Luca Zaia, governatore del Veneto, sull’autonomia il governo Meloni sta facendo bene o siamo ancora ai preliminari?
«Il referendum si è fatto il 22 ottobre 2017. Da allora ho visto cinque governi. Oggettivamente, a oggi, questo in due mesi e mezzo ha fatto più degli altri messi insieme. Per la prima volta nella storia, un articolo in manovra finanziaria, il 143 bis, prevede l’obbligo di definire i Lep. Un passaggio fondamentale, affrontato energicamente e tonicamente. Poi il ministro Calderoli ha depositato al legislativo di Palazzo Chigi la legge di attuazione».
Ma l’autonomia resta lontana.
«Chi è contro l’autonomia è contro la Costituzione. Bisogna essere coerenti: è inutile invocare la “Costituzione più bella del mondo” a ogni piè sospinto e dimenticarla nei passaggi sgraditi. L’autonomia non è un’invenzione dell’ufficio studi della Lega, è scritta nella Carta costituzionale».
Il percorso incontrerà ostacoli?
«Ho fiducia in questo governo, l’autonomia è nel programma, le forze politiche della maggioranza sono quelle che hanno sostenuto i referendum, quindi c’è una coerenza che riconosco all’esecutivo e al presidente del Consiglio Meloni. Aggiungo che l’autonomia prima o poi arriva. Ed è meglio farla per scelta che per necessità».
Si spieghi.
«I paesi più moderni dell’Occidente sono federali e sono quelli che attraggono i nostri giovani. Se non si dà l’autonomia, che sarà la vera assunzione di responsabilità e il vero antidoto alla mala gestio, l’Italia porterà i libri in tribunale».
La accusano di volere minare l’unità nazionale.
«Non mi risulta che la Germania sia una nazione minata. E così Gran Bretagna, Svizzera, Stati Uniti. Finiamola con questa farsa».
Chi critica l’autonomia lo fa per preconcetto o nel merito?
«L’autonomia non è una partita del Nord, ma di modernità. Le visioni dei Padri costituenti erano molto più innovative di qualche politico contemporaneo».
Lei cita spesso Luigi Einaudi: «A ognuno dovremmo dare l’autonomia che gli spetta».
«Cito anche il siciliano don Sturzo, che nel ’49 diceva: “Sono unitario ma federalista impenitente”. O i padri di questo paese non avevano capito nulla, oppure dobbiamo guardare in faccia la realtà».
Don Sturzo parla di federalismo, non di autonomia.
«Ma la nostra autonomia è il federalismo. Non c’è nessuna secessione, chi ancora ne parla dice boiate. Nord e Sud sono legati come gemelli siamesi, la vita dell’uno è la vita dell’altro, e purtroppo anche la morte. Chi dice che abbiamo interesse che il Sud vada a remengo non ha capito nulla. E se il paese è a due velocità non è certo colpa dell’autonomia, ma del centralismo che non ha funzionato».
È stato difficile convincere Giorgia Meloni, capo di un partito nazionalista?
«Assolutamente no. È una sfida comune a tutti noi. La presidente del Consiglio non può che portare avanti questa partita essendo nel programma del governo. E poi la nazione, come si preferisce dire oggi, viene messa in sicurezza da un progetto federalista».
I tempi quali saranno?
«Calderoli dice che i primi provvedimenti solidi arriveranno all’inizio del 2024. L’importante è andare avanti. Ora tocca ai Lep».
I livelli essenziali di prestazioni.
«Finalmente c’è l’obbligo di definirli e spero si faccia prima del previsto. Spero anche che l’applicazione diventi obbligatoria per tutti».
C’è chi vuole scansarli?
«È come al poker: voglio vedere le carte. Voglio capire quali livelli di prestazioni sono forniti dalle regioni, quanti soldi prendono, e se questi soldi sono davvero commisurati alle prestazioni offerte. Andiamo a vedere i dati. E una volta fatti, i Lep vanno applicati: che non si faccia all’italiana come al solito».
È ipotizzabile raggiungere il nuovo assetto entro la legislatura?
«Bè, se non accadesse sarebbe un fallimento. Noi abbiamo fatto tutti i compiti per casa, abbiamo delegazioni trattanti piene di esperti, non c’è altro da studiare sul tema».
