- In questi ultimi anni siamo stati abituati a sentirci spiegare l'importanza dell'indipendenza energetica e del legame, quasi simbiotico, che la lega all’indipendenza dalle materie prime. Da alcuni anni la Commissione Europea sostiene «l’obbligo morale» di aprire nuove miniere sul suolo europeo ed in questo senso ha varato la «Legge europea sulle materie prime critiche» (European critical raw material act) per stabilire dei vincoli al consumo annuo dell'UE di quelle che vengono definite materie prime strategiche.
- In Italia la storia dell'estrazione di materie prime critiche è antica. Le miniere in Piemonte e Lombardia dove si ottenevano cobalto, zinco e piombo. E la risorsa del litio, nata dalla geotermia in Toscana all'inizio dell'Ottocento.
Lo speciale contiene due articoli.
L’ipotesi del ministro Adolfo Urso di riaprire le attività estrattive in Italia, del tutto in linea con il pensiero di Bruxelles, pone però degli obbiettivi, al di là dei facili entusiasmi, da far tremare le vene e i polsi. Innanzi tutto perché a non pensarla come la Commissione, in primis, sono proprio i cittadini europei che, spalleggiati da quelle stesse associazioni ambientaliste che pretendono una transizione verde accelerata, si oppongono fermamente a qualsiasi ipotesi che preveda l’apertura di una miniera "nel proprio giardino" scordandosi come sono entrati nell'era dell'elettricità, delle luci domestiche, dei telefoni e degli elettrodomestici, dei motori e dei generatori.
Associazioni ansiose di liberarsi del nostro passato industriale e di oscurare, nel dibattito pubblico, le connessioni che legano tutti noi all’estrazione delle risorse dal sottosuolo.
Dopo aver trascorso l'ultimo trentennio a smantellare il suo passato minerario oggi il nostro Paese, per accedere ai metalli indispensabili per la transizione energetica e le tecnologie del futuro, deve ricostruire anche il bacino di competenze tecniche dell’intero settore. In Italia da oltre un ventennio il corso di laurea in Ingegneria mineraria è stato soppresso dagli ordinamenti universitari statali e gli insegnamenti nel settore estrattivo sono stati ridotti all’osso.
Altro aspetto in cui siamo fanalino di coda sono le attività di prospezione: la disponibilità delle materie prime dipende dal successo delle attività di prospezione, che segna il primo passo nello sviluppo di una supply chain. Sebbene l'esplorazione mineraria sia fondamentale per espandere o mantenere i livelli di produzione, nel nostro Paese, come in buona parte della UE, sono state svolte limitate attività di esplorazione.
Nel 2017 la quota della UE della spesa esplorativa globale era solo del 3% a fronte di un consumo del 25-30% dei metalli prodotti a livello globale. Pertanto il potenziale minerario dell'UE rimane poco esplorato a causa del budget per le prospezioni di minerali metallici sensibilmente inferiore rispetto ad altre regioni del mondo. Anche le attività di perforazione, il passo concreto per la valutazione di un giacimento, ed anche il più oneroso, vede l’Europa fanalino di coda. Sono pochi, tra i 27, i paesi come la Finlandia dove esiste un database di geoscienze completo e accessibile, supportato da un sistema di licenze minerarie moderno, trasparente ed efficiente e da un quadro normativo di supporto: il nostro paese non è tra questi.
A credere nel potenziale minerario del Bel Paese, prima dei suoi abitanti, pare ci siano gli Australiani che dell’industria mineraria hanno fatto uno dei pilastri della loro economia. In questi ultimi anni si è attivamente interessata alle risorse minerarie del nostro Paese Altamin Limited, una società mineraria australiana, che si concentra sull'esplorazione metalli di base, quali zinco, piombo e rame, e quelli più specifici per la produzione di batterie per auto elettriche come litio, cobalto e nickel.
L’iniziativa di Altamin conferma una tendenza in atto nel settore minerario globale: l’esplorazione greenfield, ossia di giacimenti inesplorati, è un rischio e spesso le compagnie preferiscono concentrarsi sullo sviluppo di progetti brownfield, cioè di espansione di miniere esistenti o come, in questo caso, la loro riattivazione. Inoltre i budget di esplorazione per i metalli delle batterie cobalto e litio sono aumentati a causa dell'aumento della domanda e dei prezzi e frequentemente sono le società junior, come Altamin, che conducono principalmente l'esplorazione di questi metalli.
