La parte dell'accordo concluso dalla Casa Bianca con i talebani afgani, in base alla quale gli americani avrebbero avuto a disposizione alcuni mesi per completare il ritiro dal Paese asiatico in cambio della cessione del controllo del Paese, era carta straccia fin dall'inizio. Washington non poteva ignorare che le differenti fazioni talebane, da sempre in competizione, avrebbero sfruttato il vuoto politico per guadagnare posizioni l'una nei confronti dell'altra. La guerra ibrida è una modalità di confronto geopolitico che amplia i campi e le modalità di scontro, offusca il coinvolgimento degli Stati e ne favorisce la dispersione di responsabilità. L'impero sta delegando alle province e ai propri popoli clienti la difesa del limes nella speranza di riuscire a contenere e ammansire il nemico principale, la Cina. A tale causa verrà sacrificato l'Afghanistan, che per contenere Pechino dovrà ritornare a essere un focolaio di tensione.
Collegando i vari epicentri di crisi esistenti o in sviluppo tra Asia e Africa si può notare che il gigante americano, in coordinazione - più o meno consapevole - con gli alleati nordatlantici, sta resettando la propria strategia di proiezione fondandola sulla capacità di impostare un arco di instabilità controllato a distanza basato sulla lotta al terrorismo, ovvero alle varie forme di estremismo e criminalità. Una strategia della destrutturazione controllata, adatta soprattutto a destabilizzare i luoghi di presenza cinese e al contenimento della sua espansione globale. Una soluzione che potrebbe portare per logorio al crollo del regime cinese, salvando però il Paese da un terremoto finanziario.
L'Occidente non si può permettere uno scenario simile allo sfaldamento dell'Unione sovietica. L'economia cinese deve essere contenuta ma, se possibile, mantenuta, vista la sua importanza su scala globale. La strategia della destrutturazione controllata rilancerebbe la logica degli scacchi e riporterebbe, pur nella sua rischiosità, l'impero americano in vantaggio tattico. In tale contesto, se la retorica sempre più nazionalista e minacciosa di Xi Jinping dovesse a breve trovare sfogo contro Taiwan, Washington non sarebbe impreparata. Come è sempre meno impreparata a gestire i focolai che si stanno formando in Africa e che stanno proiettando il mondo nordatlantico verso il Sud del continente.
Con il nuovo strumento finanziario di sostegno alla politica estera europea Ndici (Neighbourhood development and international cooperation) i Paesi Ue hanno profondamente ampliato la possibilità di sostegno economico, militare e politico nel continente africano. Se il raggio d'azione era prima limitato alla regione subsahariana e al Corno d'Africa, ora gli Stati europei potranno intervenire anche in zone più lontane come il Mozambico, dove sta montando da tempo la problematica terrorista e dove l'Ue ha deciso di inviare una missione. Una missione che presumibilmente gestirà il lascito dell'intervento delle forze speciali ruandesi, chiamate in aiuto dal governo di Maputo.
Il Ruanda, sostenuto politicamente da Israele, e addestrato nella lotta all'antiterrorismo dall'Italia, desidera divenire il gendarme dell'Africa. L'Italia, come le forze armate di Francia e Spagna, già addestra anche altre unità della zona Sahel e aiuta le polizie del Corno d'Africa. L'Ndici amplierà tali collaborazioni e nonostante la retorica europea della politica estera comune è visto da Washington come uno strumento di sostegno degli interessi nordatlantici da parte del pilastro europeo. Uno strumento che andrà a incastrarsi con gli eventi sul campo sostenuti dagli Usa quali l'ingresso dirompente, favorito dal Marocco sulla base dagli Accordi di Abramo, nell'Unione africana di Israele quale Paese osservatore e dalla decisione datata 18 agosto dell'Organizzazione per la cooperazione sudafricana di dotare la Tanzania, sempre più sotto attacco del jihadismo, di un centro per l'addestramento alla lotta al terrorismo. Una decisione che, a conferma della reale leadership americana degli eventi, ha colto completamente di sorpresa Bruxelles.
A oggi la Macedonia, ancora priva di una linea di approvvigionamento, conta più di 3.200 morti a causa del Covid-19 su una popolazione di due milioni di abitanti. In seguito all'analisi pubblicata ieri dalla Verità sulle modalità di ricerca sul mercato dei vaccini da parte del governo locale, il premier Zoran Zaev ha ammesso che l'anticipo pagato alla Cina per ricevere i prodotti della Sinopharm potrebbe essere stato restituito, e i vaccini mai consegnati, a causa dell'utilizzo di società straniere quali intermediari. La Verità è in possesso di lettere del ministro della Salute Venko Filipche che tirano in causa una società diversa da quelle presentate come interlocutrici dal premier macedone durante la sua conferenza stampa di ieri e che potrebbe rappresentare il motivo della mancata collaborazione da parte di Pechino.
