2022-11-22
«Una mamma contro G.W. Bush», il dramma di Guantanamo al cinema
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La storia vera di Rabiye Kurnaz e del figlio Murat, arrestato in Pakistan e venduto agli americani per 3.000 dollari come responsabile degli attacchi dell'11 settembre 2001, è diventato un caso. Un fenomeno senza più confini, che l’Italia potrà trovare al cinema dal 24 novembre.A Berlino, il film è stato applaudito come una fra le rivelazioni dell’anno: un piccolo capolavoro, capace di raccontare una vicenda tragica con leggerezza e ironia. Il Festival del Cinema gli ha assegnato due dei suoi Orsi. Roma l’ha voluto in anteprima. Una mamma contro G. W. Bush, storia vera di Rabiye Kurnaz e del figlio Murat, è diventato un caso. Un fenomeno senza più confini, che l’Italia potrà trovare al cinema dal 24 novembre. Allora, il tempo sembrerà fermarsi e poi riavvolgersi. Non sarà più il 2022. Tornerà indietro l’orologio, al 2001, all’orrore delle Torri Gemelle, a un mondo paralizzato dalla paura, dalla necessità conseguente di dare un nome e un volto agli artefici di tanto male. Sarà il caos a ripresentarsi e, nel marasma, il calvario di un diciannovenne. Murat, figlio di una casalinga turco-tedesca, di una Brema ordinata, con le sue villette a schiera, è stato accusato di terrorismo. Un volo per il Pakistan, destinazione Karachi, l’intenzione di studiare l’Islam lo hanno reso colpevole. Tre mesi dopo l’11 settembre, le autorità pakistane lo hanno fermato e venduto alle truppe Usa per tremila dollari. Gli Stati Uniti ne hanno fatto un proprio prigioniero. Lo hanno portato a Cuba, Guantanamo Bay. Era il dicembre 2001, e Rabiye Kurnaz del figlio non ha più saputo nulla. Se lo sono tenuto cinque anni, gli americani: cinque anni in cui la donna, supportata dall’avvocato per i diritti umani Bernhard Docke, ha tentato tutto, ivi compreso trascinare in tribunale l’allora presidente George W. Bush. Rabiye Kurnaz, interpretata con una grazia sorprendente da Meltem Kaptan, negli anni di detenzione del figlio si è trasformata, non più casalinga ma guerriera. Ha sacrificato la propria vita privata, ha lasciato la sua casetta di Brema e i due figli, si è allontanata dal marito. È partita, forte solo della propria determinazione, di un istinto animale che ogni madre – in cuor suo – sa di possedere. E, nel 2006, davanti alla Corte Suprema, ha portato a termine la propria missione, ottenendo che il figlio – torturato per l’intera durata della sua detenzione – venisse liberato. Andreas Dresen, regista tedesco, non indugia allora sulla retorica. Ricorda, certo, che a vent’anni da quegli arresti altre venti persone rimangono a Guantanamo in attesa di giudizio. Ma si interrompe, si ferma. Non politicizza il proprio film, non più di quanto la vicenda richieda. Andreas Dresen si limita a ripercorrere con un tono magnifico una vicenda tremenda. La rende più sopportabile, a tratti, ricerca nell’orrore un bagliore di luce, qualcosa di cui ridere. Gli riesce, e gli riesce bene. Una mamma contro G. W. Bush è capace di tener fede ai toni della commedia, nera, politica, ma divertita e divertente.
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