
È nato a Milano un servizio per aiutare gli «eroinomani del Web» a non passare la notte navigando. La psicoterapeuta Maria Rosaria Montemurro: «Mai connessi più di tre ore. Il telefonino ai bimbi? Io lo darei a 18 anni».Secondo l'ultimo rapporto Agi-Censis, la maggior parte degli utenti Internet resta online la sera fino a pochi istanti prima di addormentarsi (78 per cento) e si riconnette appena sveglia al mattino (63 per cento). Di questi, il 62 per cento utilizza i dispositivi a letto (tra gli adolescenti, si arriva all'80 per cento) e il 34 per cento a tavola (dato che sale a 50 nel caso dei più giovani). Il 23 per cento degli internauti, siano essi davanti a uno smartphone o allo schermo di un computer, ha spesso la sensazione di essere dipendente dalla rete: il 12 per cento dichiara di vivere nell'ansia che la connessione possa venire a mancare. Per l'11 per cento, inoltre, l'attività online è fonte di conflitti con i familiari.In un simile scenario, un mese fa è nato a Milano il primo pronto soccorso in Italia dedicato ai tossicomani del web. Si chiama Digital life coaching, un servizio rivolto a tutte le fasce di età messo a disposizione da Cerba healthcare, multinazionale francese nel settore della diagnostica ambulatoriale, con focus particolare sui giovani della Generazione Z. «Per ora siamo attivi con il progetto in Lombardia e Piemonte, con 25 sedi tra Milano e Novara», spiega Stefano Massaro, amministratore delegato di Cerba Italia. «Sono stati i nostri psicologi, trattando i pazienti, a rendersi conto di quanto il problema fosse diffuso. L'idea è quella di comunicare un messaggio chiaro affinché le persone, nel leggere una definizione che identifichi il disturbo che li affligge, possano cercare aiuto».Ad avvalorare la tesi di Massaro è Maria Rosaria Montemurro, 39 anni, psicoterapeuta familiare: «Si parlava di Internet addiction disorder (Iad) già nel 1995», osserva il medico, «ma fino a oggi non esistevano, nel nostro Paese, centri di prossimità attrezzati per affrontare le patologie legate all'abuso di Internet».Dottoressa, come si individua un dipendente digitale?«È un profilo individuabile con una certa facilità in quanto, spesso, si accompagna a un ritiro sociale con patologie insorgenti ben precise».Per esempio?«Il vamping, pratica assai diffusa tra gli adolescenti, che consiste nel passare la notte su Internet assumendo un bioritmo di tipo vampiresco. Da qui il nome».Che cosa fa un adolescente tutta la notte su Internet?«Crea delle cyber community chattando con amici virtuali che, il più delle volte, non conosce nella vita reale. Molti si ritirano nei videogiochi online. Se, con il vamping, si manifesta una ribellione dell'adolescente alle regole nelle ore notturne, quando i genitori non possono controllarlo, il problema assume tratti più seri quando il ritiro sociale si estende all'intera giornata».Quali sono le conseguenze di tali condotte?«Possono essere svariate: un discontrollo degli impulsi, ansia, rabbia, depressione. Pensiamo al caso di quel ragazzo di Torino che si è buttato dalla finestra perché la madre gli aveva tolto la tastiera del pc. Di fondo, c'è una grande solitudine».Un altro disturbo diffuso?«Il cosiddetto fomo, acronimo di fear of missing out: la paura di essere esclusi. Si sviluppa sui social network, totem di un'epoca liquida in cui i rapporti, dal mondo reale, si sono trasferiti ormai a quello virtuale».Oggi, gli smartphone forniscono un resoconto giornaliero del tempo trascorso sulle app. Esiste un numero di ore considerabile sano?«Direi non più di tre. Se pensiamo al tempo che un individuo, adolescente o adulto, ha a disposizione nell'arco della giornata (tra scuola e lavoro), vediamo come, una volta espletati i rispettivi compiti, tre ore siano più che sufficienti se si vuole concedere del tempo a sé stessi, agli amici o alla famiglia».Quali sintomi sono associati a un abuso della rete?«L'incapacità di svolgere i propri compiti, di prendere decisioni. Si verifica un calo sensibile dell'attenzione, non si è più focalizzati. Questo l'aspetto cognitivo. A livello fisico, insorgono disturbi come emicrania, mal di schiena, sudorazione».Addirittura?«Pensi allo stato di forte agitazione in cui certi individui piombano quando sono lontani dal cellulare. In gergo tecnico, si chiama nomophobia: no mobile phobia».Questo è un sentimento che accomuna un numero elevatissimo di persone. Forse anche lei. Il solo pensiero di poter perdere il cellulare è causa di delirium tremens.«Certo. Ma immaginiamo anche solo di trovarci a metà giornata con la batteria al 20 per cento non avendo dietro il caricabatterie. È subito ansia. La patologia subentra quando questa sensazione supera una certa soglia».Qual è l'età media in cui un ragazzo riceve in regalo il cellulare?«Bella domanda. Purtroppo, in un contesto sociale in cui il cellulare diventa uno status symbol, i genitori non vogliono che il proprio figlio sia inferiore agli altri. Ci sono bambini che alle elementari possiedono già lo smartphone. Qui si vede l'importanza degli stili educativi».Un'età ideale in cui dotare un figlio del telefonino quale sarebbe?