La riforma presidenzialista può rallentare l’iter dell’autonomia?
«Non vedo problemi, anche perché i tempi sono diversi. Il presidenzialismo richiede una modifica della Costituzione, l’autonomia no. Non abbiamo alibi a realizzarla entro la legislatura. Se non si fa vorrà dire che non c’è stata la volontà politica di farla».
Sarebbe quindi un fallimento del centrodestra.
«Sì. Però sottolineo che sono molto fiducioso. Non ho motivo di pensare che non accada».
Com’è il rapporto con il governo Meloni?
«Per ora ottimo. Non ho mai avuto rapporti conflittuali con i governi che ho conosciuto, e sono governatore dall’aprile 2010. Questo governo è in carica da tre mesi: se il buon giorno si vede dal mattino, è un buon giorno».
Lei ha avuto un ottimo rapporto anche con il governo Draghi. Si diceva fosse il più draghiano dei governatori leghisti.
«Io ho sempre difeso le ragioni del Veneto con chiunque. La stagione del presidente Draghi è stata quella di un personaggio di altissimo livello internazionale che ora si è chiusa. Adesso c’è un governo eletto dal popolo, con un’indicazione chiara dell’elettorato. Purtroppo in questo paese se i voti li prende il centrodestra si grida alla mancanza di democrazia, se li prende il centrosinistra tutti a far festa».
Ora il centrosinistra ha i suoi problemi, o no?
«Una grande forza politica al governo deve avere anche una grande forza di minoranza: lo dice uno che ha sempre gestito maggioranze. Quando avevo un’opposizione debole mi sono sempre preoccupato per il rischio che l’opposizione ti parta all’interno».
Il Veneto oltre all’autonomia che cosa chiede a questo governo?
«Le partite della modernità: infrastrutture, sanità, sociale, attrazione di capitali stranieri, ambiente, giovani. Ma la lista della spesa sarebbe lunga: siamo la seconda regione italiana per Pil prodotto, 180 miliardi di euro con 600.000 imprese e la prima regione turistica con 73 milioni di presenze, 18 miliardi di fatturato e il terzo aeroporto italiano. Abbiamo un appeal internazionale».
In testa che cosa mette?
«La sanità. Dobbiamo sburocratizzare incrostazioni oggi inconcepibili. Se mancano medici bisogna trovare metodi nuovi per trovarli. Ho fatto la battaglia per portare gli ospedalieri in pensione da 65 a 70 anni. Mancano 50.000 medici in Italia: non capisco perché i migliori, che oltretutto si sono affermati anche grazie agli investimenti fatti con le tasse dei veneti, debbano andare in pensione anche controvoglia. E poi sa che fanno? Attraversano la strada per lavorare nel privato».
Ha parlato di ambiente. Le Olimpiadi del 2026 lo rispetteranno?
«Questi sono stati ritenuti i Giochi invernali meno impattanti e più sostenibili della storia. Tutti ci dicono che dobbiamo prendere lezioni ambientali dal Nord Europa. Bene: il nostro avversario era la Svezia, ci provavano per l’ottava volta. Siamo stati scelti noi per la sostenibilità economica, finanziaria e ambientale perché c’è il riuso di tutto quello che avevamo».
Nella Lega con Matteo Salvini tutto bene?
«Il nostro è un partito grande e con tante componenti, e io sono per il dibattito e il confronto estremo. Ma un leghista sa che l’unica cosa da non fare è mettere in difficoltà il partito. Se lo fai non sei un bravo leghista. Punto».
I frondisti lombardi sono leghisti bravi o cattivi?
«Non ho seguito la vicenda da vicino. So che il nostro candidato è Attilio Fontana, senza alternative».
Se avrà bisogno di una mano, lei lo sosterrà?
«Conosco Attilio da decenni. È un bravo amministratore, arrivato in regione dopo essere stato sindaco di Varese e presidente dell’Anci, e ha affrontato con coraggio l’emergenza Covid. Ricordo a chi l’ha dimenticato che noi governatori eravamo in realtà commissari di governo e gestivamo la situazione in prima persona con decreti».
Siete stati accusati di avere centralizzato tutto.