Secondo i tecnici di Altamin il deposito di Gorno in Lombardia, le cui autorizzazioni per l’esplorazione sono state rilasciate alla sua controllata Energia Minerals Srl, potrebbe fornire concentrati di zinco e piombo ai poli metallurgici italiani ed europei.
Lo zinco è il quarto metallo più utilizzato al mondo dopo ferro, alluminio e rame ed è destinato ad un ruolo importante anche nella corsa verso un mondo a basse emissioni di carbonio, per il suo ruolo nella protezione dell’acciaio negli impianti eolici e fotovoltaici e per le sue proprietà elettrochimiche nell’ambito della conservazione di energia. Quella dello zinco è un'area dell'industria mineraria globale in cui non ci sono state scoperte importanti da oltre 20 anni, il che indica che l’esaurimento delle risorse si sta verificando più rapidamente che per altri metalli come il rame, l’oro o il nichel. Inoltre molti usi dello zinco sono dissipativi il che pone significativi limiti alla sua riciclabilità e al suo ruolo all’interno di un’economia circolare.
I dati storici sul deposito di Gorno sono di 6 milioni di tonnellate di roccia mineralizzata con tenori medi di 14,5% di piombo e zinco ed una produzione di concentrati al 57% di piombo e zinco con impurità minime ed una produzione complessiva di 800.000 tonnellate di zinco metallico. Valori confermati dalle valutazioni di Altamin che ritiene il deposito di Gorno in grado di produrre dei concentrati di ottima purezza ed alto tenore. La mineralizzazione contiene riserve pari a 7,8 milioni di tonnellate con un tenore di zinco del 6,8%, e di 1,8% di piombo, presente anche argento in 32 grammi per tonnellata.
Come termine di paragone si consideri che accurate analisi hanno calcolato che su circa 610,3 milioni di tonnellate di zinco presente all'interno di 851 singoli giacimenti minerari o di bacini di sterili in 67 paesi il tenore medio è dell’1,20%.
E proprio l’elevata percentuale di recupero nei concentrati, prevista da Altamin, con tenori per lo zinco del 63,3% e per il piombo del 75,8%, evidenzia valori di assoluto interesse a cui vanno aggiunti circa 810 grammi di argento per tonnellata di concentrato.
Il piano produttivo prevede 100.000 tonnellate all’anno di concentrato di zinco e 25.000 di piombo per una durata prevista di 25 anni.
Positiva, viene definita da Altamin, l’accettazione pubblica dell’iniziativa imprenditoriale, vista come un interessante indotto occupazionale e un motore per la crescita delle infrastrutture locali.
Circa il deposito di Gorno va poi sottolineato come, secondo i tecnici australiani, le limitate impurità presenti nel minerale consentano un costo energetico per la sua frantumazione limitato a 11,65 kWh per tonnellata. Ma l’incognita sui costi energetici rimane: solo di recente Glencore ha ipotizzato una riattivazione, seppur graduale, della linea zinco a Portovesme, indicata proprio da Altamin come una delle possibili destinazioni del concentrato. Il legame energetico tra estrazione e raffinazione e gli elevati costi dell’energia pongono degli interrogativi sull’effettivo futuro sviluppo della filiera: l’attuale crisi energetica europea, ha rivelato problemi strutturali nel mix energetico che diventeranno solo più acuti man mano che l’UE si muoverà lungo il percorso di decarbonizzazione ponendo in una posizione critica i costi del settore europeo delle fonderie di zinco.
Ma l’interesse della compagnia australiana per il sottosuolo del nostro Paese non si ferma a Gorno e sta proponendo, nei Comuni di Usseglio e Balme a circa 50 km a NE di Torino, la riapertura della di un’area estrattiva denominata Punta Corna su cui sono presenti una serie di miniere storiche, risalenti al diciottesimo secolo, di cobalto e nichel.
