2025-01-25
Uno studio sbugiarda le fole di Timmermans. Il rifiuto del green è solo colpa del green
Altro che trame della lobby fossile: una nuova ricerca scopre che i «negazionisti climatici» proliferano nei Paesi più ecologisti.Altro che trame oscure della lobby del fossile, altro che petrodollari, altro che bufale e disinformazione prezzolata. La verità è che se alla gente non va giù la transizione ecologica a tappe forzate, la colpa è solo della transizione ecologica a tappe forzate. Lo conferma un articolo appena pubblicato sulla rivista scientifica Plos One, firmato da due studiosi di Stanford.Le organizzazioni dei «negazionisti» del cambiamento climatico, scrivono Jared Furuta e Patricia Bromley, «hanno maggiore probabilità di svilupparsi in Paesi con più estese politiche statali e strutture orientate alla protezione dell’ambiente naturale». In parole povere: esagerare con il green porta i cittadini a detestare il green. Con buona pace di Frans Timmermans, già numero due della Commissione Ue. Il quotidiano olandese De Telegraaf la accusa di aver sovvenzionato le Ong verdi, affinché persuadessero gli eurodeputati ad appoggiare l’agenda ambientalista, cara all’ex vice di Ursula von der Leyen. E lui, adesso, prova a giustificarsi: «Le grandi aziende hanno un sacco di soldi, mentre le organizzazioni sociali no». Dunque, ci voleva un giustiziere in salsa Fridays for future per ripristinare il corretto equilibrio tra le risorse dei magnati dei combustibili tradizionali e quelle dei fautori delle rinnovabili. Con il denaro dei contribuenti europei, beninteso.Il punto è che i luminari degli Usa, esaminando il caso di 164 Paesi nel periodo 1990-2018, hanno scoperto che i peggiori nemici della sostenibilità sono gli ecotalebani: è dove ci si è spinti più in là con le riforme che è proliferato il cosiddetto «negazionismo climatico». Si vede che le persone sanno farsi i conti in tasca: tutti si accorgono subito di quanto costi il passaggio alle vetture a batteria, di quanti posti di lavoro si rischino di perdere nel settore auto, di quale stangata incomba sui proprietari delle case senza cappotto termico. Agli ambientalisti, invece, piace pensare che l’opposizione al grande balzo in avanti ambientalista origini da biechi interessi monetari: sarebbe la lobby delle fonti fossili ad avvelenare, oltre a fiumi, mari e terre, pure i pozzi del dibattito pubblico. Ma i cervelloni di Stanford hanno scoperto che il complotto dei magnati del petrolio e del gas non esiste. O meglio, non è dirimente. Se la gente ha in uggia le politiche green, il problema sono le politiche green. «L’attivismo» contro le norme ecologiste, si legge nel paper, «all’inizio può essere guidato da interessi industriali»; poi, però, trae linfa da «dinamiche reazionarie». Nel senso letterale di «reazione»: nulla a che vedere con l’estrema destra. Anzi, nelle tesi dei nemici dell’agenda verde, nota il pezzo, tornano diversi «ideali del liberalismo classico: per esempio, i mercati liberi, le libertà individuali e il loro ruolo nel realizzare società libere e prospere». Quisquilie che ai nuovi liberali, evidentemente, non servono più. Si intuisce come mai, a furia di tirare la corda, la corda si spezzi: mentre i catastrofisti pensano alla fine del mondo, alla gente tocca pensare alla fine del mese.«Come dimostra la nostra analisi», insistono i due studiosi, «i principali elementi predittivi dell’emersione di organizzazioni» ostili alle misure contro il cambiamento climatico riguardano «la forza degli impegni di un Paese verso la protezione dell’ambiente naturale (in particolare tramite l’adozione, da parte dello Stato, di strutture istituzionali e provvedimenti politici)». Questi «fattori culturali», che conducono al moltiplicarsi delle rimostranze e alla «identificazione di gruppo» tra i critici del green, «sono molto più importanti dei fattori che individuano interessi economici o politici» alla base dell’ecoscetticismo.Guarda un po’: a chi è costretto a vivere nel mondo vero, anziché dentro un’utopia, non la si fa proprio. È arduo indurre il popolo a credere che, se non vuole morire soffocato dall’anidride carbonica o sommerso dalle inondazioni, deve per forza ridursi sul lastrico. Mentre la Cina, la principale promotrice della transizione ecologica, fabbrica i nostri pannelli solari nelle sue centrali a carbone.Gli autori della ricerca concludono con un invito alla prudenza: è meglio valutare per tempo quali conseguenze indesiderate potrebbe provocare la concitata rincorsa al net zero. Inutile, dopo, prendersela con le torbide manovre della «grande industria». Al contrario, dovrebbe essere la lobby ambientalista a vedere la trave nel proprio occhio, prima della pagliuzza nell’occhio della lobby dei fossili. D’altronde - lo avrebbe potuto prevedere il saggio uscito su Plos One - l’idea di Timmermans si è risolta in un autogol: lui è stato preso a sberle dagli elettori; e il maoismo verde dell’Europa è ormai indigesto alla maggioranza. Destino simile a quello del woke: anziché renderci più propensi ad accettare la «diversità», ha innescato quella che Donald Trump chiama «rivoluzione del buon senso». Ed è un pizzico di buon senso che servirebbe per comprendere un’ovvietà: il troppo stroppia. Non è mai sostenibile.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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