«Non ce la siamo cercata: era un obbligo di legge. Se qualcosa non va, la procura va da chi ha firmato le carte, non da chi chiacchierava. E le carte le poteva firmare solo uno».
Il commissario.
«O il soggetto attuatore da lui nominato. Ma il responsabile ultimo era sempre e solo uno. Meglio ricordarlo a chi oggi sale in cattedra».
Perché ha scritto un libro? Di solito è segnale di nuove ambizioni…
«Intanto I pessimisti non fanno fortuna è il quinto».
Come vanno le copie?
«Quello dell’anno scorso, Ragioniamoci sopra, ne ha vendute 40.000 e vende ancora, questo pare anche meglio. È diretto in particolare ai giovani. Non ho obiettivi politici».
Quindi ha scoperto la vena saggistica.
«Ho scelto il metodo più analogico, la scrittura, per mettere nero su bianco delle riflessioni che rimangano. Ho uno stile semplice e leggibile, e intreccio memorie personali con i fatti storici».
Ne emerge uno tra i leghisti più aperti sui temi etici.
«Partiamo da due presupposti: su tali questioni ci vuole estremo rispetto ma la Corte costituzionale si è già espressa chiedendo di adeguare la legge. La politica deve garantire le libertà e creare tutti i presupposti perché una persona non arrivi a dire basta. Quindi cure, sostegno psicologico, assistenza».
E dopo?
«Quando il centrodestra vince un’elezione la prima domanda dei giornalisti è sui temi etici, quasi avessimo l’anello al naso. Nessuno lo fa con il centrosinistra: se lo facessero, scoprirebbero che nemmeno lì la pensano tutti allo stesso modo. Questi temi trasversali a noi vengono fatti pesare, agli altri no».
Però il centrosinistra si fa portavoce unico dei diritti civili.
«Davanti al fine vita, so che la stragrande maggioranza dei cittadini, avendo vissuto la sofferenza di un familiare o un conoscente, non ragiona per schieramento politico e chiede di rispettare la volontà di chi soffre. Sui temi etici il centrodestra non può lasciare “no fly zone” su cui è vietato confrontarsi».
Una donna è stata stuprata all’alba di domenica nel centro di Piacenza da un richiedente asilo della Guinea. È un fatto gravissimo e non ci sarebbe bisogno di sottolinearlo se la sinistra non avesse perso una grossa fetta di buon senso. Invece che succede? Nemmeno due parole di circostanza per condannare l’episodio, ma una valanga di fango su Giorgia Meloni che ha preso dal sito del Messaggero il video della violenza e l’ha rilanciato su Twitter perché «non si può rimanere in silenzio davanti a questa atrocità». Per la sinistra italiana è più scandaloso, violento, indecente, indegno, sciacalloso, raccapricciante il tweet della Meloni che lo stupro dell’africano. È lei che va condannata, non il ventisettenne guineano finito in prigione.
Per Enrico Letta, segretario del Pd, pubblicare il video è «indecente e indecoroso»: «Il rispetto delle persone dev’essere prima di tutto; invito a una campagna elettorale in cui si parli delle cose senza essere irrispettosi dei diritti delle persone». Per Nicola Fratoianni (Sinistra italiana) «rilanciare il video di uno stupro non è informazione, non è politica, ma bieco sciacallaggio senza dignità». Per la deputata Pd Valeria Valente «è davvero raccapricciante il tentativo di strumentalizzare anche la violenza sulle donne a fini elettorali». Katia Tarasconi, sindaca Pd di Piacenza, non è «colpa di chi si impegna per l’accoglienza e l’integrazione se un richiedente asilo commette un crimine». E che sarà mai.
La melma lanciata con il ventilatore da Letta & C. ha raggiunto anche il cittadino che, sentendo le grida della povera donna, dalla finestra di casa ha girato il breve video con il telefonino. È stato degradato a vile, guardone, uno che non ha mosso un dito. Naturalmente le cose non sono andate così: quest’uomo ha raccontato al Tg3 Emilia Romagna di avere immediatamente avvertito la questura (le volanti sono giunte in brevissimo tempo) e poi ha filmato la scena con lo smartphone come prova per gli inquirenti.
