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2022-03-10
Usa-Russia: quando Hollywood immaginava la terza guerra mondiale
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Un'immagine da «Wargames» (Mgm/Ua)
La crisi ucraina ha fatto ripiombare il mondo in ansie e timori che credevamo sepolti insieme alla guerra fredda. Paure che, all'epoca, venivano per lo più esorcizzate tramite pellicole che non cessavano di immaginare un passaggio del conflitto dal «freddo» al «caldo». Insomma, che scoppiasse la terza guerra mondiale.
Un classico esempio di film di questo tipo è Wargames – Giochi di guerra, pellicola del 1983 diretta da John Badham e con un giovane Matthew Broderick e che peraltro anticipa temi destinati ad avere negli anni successivi molta importanza, come l'intelligenza artificiale, la realtà virtuale e il mondo hacker. Nel film, un ragazzino appassionato di informatica tenta di introdursi nel computer di una nota casa di videogiochi, la Protovision, e inizia una partita a un gioco, Guerra termonucleare globale, impersonando i sovietici. Quello che il giovane non ha capito è che il computer con cui si sta interfacciando è in realtà collegato al Pentagono e che l'intelligenza artificiale militare crede davvero di star rispondendo a un attacco sovietico. Dalla cameretta di un adolescente si arriva così alle soglie del conflitto atomico, ma ovviamente ci sarà un lieto fine.
Se Wargames ha un intento fondamentalmente pacifista – la guerra è una cosa sporca, gli armamenti nucleari sono una follia, l'umanità può finire per un banale errore – molto più politica è invece la trama di Alba rossa, film del 1984 diretto da John Milius e ambientato nel 1989 durante un'immaginaria invasione degli Stati Uniti condotta dalle truppe sovietiche, cubane e nicaraguensi. A contrastarli, un gruppo di adolescenti rifugiatisi sulle montagne e divenuti una vera banda di resistenza anticomunista. Il «fascista zen» Milius non mancadi lanciare qualche stoccata all'Europa, dipingendola come imbelle e neutrale, staccatasi dagli Stati Uniti dopo aver abbandonato la Nato. Previsione in realtà piuttosto fallace: proprio il 1989, anno dell'invasione secondo il film, vedrà nella realtà la caduta del muro di Berlino e conseguentemente, nel giro di pochi anni, del comunismo sovietico. Il film ha avuto comunque un remake nel 2012 diretto da Dan Bradley, in cui un gruppo di adolescenti statunitensi combatte per salvare il proprio Paese dall'invasione di truppe nord coreane. È stato tuttavia un fiasco abbastanza clamoroso.
Di notevole successo negli Usa fu The Day After, un film per la televisione diretto da Nicholas Meyer, messo in onda per la prima volta il 20 novembre 1983 sul circuito televisivo statunitense della Abc. Nella pellicola si narra di una guerra nucleare tra gli Stati Uniti e Unione Sovietica e del «giorno dopo», appunto, vissuto in alcune zone rurali dell'America. L'anno successivo, peraltro, la Gran Bretagna darà la sua versione del medesimo scenario in Ipotesi sopravvivenza, che immagina la cronaca del dopo bomba in Inghilterra.
Decisamente didascalico il titolo di World War III, film per la tv di Boris Sagal e David Greene. Qui, di nuovo, Mosca decide un blitz inviando in Alaska un reparto di paracadutisti per impadronirsi di un oleodotto, dopo che Washington ha deciso un embargo contro l'Urss.
Un nuovo conflitto globale è invece presente in forma di rischio che aleggia su tutta la vicenda in un film di ben più ampia popolarità: Caccia a ottobre rosso, diretto da John McTiernan, tratto dal romanzo La grande fuga dell'Ottobre Rosso di Tom Clancy, con un grande Sean Connery. Nel film, un avanguardistico sommergibile sovietico si dirige senza preavviso verso le coste americane. Ovvio il timore statunitense per un attacco. Seguono trattative febbrili, salvo scoprire che in realtà il capitano del sommergibile, Marko Ramius, interpretato da Connery, ha invece intenzione di disertare e arrendersi. Non prima di aver ucciso il commissario politico a bordo, che non avrebbe mai avallato un'operazione del genere. Il nome del fedelissimo alla linea anti occidentale? Ivan Yurevich Putin.
