Secondo i dati della U.S. energy information, la riserva strategica di petrolio degli Stati Uniti, più comunemente nota come Spr (strategic petroleum reserve), si attesta attualmente a 346 milioni e 800.000 barili, il livello più basso registrato dal 1983, pari a circa 18 giorni di rifornimenti. La capacità totale di stoccaggio di questa sorta di «salvadanaio» da shock di approvvigionamento è di 714 milioni di barili.
Più precisamente, la Spr statunitense ha iniziato a diminuire dal 2017, ma è con l’amministrazione Biden che si è registrato il calo più significativo da sempre, con l’immissione sul mercato di circa 180 milioni di barili in sei mesi (quasi cinque volte più grande di qualsiasi vendita precedente), al fine di calmierare il prezzo alla pompa cresciuto sulla scia del costo del barile, evitando una sonora sconfitta alle elezioni di medio termine del Congresso a novembre 2022 (dall’inizio del 2023, negli Stati Uniti, il costo alla pompa è calato del 20% circa).
Secondo Bloomberg, nonostante lo U.S. energy department si sia pubblicamente impegnato a riempire nuovamente la riserva strategica del Paese, saranno necessari decenni, se mai accadrà, vista la mancanza di finanziamenti, l’invecchiamento delle infrastrutture e i rilevanti costi da sostenere.
Nello specifico, il prezzo medio pagato per il greggio contenuto nella Spr è stato di 29,70 dollari al barile a fronte dei 75-80 dollari al barile attuali. In base ai dati forniti da Kevin Book, amministratore delegato di Clearview energy partners, il dipartimento avrebbe a disposizione 4,3 miliardi di dollari per l’acquisto di greggio, sufficienti per circa 61 milioni di barili ad un prezzo di 70 dollari al barile. Per riportare il livello della Spr ai massimi del 2009, occorrerebbero oltre 300 milioni di barili al costo di 70 dollari al barile per un totale di ben 21 miliardi di dollari.
Secondo Benjamin Salisbury, direttore della ricerca presso Height capital markets, sebbene ci sia una discussione in corso sul livello della ricarica della riserva Usa, non esiste affatto unanimità in merito a quale potrebbe essere il livello giusto: «Vogliamo davvero spendere 7 o 8 miliardi di dollari per ricaricare la Spr, se siamo ancora perfettamente in grado di produrre il nostro petrolio?», ha sostenuto Salisbury lo scorso 17 luglio.
In realtà, il direttore di Height capital markets ritiene che il concetto di sicurezza energetica del Paese sia profondamente mutato nel tempo grazie all’uso della tecnica del fracking (fratturazione idraulica) che ha permesso agli Stati Uniti di diventare - al momento - il principale produttore di «oro nero» (tight oil) al mondo.
Nello specifico, quando l’Spr fu concepita nel 1975, i produttori in Medio Oriente negavano il greggio agli Stati Uniti. Al tempo, gli Usa producevano 8 milioni e 400.000 barili al giorno, importavano 4 milioni e 100.000 barili al giorno, mentre le importazioni nette di greggio e prodotti petroliferi erano di 6 milioni e 200.000 barili al giorno in base ai dati di Oilprice. Ad oggi, la situazione si presenta ben diversa visto che le importazioni nette degli Stati Uniti sono a -1 milione e 300.000 barili al giorno (le importazioni di greggio Usa sono tutt’ora oltre 6 milioni di barili al giorno, in aumento dal 2020 compreso), mentre la produzione di greggio supera i 12 milioni di barili al giorno, in base alle statistiche della U.S. Energy information administration.
Quindi, rispetto ai decenni trascorsi, gli Stati Uniti potrebbero avere meno bisogno di erigere una Spr così imponente dinanzi ad eventi climatici straordinari, come fu per l’Uragano Katrina nel 2005, in Louisiana, quando il ruolo della Strategic petroleum reserve si manifestò chiaramente, contribuendo ad evitare una crisi energetica grazie ai depositi sotterranei.
Non a caso, il 23 marzo, il Segretario all’energia degli Stati Uniti d’America, Jennifer Granholm, aveva già sostenuto che «sarebbero stati necessari anni per ricostituire la riserva strategica di petrolio», se non altro per evitare picchi di prezzo, proprio il fattore che ne aveva innescato le vendite.