I permessi di ricerca sono stati rilasciati a Strategic Minerals (Italia) Srl, un’altra società controllata da Altamin, che nelle sue prospezioni ha posto la sua attenzione su degli affioramenti rocciosi filoniani da cui sono stati estratti dei campioni contenti cobalto con un tenore medio del 3,4%. Sono presenti vene mineralizzate di spessore di un paio di metri con una lunghezza di circa 1,5 chilometri dove il cobalto è presente nella medesima mineralizzazione con il nichel in un tenore stimato al 2,8%. Questa mineralizzazione, un arseniuro di nichel, cobalto e ferro, noto come Skutterudite, secondo Altamin, ricorda quella della complesso minerario di Bou Azzer in Marocco, uno dei più importanti depositi di nichel e cobalto a livello globale. Ma Bou Azzer pur essendo su un altopiano in quota non presenta i problemi logistici di Punta Corna il cui complesso minerario si trova tra i 2400 ed i 2600 s.l.m.. L’accesso con le attrezzature pesanti richiederà interventi significativi che sommati alla durata della stagione operativa, potrebbero rendere economicamente insostenibile la coltivazione del giacimento. Anche in considerazione del fatto che una buona percentuale della fase di arricchimento andrebbe fatta a valle salvo non costruire localmente le infrastrutture necessarie: aspetto questo che potrebbe incontrare l’opposizione delle popolazioni locali.
Infatti fin qui abbiamo parlato di prospezioni o per meglio dire di semplici permessi di ricerca per attività propedeutiche e di esplorazione, con la possibilità di prelevare materiale. Si tratta di attività il cui impatto ambientale è significativamente ridotto, tanto che lo stesso ministero non prevede procedure di impatto ambientale. La vera volontà del nostro Governo si capirà quando verranno richiesti permessi per realizzare pozzi esplorativi o l’avvio dell’attività estrattiva. Verranno concesse quelle deroghe alle autorizzazioni a cui oggi assistiamo per gli impianti eolici o il fotovoltaico su suolo agricolo?
Ma il metallo al centro degli interessi delle compagnie minerarie globali, e di conseguenza anche di quelle presenti nel nostro Paese, è il litio. Quello italiano, nello specifico, è litio geotermico che, a differenza delle altri tipi di risorsa, sembra essere particolarmente rispettoso dell’ambiente. Attualmente il litio proviene dalle salamoie del Sud America dove, nel Triangolo del litio, risiedono le più importanti riserve globali oppure da rocce come lo spodumene o lepidolite.
In entrambi i casi l’estrazione di queste risorse presenta significativi impatti ambientali mentre i progetti estrattivi italiani, che dovrebbero rifornire le gigafactory del Vecchio Continente, sono basati sulla tecnologia Direct Lithium Extraction, DLE, la cui impronta ambientale sarebbe significativamente ridotta rispetto al processo tradizionale.
Il litio verrebbe estratto dai sistemi geotermici presenti nel nostro territorio e Altamin come Vulcan Energy Resources, hanno concentrato la loro attenzione sulla porzione meridionale del campo geotermico della Toscana Meridionale e del Lazio Settentrionale dove, nel tempo, sono stati perforati più di 800 pozzi per ricerca e produzione di energia geotermica.
Vulcan Energy Resources ha stipulato una collaborazione strategica con Enel Green Power per sviluppare i depositi di litio geotermico italiano forte anche dell’esperienza acquisita in Germania dove si trova in una fase più avanzata di sviluppo di questa tecnologia.
La Direct Lithium Extraction (DLE) è un insieme di tecnologie per estrarre il litio dalle salamoie sotterranee, tanto quelle presenti nel Triangolo del litio quanto quelle nel nostro sottosuolo, con una varietà di metodi attualmente in fase di sviluppo. I benefici dovrebbero consentire di aumentare il tasso di recupero del litio dalle salamoie riducendo al contempo l’uso di acqua dolce: il vero punto critico dell’estrazione del litio.
Oggi nel Triangolo del litio l’acqua, ricca di litio, viene pompata in superficie e lasciata evaporare, ma questo influenza i bilanci idrici in quelle regioni già stressate dalla siccità. Questo processo, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (IEA), richiede circa 2 milioni di litri di acqua per tonnellata di litio prodotta ed alcuni studi hanno identificato una correlazione negativa tra l’espansione delle attività di estrazione del litio e l'indice di umidità del suolo, con le inevitabili conseguenze in una regione desertica.