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Da Wargames ad Alba rossa: negli anni della guerra fredda, il cinema americano ha ipotizzato più volte che il conflitto diventasse… «caldo». Era un modo per esorcizzare timori e ansie che oggi, purtroppo, tornano d’attualità.La crisi ucraina ha fatto ripiombare il mondo in ansie e timori che credevamo sepolti insieme alla guerra fredda. Paure che, all'epoca, venivano per lo più esorcizzate tramite pellicole che non cessavano di immaginare un passaggio del conflitto dal «freddo» al «caldo». Insomma, che scoppiasse la terza guerra mondiale. Un classico esempio di film di questo tipo è Wargames – Giochi di guerra, pellicola del 1983 diretta da John Badham e con un giovane Matthew Broderick e che peraltro anticipa temi destinati ad avere negli anni successivi molta importanza, come l'intelligenza artificiale, la realtà virtuale e il mondo hacker. Nel film, un ragazzino appassionato di informatica tenta di introdursi nel computer di una nota casa di videogiochi, la Protovision, e inizia una partita a un gioco, Guerra termonucleare globale, impersonando i sovietici. Quello che il giovane non ha capito è che il computer con cui si sta interfacciando è in realtà collegato al Pentagono e che l'intelligenza artificiale militare crede davvero di star rispondendo a un attacco sovietico. Dalla cameretta di un adolescente si arriva così alle soglie del conflitto atomico, ma ovviamente ci sarà un lieto fine.Se Wargames ha un intento fondamentalmente pacifista – la guerra è una cosa sporca, gli armamenti nucleari sono una follia, l'umanità può finire per un banale errore – molto più politica è invece la trama di Alba rossa, film del 1984 diretto da John Milius e ambientato nel 1989 durante un'immaginaria invasione degli Stati Uniti condotta dalle truppe sovietiche, cubane e nicaraguensi. A contrastarli, un gruppo di adolescenti rifugiatisi sulle montagne e divenuti una vera banda di resistenza anticomunista. Il «fascista zen» Milius non mancadi lanciare qualche stoccata all'Europa, dipingendola come imbelle e neutrale, staccatasi dagli Stati Uniti dopo aver abbandonato la Nato. Previsione in realtà piuttosto fallace: proprio il 1989, anno dell'invasione secondo il film, vedrà nella realtà la caduta del muro di Berlino e conseguentemente, nel giro di pochi anni, del comunismo sovietico. Il film ha avuto comunque un remake nel 2012 diretto da Dan Bradley, in cui un gruppo di adolescenti statunitensi combatte per salvare il proprio Paese dall'invasione di truppe nord coreane. È stato tuttavia un fiasco abbastanza clamoroso.Di notevole successo negli Usa fu The Day After, un film per la televisione diretto da Nicholas Meyer, messo in onda per la prima volta il 20 novembre 1983 sul circuito televisivo statunitense della Abc. Nella pellicola si narra di una guerra nucleare tra gli Stati Uniti e Unione Sovietica e del «giorno dopo», appunto, vissuto in alcune zone rurali dell'America. L'anno successivo, peraltro, la Gran Bretagna darà la sua versione del medesimo scenario in Ipotesi sopravvivenza, che immagina la cronaca del dopo bomba in Inghilterra. Decisamente didascalico il titolo di World War III, film per la tv di Boris Sagal e David Greene. Qui, di nuovo, Mosca decide un blitz inviando in Alaska un reparto di paracadutisti per impadronirsi di un oleodotto, dopo che Washington ha deciso un embargo contro l'Urss. Un nuovo conflitto globale è invece presente in forma di rischio che aleggia su tutta la vicenda in un film di ben più ampia popolarità: Caccia a ottobre rosso, diretto da John McTiernan, tratto dal romanzo La grande fuga dell'Ottobre Rosso di Tom Clancy, con un grande Sean Connery. Nel film, un avanguardistico sommergibile sovietico si dirige senza preavviso verso le coste americane. Ovvio il timore statunitense per un attacco. Seguono trattative febbrili, salvo scoprire che in realtà il capitano del sommergibile, Marko Ramius, interpretato da Connery, ha invece intenzione di disertare e arrendersi. Non prima di aver ucciso il commissario politico a bordo, che non avrebbe mai avallato un'operazione del genere. Il nome del fedelissimo alla linea anti occidentale? Ivan Yurevich Putin.