Lo stupro in sé è già sparito, tiene banco soltanto la polemica elettorale. Non conta che la Meloni abbia preso il video dal sito Internet del Messaggero, uno dei principali quotidiani italiani. E non conta neppure che il volto della vittima fosse stato reso irriconoscibile, quello dell’aggressore idem, e che il tweet condannasse il crimine ed esprimesse solidarietà alla donna violentata. La leader di Fratelli d’Italia non aveva nemmeno citato la sinistra: «Non si può rimanere in silenzio», aveva scritto su Twitter, «davanti a questo atroce episodio di violenza sessuale ai danni di una donna ucraina compiuto di giorno a Piacenza da un richiedente asilo. Un abbraccio a questa donna. Farò tutto ciò che mi sarà possibile per ridare sicurezza alle nostre città».
Non erano accuse a sinistra, né critiche alle politiche sull’immigrazione del governo Draghi, né contestazioni alla ministra Luciana Lamorgese. Eppure la sinistra ha sollevato uno scandalo. È la stessa sinistra che, a fine luglio, non si era fatta problemi a far girare le immagini (in chiaro) del tragico pestaggio di Civitanova Marche in cui ha trovato la morte l’ambulante nigeriano Alika Ogorchukwu. Se lo straniero è vittima, tutto è lecito; se è il colpevole, il video va fermato. La Meloni ha solidarizzato con l’ucraina stuprata mentre da Letta a Fratoianni non si è levata una parola per condannare la violenza sessuale. Sette anni fa Matteo Renzi, allora segretario Pd e presidente del Consiglio, non si fece scrupoli a mostrare a tutto schermo alla festa dell’Unità di Milano la foto del piccolo Alan Kurdi annegato su una spiaggia della Turchia in uno sbarco. La accompagnò con questa sobria didascalia urlata: «Qui non c’è il Pd contro la destra, ma gli umani contro le bestie». Fu sommerso dagli applausi del suo popolo.
Erano i primi del settembre 2015, sono passati sette anni e a sinistra hanno la memoria corta. Allora nel Pd nessuno alzò il sopracciglio né puntò l’indice accusatore per condannare l’uso di una foto tragica a scopi di polemica politica. Anzi, Renzi fu difeso come un sincero democratico e un paladino dei diritti dei più deboli. Quando c’è da insultare la destra, il rispetto dei diritti è un concetto molto elastico. Giorgia Meloni è tornata ieri su Twitter con un video per dare le sue ragioni. «Non so se il Pd creda davvero a ciò che sta dicendo e scrivendo», ha detto, «nel qual caso le cose sono molto peggio di quanto credessimo. Mi lascia molto perplessa che chi mi attacca perché ho espresso solidarietà a una vittima di stupro e condannato l’aggressore non ritenga di fare altrettanto. Non spendono una parola per condannare o solidarizzare, ma attaccano me. Dicono che ledo la sua dignità. A Letta dico che la lesione della dignità non è la condanna di uno stupro: è lo stupro. Perché di questo non parlate?». Secondo tema, «ancora più surreale»: qualche giorno fa la Meloni ha pubblicato un video dicendo che la destra al governo punterà molto sullo sport per i giovani, seguendo l’esempio dell’Islanda che con una politica del genere ha drasticamente ridotto le devianze giovanili. «Risposta di Enrico Letta: viva le devianze». Già, viva le devianze da Letta.
- Il presidente della Fondazione Einaudi: «La consultazione è l’occasione per cancellare le correnti tra giudici. I cittadini devono andare alle urne per dare un segnale di cambiamento. Lo scarso dibattito è l’indice di quanto sia malata la nostra democrazia».
- Referendum: le analisi di Volocom su oltre 4.000 fonti di informazione e 2 miliardi di pagine Web.
Lo speciale contiene due articoli.
Saranno cinque Sì quelli che traccerà sulle schede referendarie l’avvocato Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica economia e storia.
Quali anomalie del sistema giudiziario italiano verranno corrette dai referendum?
«I referendum trattano alcuni dei mali atavici della giustizia italiana, da tempo denunciati da chi vive quotidianamente le aule giudiziarie. Il correntismo all’interno del Csm, le pseudo-valutazioni dei magistrati a oggi positive nel 99% dei casi e la commistione tra funzioni giudicanti e requirenti logorano la legittimazione dell’ordine giudiziario, la cui indipendenza è diventata autoreferenzialità e superiorità alla legge. Un Sì pieno anche agli altri due quesiti, che mirano a superare l’abuso gravissimo della custodia cautelare e la legge Severino, che ha paralizzato le amministrazioni locali, essendo applicata anche a chi è presunto innocente secondo il dettato della Costituzione. È bene che i cittadini si rechino alle urne e diano un segnale forte verso il cambiamento, a cui molte forze politiche sono disinteressate».