Tuttavia, tenuto conto che la produzione da scisto Usa non cresce più come una volta – anzi, si è sostanzialmente stabilizzata e non è affatto escluso che possa recedere negli anni a venire - mentre il riacquisto di cui parla la Granholm non potrà essere sostenuto onde non ridare slancio all’inflazione (agli attuali ritmi, gli Usa necessiteranno di 7 anni per ripristinare 256 milioni di barili), l’impressione è che la leva statunitense nel mercato petrolifero globale possa comunque uscirne indebolita, rendendo gli Usa più vulnerabili agli choc di prezzo, ma soprattutto alle decisioni dell’Opec plus.
Inoltre, alla luce del conflitto in Ucraina, è difficile immaginare che gli Usa possano desiderare un ulteriore aumento della pressione delle sanzioni del G7 sulle esportazioni di petrolio russo, ha dichiarato Alexander Malanichev, docente presso la Russian economic school, il 19 luglio scorso.
Da ultimo, la scelta Usa relativa alla gestione della Spr potrebbe risultare fatale dinanzi ad un eventuale conflitto con la Cina che, con ogni probabilità, si risolverà in favore del contendente che saprà mantenere più a lungo aperti i canali dei flussi petroliferi (e gasiferi) marittimi. Frattanto, ci informa Oilprice, Pechino – con l’aiuto delle forniture a basse prezzo di Mosca – accelera le scorte di greggio al tasso più alto in tre anni, riserve strategiche comprese.
A sei mesi dall’entrata in vigore dell’embargo Ue sulle esportazioni di greggio russo via mare (a tre mesi, per i prodotti raffinati), prosegue con vigore la ridefinizione dei flussi petroliferi a livello globale. Nello specifico, in base alle statistiche dell’International energy agency, a maggio il 56% delle esportazioni russe di greggio e prodotti raffinati è stato assorbito da Cina e India (un altro 12% da America Latina, Africa e Medio Oriente). Antecedentemente, il 24 febbraio 2022, tale quota raggiungeva a stento il 25%.
La ridefinizione delle rotte del petrolio è uno degli aspetti attraverso cui si manifesta il tentativo di imprimere nuove direttrici all’integrazione produttiva e commerciale globale, con una più netta separazione fra blocco occidentale e blocco euro-asiatico. Il mutamento è stato accelerato dall’intervento militare russo in Ucraina e riflette il contrasto fra Stati Uniti d’America e Cina per la supremazia sulle relazioni economiche internazionali.
Secondo l’Amministrazione generale cinese delle Dogane, a maggio le importazioni cinesi di greggio russo hanno raggiunto il massimo storico di 2.290.000 barili al giorno (b/g): +15,3% anno su anno, +32,4% mese su mese. Conseguentemente, le importazioni cinesi di greggio saudita si sono fermate a 1.720.000 b/g (-16% mese su mese). A esclusione di aprile, dall’inizio del 2023 le importazioni cinesi di greggio russo hanno costantemente oltrepassato quelle saudite. Nel 2022, l’Arabia Saudita era stata il principale fornitore petrolifero del Paese di mezzo.
A maggio, le importazioni indiane di petrolio russo hanno toccato il record di 1.960.000 b/g, pari al 42% del totale. Esse sono state superiori alla somma dei quattro successivi fornitori - Iraq, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti - pari a 1.740.000 b/g (a giugno, le prime stime di Kpler indicano un nuovo massimo a 2.200.000 b/g, di cui una parte è stata saldata in yuan). A febbraio 2022, le importazioni indiane di petrolio russo erano state 66.000 b/g (36.000 b/g a novembre 2021), meno del 2% del totale.
Il petrolio russo viene trasportato in India grazie a una «flotta misteriosa» di gigantesche petroliere di proprietà di una società indiana poco conosciuta ai più, la Gatik ship management, nata circa 18 mesi fa a Mumbai. Secondo gli esperti di spedizioni VesselsValue, a fine 2021 Gatik possedeva solamente due petroliere, diventate 58 ad aprile 2023 per un valore totale stimato di 1,6 miliardi di dollari. Secondo quanto riportato dal Financial Times a maggio, nessuna tra queste ultime è attualmente coperta con assicurazioni di Paesi del G7 o dell’Ue (erano almeno 35 fino a marzo). Inoltre, non è nemmeno chiaro chi sia il proprietario della Gatik ship management. In base a quanto dichiarato dal portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale Usa, gli Stati Uniti non hanno obiezioni agli acquisti di petrolio dalla Federazione russa da parte dell’India, ma auspicano che quest’ultima si conformi al price cap fissato dai Paesi occidentali. «L’India deve fare le proprie scelte sugli acquisti di petrolio», ha detto John Kirby durante un briefing della Casa Bianca la scorsa settimana. «E speriamo di poter continuare a vedere che acquistano petrolio russo al prezzo massimo o inferiore, come hanno fatto». Secondo The Economic Times, ad aprile il costo medio del greggio russo consegnato sulle coste indiane è stato di 68,21 dollari al barile quindi, al di sopra del price cap.