«Studi recenti hanno dimostrato che, fino a 25 anni, il cervello è in costante evoluzione. Ovviamente, pensare di restare sprovvisti di cellulare fino a quell'età è una follia. Salvaguarderei almeno le elementari. Consideri, però, che i soggetti più dipendenti sono i ragazzi tra i 12 e i 15 anni. In Italia, sono 300.000».Che disturbi manifestano?«Privazione del sonno».L'incremento delle malattie digitali ha qualcosa a che vedere con la presenza di smartphone e tablet fin dai primi anni di vita?«Ha centrato la questione. Il bambino si adatta con estrema velocità agli strumenti ricevuti fin dalla tenera età. Ecco perché la domanda che un genitore dovrebbe porsi è: sono un buon digital role model? Se dico a mio figlio di usare poco il telefonino e poi rispondo ai messaggi mentre sono a tavola, che esempio sto dando?».Finora quanti casi ha trattato?«Siamo nell'ordine delle centinaia. Tanti pazienti non sono consapevoli. Penso al phubbing (phone snubbing): snobbare una persona con la quale si è usciti per chattare, o per postare la foto del piatto su Instagram».Non crede che, nell'èra 2.0, la dipendenza da Internet abbia dato vita a piccole patologie talmente diffuse da essere socialmente accettate?«Assolutamente. Ma c'è una sottile linea di confine che dipende dalla vulnerabilità di ciascuno di noi».Tra gli adulti, qual è la compulsione più comune?«Information overload addiction: una ricerca continua di informazioni che porta a vagare famelicamente da un sito all'altro. Ciò è dovuto spesso a un latente senso di inferiorità».Si rivolgono a lei spontaneamente?«Il più delle volte, sì. Si accorgono di non riuscire a dare il massimo al lavoro, hanno problemi di assenteismo; alcuni si dànno malati dopo avere passato la notte in rete. Altri hanno incidenti sul lavoro: pensi a un mulettista con forti cali d'attenzione».Nel caso dei minori, invece?«Arrivano accompagnati dai genitori. In tal caso, prendiamo in carico tutta la famiglia. E spesso scopriamo che i primi dipendenti digitali sono mamma e papà».Senta, mi spiega cos'è il narcisismo digitale?«Il narcisismo è un disturbo della personalità citato nel Manuale diagnostico delle sintomatologie. Nel digitale, si esprime attraverso la ricerca di un sé idealizzato, manifestato enfatizzando gli aspetti migliori e nascondendo le debolezze».Sembra la descrizione dell'influencer.«Se scrive che ho detto una cosa del genere, poi mi chiamano i Ferragnez (ride). È vero, l'influencer esaspera determinati aspetti, per esempio il mostrarsi come se fosse sempre in vacanza. La differenza, però, è che il suo narcisismo è veicolato in una professione che genera un guadagno».Per uno che guadagna, ce ne sono 1.000 che vorrebbero ma non possono.«Qui si entra in un discorso su modelli di riferimento ed emulazione. In questo senso, non vedo la differenza tra un'influencer e una modella taglia 36. Tutto può essere imitato e distorto. Non vogliamo demonizzare Internet, bensì educare a un suo utilizzo equilibrato».In che modo?«Con un programma di digital detox. Gli smartphone hanno queste notifiche che pulsano. Si può cominciare a ridurle e a impostare il display sulle scale del grigio, per esempio. La scelta del rosso e del blu per le app non è casuale: sono colori attivanti che mettono in allerta il cervello spingendolo al controllo. Sarebbe inoltre opportuno rimuovere le applicazioni più utilizzate dalla home page. Un dipendente digitale è come un eroinomane».E il suo metadone qual è?«Il tempo. Per questo consigliamo di mettere una sveglia, inizialmente ogni 15 minuti, impegnandosi a non controllare il cellulare fino a che non suonerà. Le assicuro che, per chi ha il refresh facile, un quarto d'ora può sembrare un'eternità».Mi dica la verità: quanti danni ha prodotto la doppia spunta blu su Whatsapp?«Infiniti. Perché attiva la mania di controllo e al contempo l'ansia di essere controllati. “Ha visualizzato e non ha risposto": una frase in grado di minare qualsiasi rapporto di coppia».Tanto che alcuni la disattivano.«Sono quelli che sentono il carico di frustrazione più elevato. È un istinto di autoconservazione».In questo grande ragionamento, l'autostima che ruolo gioca?«È fondamentale. Moltissimi disturbi nascono da lì. Perché quando viene a mancare l'autostima, si comincia a dipendere dagli altri».Lei ha figli?«Un maschietto di un anno e mezzo».A che età gli metterà in mano il cellulare?«Le direi 18 anni, ma non sarei credibile. La invito a cercare su Youtube: “Bambina di un anno con iPad". Troverà un video che mi ha colpito tantissimo. Mostra una bimba con in mano un tablet: con le ditine allarga le immagini, le restringe… A un certo punto, i genitori le dànno una rivista. La piccola si spazientisce perché quando muove le dita sulle foto, queste non si allargano. Per lei, un giornale è un iPad rotto».
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