Gli Usa sono primo esportatore mondiale di LNG. La Cina consolida il primato nel clean-tech. Africa e Sud-est asiatico in difficoltà. Petrolio, surplus o carenza? India, Cina e Russia, la geopolitica domina l’energia.
Crollano le forniture di rame, mercato in deficit. Trump annuncia: l’India non comprerà più petrolio russo. Bruxelles mette i dazi sull’acciaio, Bruegel frena. Cina e India litigano per l’acqua del Tibet.
Biden blocca il petrolio russo, le conseguenze. Rame, prezzi in ripresa con la domanda cinese. Il piano di pace di Trump per l’Ucraina prevede lunghe sanzioni alla Russia. Rio Tinto e Glencore verso una clamorosa fusione.
Mosca macina record nelle esportazioni a un prezzo superiore rispetto a quello fissato dal G7 grazie a Cina e India. Da quest’ultimo Paese il greggio, raffinato, parte alla volta dell’Europa. Una scappatoia che riduce l’impatto delle sanzioni per la guerra in Ucraina.
A sei mesi dall’entrata in vigore dell’embargo Ue sulle esportazioni di greggio russo via mare (a tre mesi, per i prodotti raffinati), prosegue con vigore la ridefinizione dei flussi petroliferi a livello globale. Nello specifico, in base alle statistiche dell’International energy agency, a maggio il 56% delle esportazioni russe di greggio e prodotti raffinati è stato assorbito da Cina e India (un altro 12% da America Latina, Africa e Medio Oriente). Antecedentemente, il 24 febbraio 2022, tale quota raggiungeva a stento il 25%.
La ridefinizione delle rotte del petrolio è uno degli aspetti attraverso cui si manifesta il tentativo di imprimere nuove direttrici all’integrazione produttiva e commerciale globale, con una più netta separazione fra blocco occidentale e blocco euro-asiatico. Il mutamento è stato accelerato dall’intervento militare russo in Ucraina e riflette il contrasto fra Stati Uniti d’America e Cina per la supremazia sulle relazioni economiche internazionali.
Secondo l’Amministrazione generale cinese delle Dogane, a maggio le importazioni cinesi di greggio russo hanno raggiunto il massimo storico di 2.290.000 barili al giorno (b/g): +15,3% anno su anno, +32,4% mese su mese. Conseguentemente, le importazioni cinesi di greggio saudita si sono fermate a 1.720.000 b/g (-16% mese su mese). A esclusione di aprile, dall’inizio del 2023 le importazioni cinesi di greggio russo hanno costantemente oltrepassato quelle saudite. Nel 2022, l’Arabia Saudita era stata il principale fornitore petrolifero del Paese di mezzo.
A maggio, le importazioni indiane di petrolio russo hanno toccato il record di 1.960.000 b/g, pari al 42% del totale. Esse sono state superiori alla somma dei quattro successivi fornitori - Iraq, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti - pari a 1.740.000 b/g (a giugno, le prime stime di Kpler indicano un nuovo massimo a 2.200.000 b/g, di cui una parte è stata saldata in yuan). A febbraio 2022, le importazioni indiane di petrolio russo erano state 66.000 b/g (36.000 b/g a novembre 2021), meno del 2% del totale.
Il petrolio russo viene trasportato in India grazie a una «flotta misteriosa» di gigantesche petroliere di proprietà di una società indiana poco conosciuta ai più, la Gatik ship management, nata circa 18 mesi fa a Mumbai. Secondo gli esperti di spedizioni VesselsValue, a fine 2021 Gatik possedeva solamente due petroliere, diventate 58 ad aprile 2023 per un valore totale stimato di 1,6 miliardi di dollari. Secondo quanto riportato dal Financial Times a maggio, nessuna tra queste ultime è attualmente coperta con assicurazioni di Paesi del G7 o dell’Ue (erano almeno 35 fino a marzo). Inoltre, non è nemmeno chiaro chi sia il proprietario della Gatik ship management. In base a quanto dichiarato dal portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale Usa, gli Stati Uniti non hanno obiezioni agli acquisti di petrolio dalla Federazione russa da parte dell’India, ma auspicano che quest’ultima si conformi al price cap fissato dai Paesi occidentali. «L’India deve fare le proprie scelte sugli acquisti di petrolio», ha detto John Kirby durante un briefing della Casa Bianca la scorsa settimana. «E speriamo di poter continuare a vedere che acquistano petrolio russo al prezzo massimo o inferiore, come hanno fatto». Secondo The Economic Times, ad aprile il costo medio del greggio russo consegnato sulle coste indiane è stato di 68,21 dollari al barile quindi, al di sopra del price cap.