Secondo Bloomberg, nelle quattro settimane precedenti il 18 giugno, le esportazioni russe di greggio via mare sono leggermente diminuite, passando da 3.660.000 b/g a 3.630.000 b/g (7.800.000 b/g le esportazioni russe complessive a maggio), 250.000 b/g in più rispetto a febbraio, quando la Federazione russa annunciò che avrebbe tagliato la propria produzione di 500.000 b/g a partire dall’1 marzo successivo e fino al 30 giugno (poi esteso all’intero 2024). Se, per un verso, Bloomberg ritiene che i dati sulle esportazioni di greggio russo non riflettano alcun taglio reale dell’output, dall’altra il vice ministro dell’Energia russo, Pavel Sorokin, ha più volte sostenuto che la riduzione della produzione c’è stata, ma senza comportare un calo significativo dell’export del Paese.
Le esportazioni di petrolio russo verso Cina e India sono in parte reindirizzate verso la Ue e altri Paesi, anche se una quantificazione precisa è resa difficile dal fatto che i diversi greggi vengono mischiati.
In base al Center for research on energy and clean air (Crea), a marzo 2023 le esportazioni indiane di diesel sono triplicate (anno su anno) a circa 1.600.000 b/g, rendendole uno dei maggiori componenti del commercio India-Ue (Regno Unito compreso). «I Paesi della coalizione del price cap hanno aumentato le importazioni di prodotti petroliferi raffinati da Paesi che sono diventati i maggiori importatori di greggio russo. Questa è una grande scappatoia che può minare l’impatto delle sanzioni sulla Russia», si legge nel rapporto Crea pubblicato il 12 aprile scorso.
Una simile evoluzione è, naturalmente, inevitabile, dal momento che la scelta se aderire o meno alle sanzioni rientra nella sovranità nazionale dei singoli Paesi. Peraltro, se simili triangolazioni avrebbero favorito nel primo trimestre 2023 un aumento congiunturale dell’utile netto della Rosneft del 45,5% (4 miliardi di dollari), la rendita mineraria russa è destinata a registrare, nel corso dell’anno, un consistente ridimensionamento.
Più in generale, in presenza di un rallentamento del ciclo economico occidentale provocato dall’inasprimento delle politiche monetarie, di una ripresa cinese post-Covid che non sembra trovare l’abbrivio desiderato e di dinamiche degli scambi mondiali che nel corso del primo quadrimestre 2023 hanno già virato al negativo, il rischio che nella seconda parte dell’anno ci si ritrovi con un’eccessiva disponibilità di petrolio non va sottovalutato. Una conferma in questo senso sembra venire dalla decisione dell’Arabia Saudita, seguita da analogo annuncio da parte russa, di procedere a nuovi tagli volontari della produzione di petrolio. Al momento, questa decisione non si è rivelata sufficiente a riportare il prezzo del petrolio verso la soglia degli 80 dollari al barile.
Il conflitto in Ucraina continua a fare da sfondo alla ridefinizione degli equilibri energetici fra grandi blocchi di paesi. Come già rilevato in questa sede, già ad aprile 2022, diversi membri dell’Opec plus si erano astenuti in merito alla risoluzione con cui l’assemblea generale delle Nazioni Unite «deplorava» l’invasione russa (5 voti contrari, 34 astensioni, 141 voti favorevoli).
Nello specifico, tra i 13 membri del Cartello Opec, Algeria, Angola, Repubblica del Congo, Iran e Iraq non votarono a favore della risoluzione, bensì si astennero. La Guinea Equatoriale e il Venezuela non parteciparono al voto, anche se il paese latinoamericano – detentore delle principali riserve di greggio al mondo – espresse comunque la propria ferma contrarietà alla risoluzione.
Tra i 10 membri non-Opec, oltre al voto contrario della Federazione russa, Kazakhstan, Sudan e Sudan del Sud si astennero, mentre l’Azerbaijan non partecipò alla votazione.
Trovava così conferma quanto emerso con l’astensione sulla risoluzione al Consiglio di sicurezza allargato del 26 febbraio 2022 da parte degli Emirati Arabi Uniti, un importante alleato militare degli Stati Uniti e membro dell’Opec, che in quell’occasione si allinearono invece al voto di Cina e India.
Il voto all’Onu aveva indubbiamente evidenziato la netta divergenza di valutazioni fra l’area di più antica industrializzazione del pianeta, la cui componente anglosassone si contraddistingueva da tempo per essere in posizione debitoria di capitali, e ampia parte dell’area emergente, di converso caratterizzata dall’essere in posizione creditrice di capitali, a partire da Cina e Federazione Russa.