Tuttavia, la lettera degna di nota per le democrazie occidentali e l'Alleanza Atlantica è quella datata 25 gennaio 2021 nella quale il ministro della Salute, contraddicendo la sua stessa missione istituzionale di cura delle vite dei cittadini e calpestando numerose convenzioni internazionali, dichiara di sollevare la Sinopharm, ovvero il regime cinese, da qualsiasi responsabilità sull'eventuale malfunzionamento del vaccino. È oramai chiaro che a dicembre la Cina ha ricevuto quasi in contemporanea la richiesta di vaccini dalla Macedonia e dal vicino Montenegro. Il fatto che solo la prima sia riuscita a vedersi consegnare il vaccino lascia intendere che con Skopje anche il regime comunista di Pechino fatica a trovare una modalità di cooperazione che lo ponga al riparo da eventuali critiche legate alla gestione della cosiddetta diplomazia sanitaria.
Nell'ultimo anno, i Paesi dell'immediato vicinato dell'Ue, da essa dipendenti economicamente e spesso aventi lo status di candidati, sono stati ancora una volta completamente delusi da Bruxelles. L'Ue, che da decenni ormai insegue gli eventi anziché dominarli, ha dimostrato tutta la sua insipienza nella gestione del Covid-19 tanto in casa, quanto nella regione dei Balcani occidentali, la cui stabilità sociale può influire direttamente su quella politica del Vecchio continente. La decisione dei governi europei di impedire l'esportazione di materiale medico a inizio pandemia e successivamente quella di vietare una corsia preferenziale per la fornitura di vaccini dimostra quanto poco abbiano appreso dalla storia le élite politiche nostrane.
Belgrado, che ha gestito una curva epidemiologica comparabile a quella dei Paesi continentali, senza mai imporre lockdown ai cittadini, è l'unica Capitale della regione che è riuscita a garantirsi dall'inizio una sufficiente disponibilità di vaccini dalla Russia e dalla Cina. Grazie alle abbondanti scorte, che permettono di gestire una campagna di vaccinazione nazionale, il presidente serbo, Alksander Vučić, sta sfruttando la situazione per aumentare il proprio credito politico quale guida dell'unica potenza regionale credibile. Egli ha, infatti, donato 5.000 dosi alla Bosnia Erzegovina e 8.000 dosi alla Macedonia. Inoltre i bosniaci, prigionieri di uno Stato al collasso, confinante con l'Ue, hanno dato vita al turismo vaccinale che li porta a cercare aiuto negli ospedali serbi. Una situazione caotica, potenzialmente esplosiva, che ha portato anche il presidente sloveno, Borut Pahor, a promettere l'invio di 4.800 vaccini a Sarajevo.
Il Montenegro ha ricevuto settimana scorsa in regalo 30.000 dosi dalla Cina, mentre in Albania il presidente, Edi Rama, ha dovuto muoversi con i propri mezzi per contenere l'eventuale scontento alle prossime elezioni parlamentari di aprile, assicurandosi qualche migliaio di vaccini da un misterioso donatore europeo, che preferirebbe rimanere anonimo. La prolungata crisi di governo e la recente elezione del nuovo Parlamento non hanno aiutato il Kosovo nella gestione della problematica. A oggi, se si esclude una fugace regalia serba di poche centinaia di dosi a favore della propria comunità, il più giovane degli Stati europei non ha alcun mezzo per combattere il Covid. Il futuro premier, Albin Kurti, ha in mano solo una promessa di consegna da parte del sistema Covax delle prime dosi di vaccino per il mese di maggio.
Ma l'apoteosi della malagestione dei vaccini è stata raggiunta ancora una volta in Macedonia, dove il locale governo, guidato da Zoran Zaev, sarebbe disposto a barattare la propria sopravvivenza, anche a spese della salute dei cittadini. In un'intervista televisiva rilasciata a gennaio, Zaev informava i macedoni che non avrebbe mai cercato aiuto in Cina o Russia, in quanto il Paese, dopo essere entrato nella Nato, si deve affidare ai propri alleati occidentali.
La Verità è tuttavia entrata in possesso di due lettere del ministro della Salute, Venko Filipche, che sbugiarderebbero, ancora una volta, il premier macedone. La prima lettera dimostra che il ministro Filipche avrebbe inviato una richiesta alla Sinopharm cinese, già in data 25 dicembre 2020, mentre una seconda lettera, datata 25 gennaio, nella quale il ministro solleverebbe la Cina da qualsiasi responsabilità sugli effetti negativi del vaccino, dimostrerebbe la premura del governo balcanico nella conclusione dell'affare. Zaev ha ammesso, successivamente, d'essersi rivolto a Pechino, ma a fine febbraio la Cina comunista gli ha restituito l'anticipo versato per l'acquisto.
La ragione, secondo le fonti della Verità, è da ricollegarsi al fatto che l'affare doveva essere gestito attraverso una società di comodo avente sede a Hong Kong che si trova riportata anche in tutte le lettere ufficiali del ministro. Il fatto che una società privata, risultata a una prima analisi priva di solide fondamenta, ma avente fondi sufficienti depositati presso la Deutsche Bank tedesca, fosse inserita d'imperio dal governo macedone nella mediazione avrebbe fatto sorgere in Pechino il dubbio di trovarsi di fronte a un tentativo di frode e avrebbe portato all'annullamento della procedura. In fondo, la Cina si è attenuta fin dall'inizio della pandemia al principio di gestione diretta degli aiuti e delle commissioni con i governi. L'ennesimo presunto tentativo di corruttela perpetrato dalla rete di Zaev, anche a scapito della salute dei cittadini, si è questa volta infranto sugli scogli della testardaggine del regime comunista cinese.