D’altra parte anche l’estrazione del litio dalle rocce non è priva di rischi per le risorse idriche: un paio d’anni fa sembrava che la Serbia potesse produrre tutto il litio che serviva all’Europa, e le premesse c’erano tutte: un importante riserva di minerale, operazioni gestite dalla seconda compagnia mineraria al mondo, Rio Tinto, importanti investimenti, eppure non se ne è fatto niente. Perché? Perché le popolazioni locali hanno temuto che la miniera potesse compromettere le loro risorse idriche ed il governo ha preferito fare marcia indietro.
La tecnologia DLE dovrebbe superare questo problema e consentire un’impronta di carbonio inferiore rispetto ai metodi di estrazione tradizionali. Ma per quanto debba entrare in produzione a breve non si hanno dati certi sull’effettiva applicabilità sul campo. Infatti i tecnici del Karlsruhe Technology Institute tedesco vedono il piano di Vulcan Energy per sfruttare le risorse di litio geotermico tedesco come irrealistico. Sostengono che le analisi sin qui condotte sono ancora in divenire e non sono compiutamente definite le dimensioni e le origini delle risorse di litio nei sistemi geotermici. Inoltre, queste tecnologie di estrazione sono in una fase di prototipo che deve ancora superare i test a lungo termine, che non sono ancora nemmeno iniziati. Ma soprattutto che il litio recuperabile, in tempi ragionevoli, coprirebbe circa il 10% della quantità necessaria in Germania.
Altro aspetto che richiederà tempo, come sottolineato anche da Enel Green Power, sarà l’analisi della risposta dei serbatoi all'estrazione continua ed sulla loro efficienza economica oltre al sostegno e l'accettazione del pubblico.
Pertanto, anche in questo caso, è opportuno rimanere con i piedi ben ancorati al… sottosuolo. Oggi il litio vive, ancora, un momento di mercato eccezionalmente favorevole ma l’evoluzione tecnologica evolve rapidamente e tutto lascia intuire l’ingresso nel mercato di nuovi elettroliti: si pensi alle batterie agli ioni di sodio. D’altro canto i tempi di sviluppo di un’attività estrattiva nel settore del litio in Europa, secondo l’IEA, hanno un tempo stimato tra i cinque ed i dieci anni: tempi evidentemente non compatibili con quelli del mercato.
Le materie prime critiche nella storia mineraria d'Italia
La ricerca di materie prime critiche dettata dalle necessità della transizione verde ha nuovamente messo sotto ai riflettori alcuni dei siti minerari storici italiani molti dei quali in disuso da decenni ma, secondo recenti esplorazioni, ancora potenzialmente fruttiferi. Tra le 16 materie basilari per l’industria green individuate in Italia, l’esempio di tre siti minerari con una lunga storia alle spalle nell’estrazione di cobalto, zinco e piombo. E il litio ricavato da una risorsa naturale, la geotermia.
Il cobalto di Usseglio
Il sito minerario di Usseglio, nelle Valli di Lanzo piemontesi, è un insediamento estrattivo antichissimo. Tracce dello sfruttamento dell’area sono già presenti in documenti della metà del secolo XIV, dove nella vasta area della zona di Punta Corna, a quote fino ad oltre 2.800 metri, si estraevano metalli destinati alla locale industria di Lanzo, specializzata nella produzione di leghe metalliche. La zona estrattiva di Usseglio è categorizzata come «polimetallica» in quanto oltre ai minerali di ferro delle origini medievali del sito si estraeva anche l’argento già dalla prima metà del Trecento.
