
Ci sono esordienti e politici di lungo corso, giovani energici e grandi anziani. Poi, slancio patriottico e vena cattolica: una parte del Paese ritrova la voce.Un guerriero antico. Mantiene lo sguardo basso mentre attraversa il Salone delle Feste in abito blu, con una cravatta arancione uscita da chissà quale armadio, 25 anni dopo aver mosso gli stessi passi da ministro del governo di Carlo Azeglio Ciampi. Poi inforca gli occhiali per leggere la formula del giuramento. In quell'istante, mentre Paolo Savona - 82 anni e un prestigio mondiale che nessuno fra quelle mura può neppure sognarsi - scandisce le prime parole, su tutto il Quirinale scende il silenzio. È il momento chiave, quello in cui un raffinato economista scambiato per barbaro supremo da una querula claque mediatica, si trova di fronte al suo detrattore numero uno, il capo dello Stato. «Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi, e di esercitare le mie funzioni nell'interesse esclusivo della nazione». Mette il punto, poi Savona alza lo sguardo e lo pianta per un lungo attimo in quello di Sergio Mattarella, come a volergli dire: non ci sei riuscito, ci sono anch'io. Il presidente ha fatto di tutto per non avere l'augusto professore fra i piedi, esattamente come Oscar Luigi Scalfaro con Gianfranco Miglio nel 1994, indicato ministro delle Riforme nel primo governo Berlusconi per gettare le basi del federalismo. Allora lo scontro non avvenne perché il Cavaliere, pur di far partire il suo esecutivo, convinse Umberto Bossi a rimuovere l'ostacolo. Questa volta l'indesiderato è qui ed è ingombrante; lo hanno semplicemente spostato all'ala e il padrone di casa (resosi conto che Carlo Cottarelli non avrebbe avuto voti neppure dalla zia) deve farselo andare bene. L'istante dello sguardo è lunghissimo, come una nota musicale tirata all'infinito. Poi Mattarella si ricorda d'essere un democristiano di lungo corso, uomo avvezzo al nobile compromesso della sacrestia. «Siamo qui provvisori», pensa come il curato davanti a un impiccio. E stringe a lungo la mano dell'altro, anzi la prende proprio in ostaggio, sorridendo mellifluo a colui che fino all'altroieri era un appestato. Tutto a posto, il presidente la sa lunga: prima ha creato il problema, poi si è intestato la soluzione.A parte l'istante degno di un verso di Omero, il giuramento della squadra di Giuseppe Conte somiglia a una cerimonia di laurea con l'allegria del luna park soprattutto in Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Il primo è prigioniero di una giacca un po' stretta (ma con lo stress istituzionale il girovita si asciugherà), il secondo è incapace di trattenere l'entusiasmo di chi tutto si sarebbe aspettato tranne che di essere lì, un giorno. Nell'area destinata ai parenti ci sono mamma e papà, commossi e partecipi. Lui li guarda e ride aperto, come un bambino nella casetta del Lego; chissà se ha già realizzato che il suo ministero ne accorpa tre e che dovrà occuparsi insieme di legge Fornero da abbattere, di Ilva da convertire o chiudere, di reddito di cittadinanza, di Jobs act, di trattative sindacali con Susanna Camusso. Neanche con Ronald Reagan (parlando di statisti) come sottosegretario riuscirebbe a uscirne vivo. I 18 ministri sfilano composti e semisconosciuti come il premier Giuseppe Conte, che si limita a fare tappezzeria con educata discrezione. Il governo del cambiamento parte da volti che non hanno le rughe da terrazza romana, non mostrano segni di atavica stanchezza. C'è entusiasmo fra gli arazzi e i lampadari. E ci sono cinque signore dai profili inediti. L'unica a indossare la gonna è Erika Stefani (ministro per gli Affari regionali, Lega), le altre quattro hanno scelto il pantalone largo da cocktail con Francis Scott Fitzgerald. Si devono accontentare di Mattarella, ieratico e a proprio agio sempre, anche dopo un periodo infame: 88 giorni di balletto, cinque incarichi (Maria Elisabetta Casellati, Roberto Fico, Giuseppe Conte, Carlo Cottarelli, Giuseppe Conte), una minaccia di impeachment, un nemico in casa che lo guarda fisso.Nell'acquario del Quirinale nuotano i pesci più disparati. C'è Giulia Bongiorno, divina dai tempi del processo Andreotti, che al momento della firma non sa dove apporla e viene indirizzata col dito dal capo dello Stato. C'è Sergio Costa, pupillo di Di Maio perché scoperchiò le porcherie ambientali nella Terra dei fuochi fra Napoli e Caserta; poiché è generale dei carabinieri, batte i tacchi davanti al presidente anche in borghese. C'è Barbara Lezzi, bella signora che prima di essere ministro per il Sud («Vaste programme», direbbe Charles De Gaulle) faceva l'impiegata a Lecce ed ebbe qualche grana col movimento per via di 3.000 euro non rimborsati su un totale di 160.000 («per negligenza»). C'è Marco Bussetti, professore universitario all'Istruzione voluto da Salvini per far dimenticare le uscite naif della nonna del Corsaro nero Valeria Fedeli. C'è Riccardo Fraccaro, che firma con la sinistra l'incarico ufficiale per andare a tagliare i vitalizi. Avrà lui il ministero dei Rapporti col Parlamento e difficilmente troverà un addetto stampa: l'ultima volta che ne ha cercato uno voleva pagarlo tre euro all'ora.Il più emozionato di tutti è il leghista veronese Lorenzo Fontana, il supercattolico sul Carroccio, che