immaginava che di lì a poche settimane, a non voler affrontare il fuoco di fila degli interrogativi sarebbe stato proprio lui. L'avvocato del popolo, tanto abile a giocare con il diritto e il rovescio, ma soprattutto tanto scaltro da disinnescare gli argomenti degli avversari nelle memorie difensive dei suoi clienti, non poteva pensare che presto si sarebbe trovato (...)(...) lui stesso nella scomoda posizione di dover spiegare fatti misteriosi, sottoposto al fuoco di fila dei quesiti. Ma invece è proprio quello che è accaduto e Conte, anziché fornire risposte chiare ed esaurienti alle domande che da più parti gli vengono rivolte, sul cosiddetto affare Russiagate tace. Anzi, da leguleio qual è, per giorni si è trincerato dietro il dettaglio che il Copasir, ossia il comitato che vigila sui servizi di sicurezza, non era al completo e non poteva per questa ragione riunirsi o convocarlo. Dunque, fino a quando il Parlamento non avesse nominato il successore di Lorenzo Guerini, Conte riteneva di poter continuare a tacere e sfuggire alle domande, ottenendo di guadagnare il tempo necessario per uscire dall'angolo in cui lui stesso si è ficcato. Peccato che proprio ieri il Copasir abbia provveduto a nominare un nuovo presidente, e questi sia un parlamentare leghista: il comitato che vigila sui servizi segreti per consuetudine va a un esponente dell'opposizione. Dunque ora l'organismo parlamentare è in grado di funzionare e di ascoltare ciò che il presidente avrà da dire. E a guidarlo non è qualcuno intenzionato a fare sconti al premier. Come è noto, il caso che vede coinvolto il presidente del Consiglio è piuttosto spinoso, perché non solo intreccia gli interessi di un Paese straniero con quelli loschi delle spie, ma incrocia anche la nascita dell'attuale governo con una serie di curiose coincidenze.Quando, in piena crisi dell'esecutivo giallorosso, il ministro della Giustizia di Donald Trump arriva a Roma, è a caccia di informazioni su Joseph Mifsud, un professore sospettato di aver offerto allo staff di Trump mail riservate di Hillary Clinton (non si sa se perché diretto da Mosca o perché infiltrato dagli stessi democratici). Da mesi Mifsud è scomparso, forse dopo aver sentito puzza di bruciato e dato che le sue tracce si perdono a Roma, l'attorney general della Casa bianca è nella capitale che cerca notizie. E qui chi trova? Un Giuseppe Conte che rischia di andare a casa, perché Salvini ha tolto l'appoggio al suo governo. E così, nelle condizioni di premier sfiduciato, l'avvocato del popolo riceve la richiesta di William Barr, intravedendo la possibilità di poter diventare l'avvocato di Trump, fosse anche trasformandosi nell'avvocato delle spie. Così dà via libera alla collaborazione dei servizi italiani con quelli americani. Completo scambio di informazioni per scovare Mifsud e aiutare Trump. Gli incontri dei nostri 007, guidati da un amico personale di Conte, avvengono proprio mentre il Conte uno cade e il Conte due risorge. In mezzo c'è un tweet del presidente degli Stati Uniti che incorona «Giuseppi», promuovendolo per un nuovo mandato. Che cosa ha ottenuto Trump in cambio di quell'endorsement? Perché la Casa Bianca si spende così, intromettendosi nelle vicende politiche di un Paese che, per quanto alleato, non è certo un satellite di Washington? In un colloquio fatto uscire per calmare le acque senza rispondere alle domande, il premier ha fatto sapere di sentirsi come Bettino Craxi quando fece circondare i marines a Sigonella. Peccato che quella sia stata una prova di forza che serviva a riaffermare la sovranità italiana nei confronti dell'alleato, e non la subalternità. Consapevole di essersi ficcato in un guaio (mettere i servizi a disposizione di altri, e per di più mentre si cerca una stampella per restare in piedi, non è una prova per chi ambisca a diventare uno statista), Conte ha provato a gettare la palla addosso a chi più di altri lo accusa, cioè a Matteo Renzi, lasciando intendere di aver assecondato le richieste americane per chiarire le eventuali responsabilità del predecessore. In pratica, una specie di avvertimento: occhio, se si alza il velo su questa storia ce n'è per tutti. Ciò dimostra una cosa, ossia come, sebbene sia appena nata, la nuova maggioranza è già ai ferri corti, con accuse e minacce incrociate. Quella che sta andando in scena, soprattutto per la mancata trasparenza del premier, è una scadente spy story. E Palazzo Chigi, più che la sede del governo, pare un covo di vipere. Mica male, per uno che si faceva vanto di non avere nulla da nascondere.