Il cobalto fu estratto a partire dal 1753, parallelamente ai solfuri di rame, destinato all’industria dei coloranti ed esportato in Germania. Lo sviluppo del sito di Usseglio come tutto il comparto minerario dello Stato sabaudo fu dovuto all’opera di Spirito Benedetto Nicolis di Robilant, ingegnere, esperto di minerali e ispettore generale delle miniere del Regno. Reduce da un lungo viaggio attraverso le miniere tedesche, Di Robilant strutturò gli impianti per la lavorazione di Cobalto sul modello studiato in Sassonia. Simile a quelle tedesche erano le fabbriche per la raffinazione costruite ai piedi della Punta Corna e della Torre d’Ovarda, nel cui ventre furono scavate decine di gallerie, alcune delle quali molto lunghe e profonde. Il funzionamento delle miniere di Usseglio fu altalenante in quanto dipendente dalle richieste del mercato che, oltre a quello dei coloranti per la ceramica, comprendeva anche la produzione del vetro. Ad una crisi corrispondente all’età napoleonica, le miniere della valle di Lanzo ebbero una ripresa nella prima metà dell’Ottocento per poi essere definitivamente abbandonate nel 1848. Il sipario, calato nell’anno dei moti rivoluzionari, fu di nuovo riaperto per un brevissimo periodo tra la fine della Grande Guerra e gli anni Trenta quando il sito minerario fu nuovamente esplorato per una eventuale ripresa dell’estrazione del cobalto in particolare nella zona detta di Bessanetto (Punta Corna) e Torre d’Ovarda. I primi risultati non diedero buone speranze in quanto il tenore del cobalto contenuto nei campioni variava da un minimo di 1,2% a un massimo del 3,2%, dati che generarono sfiducia nella redditività delle miniere se riattivate. Uno studio esplorativo successivo svolto nel 1934 indicò dati apparentemente molto più incoraggianti. Sotto la Punta Corna fu analizzato un campione la cui composizione chimica rilevò una percentuale di cobalto oltre il 24% e pochissimo materiale di risulta (ganga). Al giudizio positivo dato in questo caso si ponevano ad ostacolo le caratteristiche orografiche inadatte anche per l’installazione di un impianto teleferico o per la costruzione di una strada di servizio. Le quote elevate ed il lungo e rigido inverno, inoltre, riducevano di molto il periodo di operatività della miniera, alla quale negli anni Trenta si erano interessate la Fiat e l’ingegner Luigi Gerbella (referente del settore minerario presso il Ministero delle Corporazioni e nel dopoguerra direttore generale dell’Agip di Enrico Mattei). L’attuazione in Italia dell’autarchia dopo le sanzioni seguite alla guerra d’Etiopia spinse il Ministero dell’Industria a nuove esplorazioni anche nei siti di Usseglio. Il campionamento del 1937 però diede risultati deludenti, che ribaltarono l’ottimismo di tre anni prima. Il cobalto fu rilevato in percentuali non sufficienti a garantire l’economicità dell’attività estrattiva, che sarebbe stata ulteriormente gravata da ingenti costi di adattamento delle gallerie dell’Ottocento ormai impraticabili. L’idea di riprendere gli scavi fu abbandonata e tre anni dopo arrivò la guerra.
Il piombo e lo zinco di Gorno
Una delle miniere interessate attualmente da nuove esplorazioni da parte dell’australiana Altamin è quella di Gorno, in alta Val Seriana. Tra San Pellegrino Terme e Clusone, la Valle del Riso nasconde più di 130 chilometri di gallerie e oggi anche un ecomuseo dedicato alla lunga storia del sito minerario della bergamasca. Passando da Costa Jels, poco dopo l’abitato di Gorno, sono visibili tutt’oggi le vestigia degli impianti (teleferiche, tramogge) in funzione fino all’inizio degli anni Ottanta, quando il sito fu chiuso definitivamente in quanto divenuto antieconomico.
Le miniere di Gorno sono antichissime. Lo sfruttamento dell’area mineraria iniziò 2.000 anni fa in epoca romana, con l’estrazione di blenda (o sfalerite, da cui si ricava lo zinco) e di calamina, le basi per la produzione di due materie critiche chiave per la produzione di batterie: il piombo e lo zinco.
Poco si conosce dell’attività delle miniere di Gorno in età medievale; tuttavia, la presenza in loco di Leonardo da Vinci ne confermerebbe lo stato di funzionamento quando nel 1506 studiò i giacimenti della Val del Riso e di Dossena lasciando testimonianza nelle mappe e negli appunti oggi conservati a Londra, nella biblioteca reale di Windsor. Furono però i progressi in campo chimico e mineralogico della fine del XVIII secolo, uniti alle nuove necessità della prima rivoluzione industriale a scrivere gran parte della storia della produzione di piombo e zinco nelle gallerie dell’alta Val Brembana.