Secondo Bloomberg, nelle quattro settimane precedenti il 18 giugno, le esportazioni russe di greggio via mare sono leggermente diminuite, passando da 3.660.000 b/g a 3.630.000 b/g (7.800.000 b/g le esportazioni russe complessive a maggio), 250.000 b/g in più rispetto a febbraio, quando la Federazione russa annunciò che avrebbe tagliato la propria produzione di 500.000 b/g a partire dall’1 marzo successivo e fino al 30 giugno (poi esteso all’intero 2024). Se, per un verso, Bloomberg ritiene che i dati sulle esportazioni di greggio russo non riflettano alcun taglio reale dell’output, dall’altra il vice ministro dell’Energia russo, Pavel Sorokin, ha più volte sostenuto che la riduzione della produzione c’è stata, ma senza comportare un calo significativo dell’export del Paese.
Le esportazioni di petrolio russo verso Cina e India sono in parte reindirizzate verso la Ue e altri Paesi, anche se una quantificazione precisa è resa difficile dal fatto che i diversi greggi vengono mischiati.
In base al Center for research on energy and clean air (Crea), a marzo 2023 le esportazioni indiane di diesel sono triplicate (anno su anno) a circa 1.600.000 b/g, rendendole uno dei maggiori componenti del commercio India-Ue (Regno Unito compreso). «I Paesi della coalizione del price cap hanno aumentato le importazioni di prodotti petroliferi raffinati da Paesi che sono diventati i maggiori importatori di greggio russo. Questa è una grande scappatoia che può minare l’impatto delle sanzioni sulla Russia», si legge nel rapporto Crea pubblicato il 12 aprile scorso.
Una simile evoluzione è, naturalmente, inevitabile, dal momento che la scelta se aderire o meno alle sanzioni rientra nella sovranità nazionale dei singoli Paesi. Peraltro, se simili triangolazioni avrebbero favorito nel primo trimestre 2023 un aumento congiunturale dell’utile netto della Rosneft del 45,5% (4 miliardi di dollari), la rendita mineraria russa è destinata a registrare, nel corso dell’anno, un consistente ridimensionamento.
Più in generale, in presenza di un rallentamento del ciclo economico occidentale provocato dall’inasprimento delle politiche monetarie, di una ripresa cinese post-Covid che non sembra trovare l’abbrivio desiderato e di dinamiche degli scambi mondiali che nel corso del primo quadrimestre 2023 hanno già virato al negativo, il rischio che nella seconda parte dell’anno ci si ritrovi con un’eccessiva disponibilità di petrolio non va sottovalutato. Una conferma in questo senso sembra venire dalla decisione dell’Arabia Saudita, seguita da analogo annuncio da parte russa, di procedere a nuovi tagli volontari della produzione di petrolio. Al momento, questa decisione non si è rivelata sufficiente a riportare il prezzo del petrolio verso la soglia degli 80 dollari al barile.
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Riduci
Massimo Nicolazzi (Imago economica)
L’economista Massimo Nicolazzi che insegna Risorse energetiche a Torino: «Ci sono interi settori, come cemento e acciaio, che non riescono a funzionare con l’elettricità. La transizione rapida aumenterà le disuguaglianze sociali».
«Possiamo fare a meno del fossile? La risposta oggi è: tecnicamente ancora no». Massimo Nicolazzi non è uno che, su questo tema, possa esprimere giudizi affrettati. Docente di Economia delle risorse energetiche a Torino, ha scritto uno splendido Elogio del petrolio per Feltrinelli e ha accumulato una esperienza trentennale nel settore energetico, lavorando per compagnie come Eni e Lukoil. Non può essere definito in alcun modo - nemmeno dai più fanatici - un «negazionista». Semplicemente si limita a mettere in fila alcuni dati di fatto. E a fare presenti i costi sociali di una transizione ecologica brutale come quella che ci viene imposta oggi.