Quali sono i nemici più agguerriti dell’appuntamento di domenica?
«La magistratura, più precisamente quella associata. Il sistema correntizio non ha intenzione di rinunciare al potere acquisito, nonostante centinaia di giovani giudici e pubblici ministeri abbiano compreso la speranza di cambiamento del Paese. Si aggiungono poi coloro che sul conflitto magistratura-politica cercano di raccogliere qualche punto decimale nei sondaggi, ignorando però i danni che il malfunzionamento della giustizia arreca a cittadini e imprese. Mi auguro che la volontà di abbattere gli avversari politici non prevalga sull’esigenza impellente di riforme».
Chi ostacola maggiormente i cambiamenti del nostro sistema giudiziario: parti della magistratura o la politica più giustizialista?
«In questo Paese si è radicata l’idea mortifera per cui la magistratura abbia un ruolo salvifico della società e sia incaricata di proteggere i cittadini dai politici, ladri e corrotti secondo la vulgata popolare. Quest’idea accomuna la magistratura associata, che da garante dell’osservanza della legge è diventata superiore alla legge, e certi partiti politici, che avrebbero dovuto aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, salvo poi diventare il più grosso tonno della storia repubblicana. Chi si riconosce in questa fazione si oppone a riforme che ripristino l’equilibrio tra i poteri dello Stato, riportando l’ordine giudiziario nei propri ranghi e restituendo indipendenza al Parlamento».
Come giudica lo scarso dibattito che ha preceduto il voto?
«Lo scarso, per non dire assente, dibattito sui referendum è indice della grave crisi di salute della nostra democrazia. Stando agli ultimi sondaggi, circa un cittadino su due non sa che il 12 giugno si voterà. L’intera classe politica dovrebbe riflettere sul proprio ruolo».
Perché se n’è parlato così poco?
«Vi sono cause fisiologiche, come la guerra d’aggressione in Ucraina, e altre patologiche, che riguardano la parzialità degli organi di informazione. Chi si schiera contro la riforma della magistratura preferisce non dare spazio ai referendum».
Domenica si voterà con la mascherina: è l’ultimo disincentivo ad andare alle urne?
«I disincentivi sono stati purtroppo molti fin dall’inizio. Il voto in una sola giornata, anomalo sotto il profilo statistico, non aiuta il raggiungimento del quorum. L’obbligo di mascherina appare incoerente con quanto deciso per concerti o eventi in discoteca. Ciononostante, a prescindere da quale sarà il numero di elettori che si recheranno alle urne, conteremo il numero di Sì e le percentuali di differenza con i No. Vedremo in quanti non sono soddisfatti dello stato della giustizia italiana sui temi proposti e verificheremo successivamente quali forze politiche daranno seguito alle istanze di riforma».
Dopo il referendum quali saranno i prossimi passi verso un reale cambiamento del sistema giudiziario?
«Lo dico da anni: la prima e imprescindibile riforma della giustizia è la separazione delle carriere dei magistrati a livello costituzionale. La commistione tra pubblici ministeri e giudici all’interno del CsmM annienta la giurisdizione e la cultura della terzietà, ponendo il cittadino-imputato su un piano inferiore a quello dell’accusa. Due funzioni, due ruoli, due Csm: non c’è altra strada. Seconda cruciale riforma è quella relativa ai consiglieri del Csm. Sono scettico sugli effetti di quanto si sta discutendo in Parlamento, perché il problema non si affronta cambiando il sistema elettorale. Tutti i partiti politici e anche l’Anm erano d’accordo sul sorteggio temperato, successivamente scomparso dai radar politici. I conservatori dello status quo ancora una volta stanno vincendo. Come suggerito dalla Fondazione Luigi Einaudi, è necessario eleggere un’Assemblea per la revisione della parte II della Costituzione, che in modo organico superi le criticità presenti».