La prima concessione, del 1872, fu accordata ad un imprenditore minerario sardo, l’avvocato Giacomo Sileoni. Il 17 settembre firmava il contratto per l’estrazione di calamina su un’area di 400 ettari. Erano i primi passi verso il massiccio sfruttamento del bacino minerario, reso fruttifero dalle richieste di piombo e zinco da parte di più settori industriali, dagli acciai al vetro alla chimica. La gestione di Sileoni, continuata per un breve periodo dalla figlia Artemisia, fu rilevata dapprima dagli inglesi della Richardson e in seguito, per un lungo periodo, dalla English Crown Spelter (proprietaria di miniere di zinco nello Swansea in Galles). Alla fine dell’800, parte del complesso minerario della zona di Gorno fu gestito anche da Flaminio Modigliani, banchiere livornese padre del più famoso artista Amedeo. La sua avventura mineraria, partita dalla Sardegna ed approdata allo zinco e al piombo dell’Alta Val Seriana, si interruppe alla fine del XIX secolo per il dissesto economico generato anche dal crac della Banca Romana. Dai primi anni del nuovo secolo gli inglesi della English Crown Spelter portarono la produttività del sito ai massimi livelli, con un picco di 17.000 tonnellate di minerale scavato da circa 600 minatori addetti. La Grande Guerra fu una cesura in quanto mise in sofferenza gran parte delle società minerarie europee. La corsa della English Crown Spelter si arrestò all’inizio degli anni ’20 a causa delle ulteriori difficoltà generate dal biennio rosso 1920-21 quando il trasporto dei minerali fu paralizzato dagli scioperi degli addetti ai trasporti ferroviari e da quelli dei lavoratori del porto di Genova. La crisi che ne seguì fu alla base di un nuovo passaggio di proprietà, a favore della belga Vieille Montagne, società pioniere dell’elettrolisi nel trattamento dello zinco. Sotto la direzione dell’ingegnere Luigi Noble il sito minerario di Gorno vide il ritorno ai valori produttivi d’anteguerra, alternati a fasi di calo ma comunque alti sia per materiale estratto che per livello occupazionale. La rottura successiva avvenne con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 e la conseguente nazionalizzazione operata dal governo Mussolini. Le miniere di zinco e piombo furono poste sotto l’amministrazione dell’ente pubblico A.M.M.I. (Azienda Minerali Metallici Italiani) per poi cambiare nuovamente gestore nel 1946 con l’ingresso della Società per Azioni Piombo e Zinco (S.A.P.E.Z.) in seguito confluita nuovamente nell’orbita A.M.M.I.
Gli anni dal 1954 al 1970 rappresentarono una nuova vita per le miniere della Val del Riso, con l’allargamento del sito di Costa Jels dato il rapido esaurimento dei vecchi filoni per l’intensa attività estrattiva. Furono implementate anche le infrastrutture con la costruzione di nuove teleferiche e razionalizzato il trattamento del minerale con un’unica grande laveria a Gorno. Per tutti gli anni Sessanta gli impianti lavorarono a pieno ritmo. Fu con il decennio successivo che irruppe la crisi, generata sia dalla contrazione internazionale del mercato che da motivazioni contingenti alla gestione e all’ammodernamento delle opere. Le maestranze furono temporaneamente impiegate in lavori di manutenzione e di esplorazione che purtroppo non portarono a risultati di rilievo e a partire dalla prima metà degli anni Settanta cominciò la dismissione che si concluse dieci anni dopo, con la chiusura definitiva nel 1982.
Il litio nel Lazio e in Toscana: una materia critica da un’antica fonte energetica, la geotermia
In Italia, un’ampia area geografica è attualmente interessata da richieste di esplorazione per l’estrazione del litio, un metallo fondamentale per la produzione di batterie per usi che spaziano dagli smartphone ai computer alle auto elettriche. Si tratta di una materia prima critica già utilizzata in passato soprattutto in campo farmaceutico, chimico e metallurgico. Il primo produttore di litio al mondo è l’Australia, che lo estrae dalle rocce dei suoi immensi giacimenti. Per quanto riguarda l’Italia, la presenza del prezioso metallo (malleabile e tra i più leggeri in natura) coincide con un’altra risorsa naturale presente nel sottosuolo: le fonti geotermiche. La Toscana meridionale, il monte Amiata, il lago di Bracciano, la zona di Campagnano alle porte di Roma fino ai Campi Flegrei in Campania sono caratterizzate dalla presenza di questo fenomeno naturale al quale i minerali di litio sono strettamente legati.