Un’ulteriore occasione di consolidamento di un blocco di interessi alternativo a quello occidentale si è avuta lo scorso 2-3 giugno 2023, con la riunione presso Cape Town del summit annuale dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Benché non sia stato diffuso alcun comunicato sull’esito dell’incontro, si può ritenere che due siano stati i principali temi all’ordine del giorno.
In primo luogo, secondo quanto anticipato da Anil Sooklal, ambasciatore sudafricano presso i Brics, «l’allargamento del blocco economico emergente e il modo in cui esso può essere raggiunto». Dalla sua formazione nel 2006, l’allora gruppo Bric ha infatti aggiunto un solo nuovo membro, il Sudafrica, nel 2010. Il summit dovrebbe aver aperto la discussione inerente ai criteri per nuove adesioni, che dovrebbe concludersi entro il prossimo agosto quando il gruppo tornerà a riunirsi.
Secondo quanto riportato da Zero Hedge il 2 maggio, sarebbero 5 i Paesi produttori di petrolio – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Algeria e Iran tra i membri Opec, Bahrain tra quelli non-Opec – che avrebbero formalmente espresso richiesta di adesione ai Brics. Il numero di Paesi che avanzerebbe la propria candidatura potrebbe però rivelarsi molto maggiore, arrivando addirittura a 25 (e a quel punto diventerà presumibilmente necessario cambiare l’acronimo del raggruppamento), comprendendo altri importanti produttori di energie fossili come Nigeria e Venezuela per l’OPpec, Kazakhstan, Messico e Sudan per i non-Opec.
Il secondo tema di discussione avrebbe invece riguardato la possibilità di adottare un’unica valuta di riferimento, o più realisticamente un paniere di valute da utilizzare in «parallelo» a quelle nazionali, con l’obiettivo di creare un sistema di pagamenti del commercio intra-Brics alternativo a quello del dollaro. A tal riguardo, centrale sarà il ruolo che assumerà la New Development Bank (Ndb), attualmente presieduta dall’ex presidente del Brasile, Dilma Rousseff. L’istituzione finanziaria ha sede in Cina ed è nata dagli accordi interstatali raggiunti durante il sesto summit dei Brics del 15 luglio 2014, come risposta alla mancata riforma interna al Fondo Monetario Internazionale e il rifiuto dei Paesi più sviluppati di attuare una distribuzione più equa delle quote di voto di Usa e Ue a favore dei Paesi cosiddetti «in via di sviluppo». «I Paesi seri e che si rispettano sono ben consapevoli della posta in gioco, vedono l’incompetenza dei “padroni” dell’attuale sistema monetario e finanziario internazionale e vogliono creare propri meccanismi per garantire uno sviluppo sostenibile, che sarà protetto da dettami esterni», le parole utilizzate dal ministro degli Esteri della Federazione russa, Sergey Lavrov, lo scorso 25 gennaio.
Ad oggi, la New Development Bank ha impiegato 33 miliardi di dollari per 96 progetti nei cinque Paesi membri fondatori, mentre il 29 maggio, avrebbe annunciato l’emissione di obbligazioni panda per un valore di 8,5 miliardi di yuan (pari a 1,23 miliardi di dollari) nel mercato obbligazionario interbancario cinese, con l’obiettivo di finanziare progetti di sviluppo sostenibile. La cifra dell’emissione è esile, ma all’iniziativa è assegnata un’alta valenza politica. In merito al tema del sistema di pagamenti del commercio intra-Brics alternativo al dollaro, la Federazione russa dovrà prestare attenzione nel non spingere eccessivamente su questo tasto che la vede esposta molto più degli altri membri a causa del conflitto in Ucraina.
Attualmente, il blocco dei Brics già esprime infatti il 43% della popolazione mondiale, il 26% del Pil in termini nominali e il 18% del commercio mondiale. Cifre comunque destinate a crescere, tanto che stime di Bloomberg valutano che entro il 2028 i Brics arriveranno a rappresentare il 35% del Pil mondiale, contro il 27,8% del G7. Un riequilibrio che evidentemente sarà tanto più pronunciato quanto più ampia sarà l’adesione di nuovi Paesi al blocco dei Brics. Ne deriverà un’accresciuta capacità di portare il G7 a discutere i principali temi dell’Agenda globale (Fmi, Banca Mondiale, Agenda sul Clima) in maniera più equa rispetto a quanto sia stato fatto sino ad oggi.