Bavaglio dei media ai cinque quesiti. Si parla solo delle amministrative
Referendum imbavagliati: domenica prossima, 12 giugno, dalle 7 alle 23 gli italiani sono chiamati alle urne per esprimersi sui 5 quesiti referendari sulla giustizia proposti da Radicali e Lega, ma la copertura mediatica riservata a questo appuntamento è stata scarsissima. Un elemento cruciale, poiché la sfida si gioca sul raggiungimento del quorum del 50% più uno degli aventi diritto al voto: nascondere agli italiani l’appuntamento referendario è il modo più facile per farlo fallire, col risultato di lasciare tutto inalterato. Questo incontrovertibile atteggiamento omertoso dei media sui referendum è certificato, oltre che dall’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, anche da un report di Volocom, azienda leader nel mercato del monitoraggio dei media, che ha pubblicato una analisi condotta dal 7 maggio al 7 giugno sulla base di dati di stampa, web e social attraverso tecnologie di Media Monitoring che interrogano e elaborano un database di oltre 4.000 fonti di informazione (oltre 3.000 dal web, 30 quotidiani nazionali e 94 locali) e 2 miliardi di contenuti provenienti dai social network. Il dato che emerge non ha bisogno di spiegazioni o commenti: in questo mese cruciale i media hanno parlato più delle elezioni amministrative che dei referendum, nonostante il fatto che il primo turno delle comunali, in programma lo stesso giorno, coinvolge circa 800 comuni per complessivi 8,5 milioni di elettori, mentre i referendum riguardano tutti gli italiani ovvero 51,5 milioni di elettori. Bene (anzi, molto male): pensate che nel periodo di riferimento, gli ultimi 30 giorni, secondo il report di Volocom le elezioni amministrative sono state citate da poco più di 12mila articoli (7mila sul web e 5mila sui giornali cartacei) mentre dei referendum hanno parlato solo 10mila articoli, di cui 7mila sul web e i restanti sulla stampa. Non solo: la stragrande maggioranza degli articoli sul web sono stati rilanciati da aggregatori di notizie, mentre la fonte ufficiale più attiva sulla rete è stata Radio Radicale. Anche scendendo nel dettaglio delle singole giornate, si legge nel report, si nota la preponderanza di articoli riferiti alle amministrative. Solo negli ultimi giorni la tendenza si è invertita, ed è curioso che una delle cause principali sia stato l’intervento contro i referendum di Luciana Littizzetto a Che tempo che fa su Rai Tre, che ha riacceso il dibattito. La Littizzetto, ricordiamolo, lo scorso 29 maggio ha detto testualmente: «il 12 giugno pensavo di andare al mare», un invito esplicito a disertare le urne che è costato alla Rai un richiamo formale da parte dell’Agcom. Eppure, quell’intervento ha scatenato un forte dibattito che ha finito per produrre l’effetto opposto a quello desiderato dalla comica piemontese, accendendo (finalmente) i riflettori sull’appuntamento alle urne. Ugualmente efficace ma stavolta volontario il gesto del vicepresidente del Senato Roberto Calderoli della Lega, che il 2 giugno scorso ha intrapreso uno sciopero della fame e si è imbavagliato nello stile di Marco Pannella per sensibilizzare l’opinione pubblica: l’iniziativa dello storico esponente del Carroccio ha suscitato un rinnovato interesse da parte della stampa e del web sui cinque quesiti, e così nell’ultima settimana gli articoli riguardanti i referendum sono stati 3.500 rispetto ai 2.500 relativi alle amministrative. Una spinta significativa alla informazione sui quesiti referendari è stata inoltre data dal video pubblicato 13 giorni fa su YouTube dal noto canale Breaking Italy, dal titolo «I referendum sulla giustizia, spiegati semplicemente», ha totalizzato oltre 160mila visualizzazioni e 770 commenti, riuscendo ad avvicinare il pubblico a temi percepiti come complessi. In sostanza, la copertura mediatica dei referendum sulla giustizia è stata largamente insufficiente e inadeguata rispetto alla importanza dell’appuntamento, rendendo più difficile il raggiungimento del quorum per la gioia di chi non ha alcuna volontà di lasciare che il popolo italiano decida direttamente si un tema così importante.