Il ritrovamento di acqua ricca di litio nel Lazio risale a circa mezzo secolo fa, quando l’Enel scavò un pozzo profondo oltre 1.300 metri alla ricerca di acqua calda a Cesano (Roma). In quell’occasione, l’analisi delle acque rivelò una presenza di litio altamente concentrato, attorno ai 350 mg/l, decenni prima che le richieste della transizione ecologica rendessero il metallo così ambito.
Ma la storia del litio in Italia ha radici più antiche, strettamente legata allo sfruttamento della geotermia iniziato nel secolo XIX. Prima dello sviluppo della chimica e delle tecnologie minerarie, la valle toscana sulle colline metallifere dove sorge la centrale geotermica di Larderello incuteva timore nella popolazione per i vapori e i geyser che la terra rilasciava. Si dice che Dante Alighieri la conoscesse e che si fosse ispirato alla sua atmosfera surreale per descrivere la discesa agli inferi nella Commedia. Si ipotizza che il toponimo di Montecerboli, comune della valle dove l’avventura dello sfruttamento geotermico ebbe inizio, fosse derivato dall’antico nome di «Mons Cerberus», ossia la collina che richiamava il nome del mitologico Cerbero, il cane a tre teste custode dell’Ade.
Fu alla fine del 1700 che la scienza contribuì a dipanare le paure e le superstizioni sulla «Valle del Diavolo», quando l’evoluzione della chimica scoprì le applicazioni dell’acido borico. La geotermia in questo caso serviva per la lavorazione dell’elemento chimico che veniva riscaldato in grandi coltivazioni, le quali sfruttavano il calore dell’acqua che si trovava nel sottosuolo in grandi quantità. Il padre della geotermia e della produzione di acido borico (per questo motivo i soffioni di Larderello sono detti «boraciferi») fu il francese François Jacques De Larderel, ingegnere e imprenditore trasferitosi a Livorno negli anni del granduca Leopoldo II. Larderel fu il primo ad impiantare un sistema di sintesi dell’acido borico che sfruttava l’acqua bollente dei cosiddetti «lagoni» geotermici. All’inizio del XX secolo, un’ulteriore evoluzione tecnica porterà ad un secondo sfruttamento delle acque calde per la produzione di energia elettrica. Grazie al genero di Larderel, Piero Ginori Conti, nel 1904 in località Pomarance (ribattezzata in seguito Larderello) nasceva la prima centrale basata su energie rinnovabili, ancora oggi in funzione sotto la gestione Enel.
Il sottosuolo delle colline metallifere, così come quello del Lazio e della Campania, è ricco di litio presente nelle brine generate dallo sfruttamento delle acque geotermiche, che con il tempo e le alte temperature generano la dissoluzione dei minerali e la conseguente concentrazione di litio in depositi naturali, la cui estrazione risulta essere tra i procedimenti meno impattanti a livello ambientale. Una storia, quella del litio geotermico italiano, ancora tutta da scrivere.
È sempre muro contro muro tra Pristina e Belgrado, con la comunità internazionale e la diplomazia che stanno mettendo in campo ogni iniziativa utile a scongiurare lo scoppio di un vero e proprio conflitto. La Casa Bianca ha reso noto che il vice consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Jon Finer, ha invitato il Kosovo e la Serbia a prendere provvedimenti per far tornare la calma nel nord del Kosovo. Secondo quanto riferito giovedì Finer ha parlato con il primo ministro kosovaro, Albin Kurti, e con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, ai quali ha espresso la preoccupazione degli Usa per la situazione nel nord. Ieri il diplomatico americano Gabriel Escobar si è recato a Pristina insieme con l’inviato Ue per i Balcani occidentali Miroslav Lajcak. I due sono attesi oggi a Belgrado.