dovrà occuparsi di Famiglia e Disabilità e ha già fatto capire di non voler accettare derive scientiste contro la vita. «Dovremo lavorare per arginare la deriva nichilista dell'Europa», ha detto ai microfoni salendo al Colle e ricordando il sacrificio del piccolo Alfie Evans. Il più disinvolto è Alfonso Bonafede, braccio destro di Di Maio, l'uomo dei mille distinguo, che davanti alla macchinetta del caffè potrebbe convincere Emanuele Fiano a cantare Faccetta nera. Prima di diventare ministro della Giustizia, i grillini lo chiamavano ministro dell'Armonia perché non c'è contenzioso che non riesca a risolvere. Ha la serenità di chi non deve sbarcare il lunario perché, a differenza di molti suoi colleghi di partito, vanta un reddito da professionista di prima fila: 186.000 euro. Quando sfilano compiti (e per niente barricadieri) Gian Marco Centinaio, ministro dell'Agricoltura con l'hobby del motociclismo; Giovanni Tria, ministro dell'Economia che invece dell'Italia vorrebbe far uscire la Germania dall'euro, il governo è compiuto. È giovane, entusiasta, corrisponde alla fotografia del voto del 4 marzo, quindi è pienamente legittimato dagli italiani. Per ultimo esce dal salone Enzo Moavero, un altro che questi corridoi li conosce bene, essendo stato ministro con Mario Monti ed Enrico Letta. A Bruxelles lo conoscono tutti e non per le spacconate assortite, ma perché si mise di traverso ad Angela Merkel quando la kanzlerin si opponeva allo scudo antispread. E vinse.C'è un curioso motivo per il quale si può affermare che il governo parte bene: otto dei 18 ministri non hanno alcun account ai social network. Significa che a differenza dei webmaster renziani sempre connessi, a questi non importa nulla degli sproloqui che agitano la rete. I simpatici barbari al governo sono nuovi, alcuni sono politicamente imberbi, e per loro sarà dura; un'alleanza fra alternativi tenuti insieme da un contratto è un azzardo da casinò della politica. In più i media sono tutti allegramente all'opposizione con una forte acidità di stomaco. Giulia Grillo, ministro della Sanità, trovi un rimedio. Anche omeopatico.
Andy Mann for Stefano Ricci
Così la famiglia Ricci difende le proprie creazioni della linea Sr Explorer, presentata al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, concepita in Patagonia. «Più preserveremo le nostre radici, meglio costruiremo un futuro luminoso».
Il viaggio come identità, la natura come maestra, Firenze come luogo d’origine e di ritorno. È attorno a queste coordinate che si sviluppa il nuovo capitolo di Sr Explorer, il progetto firmato da Stefano Ricci. Questa volta, l’ottava, è stato presentato al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, nata tra la Patagonia e la Terra del Fuoco, terre estreme che hanno guidato una riflessione sull’uomo, sulla natura e sul suo fragile equilibrio. «Guardo al futuro e vedo nuovi orizzonti da esplorare, nuovi territori e un grande desiderio di vivere circondato dalla bellezza», afferma Ricci, introducendo il progetto. «Oggi non vi parlo nel mio ruolo di designer, ma con lo spirito di un esploratore. Come un grande viaggiatore che ha raggiunto luoghi remoti del Pianeta, semplicemente perché i miei obiettivi iniziavano dove altri vedevano dei limiti».
Aimo Moroni e Massimiliano Alajmo
Ultima puntata sulla vita del grande chef, toscano di nascita ma milanese d’adozione. Frequentando i mercati generali impara a distinguere a occhio e tatto gli ingredienti di qualità. E trova l’amore con una partita a carte.
Riprendiamo con la seconda e conclusiva puntata sulla vita di Aimo Moroni. Cesare era un cuoco di origine napoletana che aveva vissuto per alcuni anni all’estero. Si era presentato alla cucina del Carminati con una valigia che, all’interno, aveva ben allineati i ferri del mestiere, coltelli e lame.
Davanti agli occhi curiosi dei due ragazzini l’esordio senza discussioni: «Guai a voi se me li toccate». In realtà una ruvidezza solo di apparenza, in breve capì che Aimo e Gialindo avevano solo il desiderio di apprendere da lui la professione con cui volevano realizzare i propri sogni. Casa sua divenne il laboratorio dove insegnò loro i piccoli segreti di una vita, mettendoli poi alla prova nel realizzare i piatti con la promozione o bocciatura conseguente.
Alessandra Coppola ripercorre la scia di sangue della banda neonazi Ludwig: fanatismo, esoterismo, violenza e una rete oscura che il suo libro Il fuoco nero porta finalmente alla luce.
La premier nipponica vara una manovra da 135 miliardi di dollari Rendimenti sui bond al top da 20 anni: rischio calo della liquidità.
Big in Japan, cantavano gli Alphaville nel 1984. Anni ruggenti per l’ex impero del Sol Levante. Il boom economico nipponico aveva conquistato il mondo con le sue esportazioni e la sua tecnologia. I giapponesi, sconfitti dall’atomica americana, si erano presi la rivincita ed erano arrivati a comprare i grattacieli di Manhattan. Nel 1990 ci fu il top dell’indice Nikkei: da lì in poi è iniziata la «Tokyo decadence». La globalizzazione stava favorendo la Cina, per cui la nuova arma giapponese non era più l’industria ma la finanza. Basso costo del denaro e tanto debito, con una banca centrale sovranista e amica dei governi, hanno spinto i samurai e non solo a comprarsi il mondo.





