2025-04-26
L’Europa intralcia la pace di Trump in Crimea
Steve Witkoff e Vladimir Putin (Ansa)
Usa pronti a dare la penisola a Mosca, i «volenterosi» si oppongono. Persino il sindaco della capitale ucraina evoca la cessione. Il tycoon: «Zelensky capisce, oggi potrei parlarci». Witkoff da Putin: «Siamo più vicini».«La Crimea rimarrà alla Russia. E Zelensky lo capisce». Lo capirebbe l’intero Occidente, se avesse il senso della realtà di Donald Trump. È già così dal 2014. Da quando i governi del «mondo libero», nascondendosi dietro la foglia di fico delle sanzioni, trangugiarono serenamente l’occupazione russa della penisola e continuarono a fare affari con Vladimir Putin. «Penso che la pace» con lui «sia possibile», ha aggiunto il presidente americano nell’intervista rilasciata a Time, in occasione dei suoi primi 100 giorni di mandato. Per poi ribadire che è lui il solo uomo al mondo in grado di fermare lo zar: «Penso che preferirebbe andare a prendersi tutto. E credo di essere l’unico in grado di far negoziare questa cosa».Il riconoscimento de iure dell’annessione della Crimea alla Federazione sarebbe, in effetti, il punto di partenza del piano di pace proposto dagli Stati Uniti. Lo ha svelato ieri Reuters, che ha consultato il documento consegnato ai rappresentanti europei a Parigi, lo scorso 17 aprile. Washington, inoltre, non contesterebbe il controllo di fatto delle altre aree occupate dai russi e si impegnerebbe a revocare gli embarghi a Mosca. In cambio, l’Ucraina godrebbe di una «solida garanzia di sicurezza» dai suoi alleati; qui, probabilmente, giocherebbero un ruolo chiave i «volenterosi», capitanati da Francia e Regno Unito, con la collaborazione dei tedeschi. Il Paese invaso, ça va sans dire, equipara uno scenario del genere a una resa, vieppiù intollerabile dopo tre anni di sacrifici in trincea. Un’ecatombe che la postura bellicista dell’Europa ha contribuito a foraggiare. E infatti, sempre stando al resoconto dell’agenzia Usa, dal Vecchio continente sarebbe arrivata, il 23 aprile a Londra, una proposta differente, condivisa con l’entourage di Volodymyr Zelensky: rinviare la trattativa sui territori, incassando prima un cessate il fuoco e promettendo «un graduale allentamento delle sanzioni dopo che sarà raggiunta una pace sostenibile». Anche sulle garanzie di sicurezza, la via europea suggerisce intese più vincolanti, che coinvolgano gli Stati Uniti, nel quadro di un «accordo tipo articolo 5» del Trattato Nato. Senza limitazioni per le capacità militari dell’Ucraina e restrizioni al dispiegamento, entro i suoi confini, di truppe occidentali. Si registrano attriti, infine, in materia di riparazioni economiche: gli europei vogliono finanziarle con gli asset russi congelati, gli americani restano generici.L’Europa, dunque, insiste nel disseminare ostacoli lungo il già impervio cammino di Trump. E non è chiaro con quale mandato politico - quello di The Donald è cristallino: proviene dagli elettori.Peraltro, la paternità di certe iniziative non spetta a Bruxelles, bensì a Emmanuel Macron e Keir Starmer, premier di un Paese che non fa nemmeno più parte dell’Unione. Al progetto si è unita Berlino, che insiste a evocare una imprecisata «pace giusta», mentre i cristiano-democratici del futuro cancelliere, Friedrich Merz, addirittura blaterano dell’utilizzo dei loro Taurus per bombardare il ponte di Kerch, tra Russia e Crimea. Ma la Commissione e soprattutto l’Eurocamera non hanno mai ufficialmente conferito al presidente transalpino e al leader teutonico il compito di portare avanti un percorso diplomatico alternativo a quello di Trump. Peraltro, nella stessa Ucraina monta l’insofferenza verso i combattimenti a oltranza.Ad esempio, il sindaco di Kiev, Vitaly Klitschko, in un’intervista alla Bbc ha discusso della possibilità di uno smembramento della nazione: «Uno degli scenari sarebbe quello di abbandonare i territori. È ingiusto», ha precisato, «ma per la pace, una pace temporanea, forse è una soluzione, temporanea». Una «soluzione dolorosa», fermo restando che l’Ucraina «non accetterà mai un’occupazione» russa permanente. Meno di quanto pretendono Cremlino e Casa Bianca, più di quanto si mostra propenso ad accordare Zelensky, che Klitschko ha spesso contestato. Non a caso, il consigliere del presidente in tuta mimetica, Serhiy Leshchenko, ha respinto in quanto «controproducente» il consiglio dell’ex pugile, che poi ha voluto specificare di «non aver detto nulla di nuovo». Invece, è significativo che certe parole arrivino dal primo cittadino di una capitale reduce da un tragico bombardamento nemico. Il vero guaio è che la controfferta europea sarebbe inaccettabile per Putin: è una riedizione del trucchetto di Minsk, con cui si permetterebbe agli ucraini di riprendere fiato e prepararsi a un ulteriore confronto sul terreno. All’opposto, per quanto levantini, farabutti e violenti, i dirigenti russi hanno ripetuto più volte di voler affrontare alla radice le cause del conflitto.È per questo che, ieri, Steve Witkoff, l’inviato di Trump, si è recato di nuovo a Mosca dallo zar. Il colloquio è durato tre ore - un’ora e mezza in meno del precedente - e il consigliere per la politica estera del Cremlino, Yuri Ushakov, l’ha descritto come «costruttivo», poiché «ha permesso di avvicinare ulteriormente le posizioni della Russia e degli Usa non solo sull’Ucraina, ma anche su una serie di altre questioni internazionali».Ben più fumosa è l’ipotesi che oggi, a Roma, il tycoon si parli con Zelensky: per il primo, un bilaterale è «possibile», auspicabilmente non nel formato disastroso dello Studio ovale; il secondo, però, all’improvviso ha messo in dubbio la sua presenza alle esequie del Papa. «La nostra posizione è invariata», ha commentato. «La Costituzione ucraina stabilisce che tutti i territori temporaneamente occupati», Crimea compresa, «appartengono all’Ucraina». Il «nuovo Churchill» forse non «capisce» davvero; nondimeno, concorda con Washington sul fatto che riprendersela con la forza è impossibile. Rimane il sospetto che Putin reciti. Che la tiri per le lunghe e si predisponga a sferrare potenti offensive. Dopo varie manifestazioni di insofferenza, The Donald ha messo in chiaro che non c’è «nessuna scadenza» per un accordo di pace. «Voglio solo farlo il più velocemente possibile», ha insistito, «per poter salvare 5.000 persone a settimana», «5.000 giovani uomini ucraini e russi». Stavolta, quel «bravo cristiano» di Francesco, come lo ha definito Trump ieri, sarebbe d’accordo.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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