Durante l’ultimo summit della Comunità politica europea in Moldova, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il presidente francese Emmanuel Macron e l’Alto rappresentante per gli affari esteri dell’Ue Josep Borrell hanno invitato i leader di Kosovo e Serbia a stemperare le tensioni. Durante l’incontro è emersa la richiesta di tenere nuove elezioni municipali nelle quattro città a maggioranza serba del Kosovo settentrionale, dove è scoppiata la violenza in seguito al tentativo di insediamento dei sindaci albanesi eletti solo grazie al boicottaggio delle votazioni da parte della comunità serba. A margine del summit in un breve incontro alla presenza sia del presidente serbo Aleksandar Vučić sia della presidente kosovara Vjosa Osmani, quest’ultima ha accusato il leader di Belgrado «di piagnucolare, lamentarsi e non dire la verità» ma si è comunque detta «aperta alla possibilità di indire nuove elezioni, se queste venissero svolte legalmente». Questo soddisferebbe una delle condizioni poste da Macron e Scholz per risolvere la crisi. Vučić in precedenza aveva affermato che le autorità del Kosovo «dovrebbero ritirare sia i presunti sindaci sia le unità speciali di polizia che si trovano nel nord del Paese illegalmente».
A dividere serbi e kosovari ci sono ragioni che affondano nella notte dei tempi ma sotto la superficie terrestre si trovano circa 25 miliardi di euro di risorse naturali delle quali si parla poco ma che non sono certo estranee alla rivalità tra i due Paesi, con la Russia che osserva molto da vicino quanto accade. Il settore minerario del Kosovo ha un potenziale economico significativo che va oltre le riserve di carbone dei tre bacini, Kosovo, Dukagjini e Drenica, e di piombo e zinco della cosiddetta «fascia metallogenica di Trepça»: una fascia di territorio lunga 80 km e larga 30 che si estende nella parte nord-orientale del Kosovo da Albanik (Leposavic) a Gllame (Gjilan).
Argento, nichel, ferro, bauxite, cromo, cobalto, oro, rame, cadmio, bismuto ed altri minerali industriali sono alcune delle risorse presenti nel sottosuolo del Kosovo. Il 2022 è stato uno degli anni più redditizi per le compagnie minerarie del settore del carbone ed il Kosovo è ritenuto in grado di diventare nel giro di una generazione il fornitore di energia per l’intera Europa sudorientale, con un settore in grado di occupare circa 35.000 addetti ed una produzione annua di 17 milioni di tonnellate. Il settore del piombo e zinco è oggi sottosviluppato se si considera che il distretto minerario di Trepça occupava oltre 22.000 addetti rispetto agli odierni 2.500 con la vicina Europa che dipende dalle importazioni per il suo fabbisogno di piombo e zinco per il 17% e 71% rispettivamente. Anche il settore del nichel con la NewCo Ferronikeli, attualmente il più importante esportatore di metalli in Kosovo, è in grado di produrre 6.800 tonnellate all’anno.
In passato sono state condotte numerose prospezioni geologiche ma, ad oggi, non si dispongono di dati certi, per cui, pur essendoci evidenze geologiche che suggeriscono la presenza di potenziali depositi di minerali economicamente redditizi, non si è in grado di determinarne l’effettiva consistenza. Depositi di uranio e torio sono stati scoperti da campagne di prospezione realizzate durante l’era iugoslava cosi come la presenza di riserve d’oro fa intuire la potenzialità di depositi di rame. È stata rilevata la presenza di terre rare ma al livello attuale delle conoscenze è impossibile fare una stima. Significativi depositi di magnesite, sono presenti nella zona montuosa di Golesh dove si stima una risorsa di 4,1 milioni di tonnellate che, con un mercato europeo che produce meno dell’1% del magnesio che utilizza, assume crescente importanza.
Secondo stime conservative dell’Economic Initiative for Kosovo il valore delle risorse naturali si attesta tra i 13,5 e i 25 miliardi di euro. Una stima che va rivalutata poiché risale al 2013, periodo in cui il settore dei metalli era in stato di crisi, mentre oggi la crescente domanda dovuta alla transizione energetica, fa prevedere che i metalli presenti nel sottosuolo del Kosovo come magnesio, rame, cadmio, argento e cobalto diventeranno ancora più preziosi, costosi e ambiti.