Trump blocca il petrolio del Venezuela. Domanda elettrica, una questione di sicurezza nazionale. Le strategie della Cina per l’Artico. Auto 2035, l’Ue annacqua ma ormai il danno è fatto.
Dinanzi a tale insipienza strategica, i popoli non rimangono impassibili. Già alla vigilia del vertice dei 27, Politico aveva pubblicato i risultati di un sondaggio, secondo il quale sia in Francia sia in Germania sono aumentati quelli che vorrebbero «ridurre significativamente» il sostegno monetario all’Ucraina. I tedeschi che chiedono tagli drastici sono il 32%, percentuale cui va sommato il 14% di quanti si accontenterebbero di una qualsiasi stretta. Totale: 46%. I transalpini stufi di sborsare, invece, sono il 37% del totale. Per la Bild, l’opinione pubblica di Berlino è ancora più netta sull’opportunità di continuare a inviare armi al fronte: il 58% risponde di no. Infine, una rilevazione di Rtl e Ntv ha appurato che il 75% dei cittadini boccia l’operato del cancelliere Friedrich Merz, principale fautore della poi scongiurata «rapina» dei fondi di Mosca. Non è un caso che, stando almeno alle ricostruzioni del Consiglio Ue proposte da Repubblica, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni abbiano motivato le proprie riserve sul piano con la difficoltà di far digerire ai Parlamenti nazionali, quindi agli elettori, una mozza così azzardata. Lo scollamento permanente dalla realtà che caratterizza l’operato della Commissione, a quanto pare, risponde alla filosofia esposta da Sergio Mattarella a proposito del riarmo a tappe forzate: è impopolare, ma è necessario.
La disputa sulle sovvenzioni a Zelensky - e speriamo siano a Zelensky, ovvero al bilancio del Paese aggredito, anziché ai cessi d’oro dei suoi oligarchi corrotti - ha comunque generato pure un’altra forma di divaricazione: quella tra i fatti e le rappresentazioni mediatiche.
I fatti sono questi: Ursula von der Leyen, spalleggiata da Merz, ha subìto l’ennesimo smacco; l’Unione ha ripiegato all’unanimità sugli eurobond, sebbene Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca siano state esentate dagli obblighi contributivi, perché abbandonare i lavori senza alcun accordo, oppure con un accordo a maggioranza qualificata, sarebbe stato drammatico; alla fine, l’Europa si è condannata all’ennesimo salasso. E la rappresentazione?
La Stampa ieri è partita per Plutone: titolava sulla «svolta» del debito comune, descritta addirittura come un «compromesso storico». Il corrispondente da Bruxelles, Marco Bresolin, in verità ha usato toni più sobri, sottolineando la «grande delusione» di chi avrebbe voluto «punire la Russia» e riconoscendo il successo del premier belga, Bart De Wever, ostile all’impiego degli asset; mentre l’inviato, Francesco Malfetano, dava atto alla Meloni di aver pianificato «la sua mossa più efficace». Sul Corriere, il fiasco di Merz si è trasformato in una «vittoria a metà». Repubblica ha borbottato per la «trappola» tesa dal cancelliere e a Ursula. Ma Andrea Bonanni, in un editoriale, ha lodato l’esito «non scontato» del Consiglio. L’Europa, ha scritto, «era chiamata a sostituirsi a Washington per consentire a Kiev di continuare la resistenza contro l’attacco russo. Lo ha fatto. Doveva trovare i soldi. Li ha trovati ricorrendo ancora una volta a un prestito comune, come fece al tempo dell’emergenza Covid». Un trionfo. Le memorie del regimetto pandemico avranno giocato un ruolo, nel convincere le firme di largo Fochetti che, «stavolta», l’Ue abbia «battuto un colpo».
Un colpo dev’essere venuto ai leader continentali. Costoro, compiuto il giro di boa, forse si convinceranno a smetterla di sabotare le trattative. Prova ne sia la sveglia di Macron, che ha avvisato gli omologhi: se fallisce la mediazione Usa, tocca agli europei aprire un canale con Vladimir Putin. Tutto sommato, avere gli asset in ostaggio può servire a scongiurare l’incubo dell’Ue: sparire di scena.
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
La soluzione del prestito dunque salva capra e cavoli, ovvero gli interessi di chi ritiene giusto dover alimentare con aiuti e armi la resistenza di Kiev e anche quelli di quanti temevano la reazione russa all’uso dei fondi. Una mediazione soddisfacente per tutti, dunque? Non esattamente, visto che la soluzione escogitata non è affatto gratis. Già: mentre i vertici della Ue si fanno i complimenti per aver raggiunto un’intesa, a non congratularsi dovrebbero essere i cittadini europei, perché l’accordo raggiunto non è gratis, ma graverà ancora una volta sulle tasche dei contribuenti. Lasciate perdere per un momento come e quando l’Ucraina sarà in grado di restituire il prestito che le verrà concesso. Se Kiev fosse un comune cittadino nessuna banca la finanzierebbe, perché agli occhi di qualsiasi istituto di credito non offrirebbe alcuna garanzia di restituzione del mutuo concesso. Per molti anni gli ucraini non saranno in grado di restituire ciò che ricevono. Dunque, i soldi che la Ue si prepara a erogare rischiano di essere a fondo perduto, cioè di non ritornare mai nelle tasche dei legittimi proprietari, cioè noi, perché il prestito non è garantito da Volodymyr Zelensky, in quanto il presidente ucraino non ha nulla da offrire in garanzia, ma dall’Europa, vale a dire da chi nel Vecchio continente paga le tasse.
Lasciate perdere che, con la corruzione che regna nel Paese, parte dei soldi che diamo a Kiev rischia di sparire nelle tasche di una serie di politici e burocrati avidi prima ancora di arrivare a destinazione. E cancelliamo pure dalla memoria le immagini dei cessi d’oro fatti installare dai collaboratori mano lesta del presidente ucraino: rubinetti, bidet, vasca e tutto il resto lo abbiamo pagato noi, con i nostri soldi. Il grande reset della realtà, per come si è fin qui palesata, tuttavia non può cancellare quello che ci aspetta.
Il prestito della Ue, come ogni finanziamento, non è gratis: quando voi fate il mutuo per la casa, oltre a rimborsare mese dopo mese parte del capitale, pagate gli interessi. Ma in questo caso il tasso non sarà a carico di chi riceve i soldi, come sempre capita, ma - udite, udite - di chi li garantisce, ovvero noi. Politico, sito indipendente, ha calcolato che ogni anno la Ue sarà costretta a sborsare circa 3 miliardi di interessi, non proprio noccioline. Chi pagherà? È ovvio: non sarà lo Spirito Santo, ma ancora noi. Dividendo la cifra per il numero di abitanti all’interno della Ue si capisce che ogni cittadino dovrà mettere mano al portafogli per 220 euro, neonati e minorenni inclusi. Se poi l’aliquota la si vuol applicare sopra una certa soglia di età, si arriva a 300.
Ecco, la pace sia con voi la pagheremo cara e probabilmente pagheremo cari anche i 90 miliardi concessi all’Ucraina, perché quasi certamente Kiev non li restituirà mai e toccherà a noi, intesi come Ue, farcene carico. Piccola noticina: com’è che, quando servivano soldi per rilanciare l’economia e i salari, Bruxelles era contraria e adesso, se c’è da far debito per sostenere l’Ucraina, invece è favorevole? Il mistero delle scelte Ue continua. Ma soprattutto, si capisce che alla base di ogni decisione, a differenza di ciò che ci hanno raccontato per anni, non ci sono motivazioni economiche, ma solo politiche.
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