«Il fossile per essere sostituito dalle rinnovabili ha bisogno di essere distribuito da generazione elettrica», ci spiega. «Le rinnovabili e il nucleare riusciamo a usarli solo in forma elettrica. Ci sono alcuni settori dove questo non è ancora completamente possibile, i settori cosiddetti hard to abate: acciaio, trasporti pesanti, cementifici. Lì ancora senza fossile non si va in temperatura, o non ci si va a sufficienza. Su tutto il resto, in buona parte, tecnicamente ci potremmo essere, però dobbiamo ricordarci che non basta cambiare la fonte, bisogna cambiare anche i convertitori».
Ovvero?
«Tutti i convertitori oggi sono alimentati a fossile: dalle turbine parlando di cose grosse, al gas di cucina, al boiler. Siamo in un mondo che si avvia verso i 9 miliardi di persone: la sostituzione dei convertitori non mi sembra possibile per domani mattina. In ogni caso, per cambiarli si renderebbero necessari degli aiuti, nel senso che la signora Gina non passa dalla cucina a gas alla cucina a convenzione giusto perché è animata da sano spirito verde».
Alla signora Gina però viene detto che deve farlo proprio per difendere la natura e fermare il riscaldamento globale.
«Io rimpiango i tempi in cui eravamo un popolo di commissari tecnici, perché adesso che siamo diventati prima un popolo di virologi e poi di climatologi mi sembra che la situazione stia un po’ peggiorando dal punto di vista dell’informazione. Riguardo al riscaldamento globale abbiamo alcuni dati verificati: sappiamo che è vero che c’è più anidride carbonica nell’atmosfera, che è vero che le acque degli oceani si alzano di qualche millimetro all’anno, e che è vero che dall’inizio dell’altro secolo a oggi la temperatura è cresciuta grosso modo di un grado e mezzo o giù di lì. Nessuno discute questo e nessuno discute del fatto che l’anidride carbonica e i gas serra nell’atmosfera creino un problema di rifrazione, cioè riscaldano. Va tenuto anche presente che senza anidride carbonica nell’atmosfera non saremmo qui, perché la Terra avrebbe una temperatura costante inferiore ai -17°, quindi l’esistenza dell’homo sapiens non sarebbe neanche cominciata».
Come sa sul tema del riscaldamento non è esattamente vero che ci sia accordo totale.
«C’è disaccordo su quanto del caldo sia colpa nostra e quanto sia colpa di fenomeni climatici, solari eccetera che non siamo in grado di analizzare e di valutare compiutamente. Ma questo lo lascerei al dibattito fra gli scienziati: l’Ipcc dice è tutta colpa nostra, qualche autorevole voce dice che non è vero. Io da non scienziato mi permetto di dire: speriamo che sia colpa nostra, perché in questo caso potremmo provare ad agire in qualche modo».
Nel suo libro lei sostiene che esistano due risposte possibili: mitigazione e adattamento.
«Mitigazione significa meno anidride carbonica in atmosfera. Ma se non ho gli strumenti per produrre in maniera decarbonizzata, come faccio? L’unica forma di attenuazione che ho rispetto ad esempio a un cementificio è chiuderlo. Prendiamo un altro caso. Se le acque si alzano posso - come già hanno fatto gli olandesi - costruire dighe. Ma di nuovo: io che non sono un finanziere i soldi per fare la diga che salva Manhattan li trovo in una notte, mentre i soldi per la diga che salva Mogadiscio un po’ meno. Capisce? C’è una sperequazione tra quelli che possono e quelli che non possono adattarsi».
Se capisco bene lei sta dicendo: non tutti sarebbero in grado di attuare le politiche di adattamento richieste in nome della lotta al mutamento climatico.
«Dobbiamo anche considerare che c’è adattamento e adattamento: nel libro mi sono permesso di scrivere che, oltre alla riduzione delle emissioni, ci sarebbe un problema di inquinamento, di salvaguardia del nostro territorio. Posto che i fondi non sono infiniti, bisogna dare priorità alla salvaguardia del suolo e fare interventi che si rendono necessari. Se al posto delle dighe oggi dobbiamo fare invasi, serve un piano nazionale per gli invasi. Ecco, queste sono forme di adattamento che mi trovano assolutamente d’accordo e che anzi mi sembrano prioritarie rispetto ad altre».
Il problema con il riscaldamento globale è il seguente: non solo ci viene detto che esiste ed è colpa nostra, ma che dobbiamo agire subito costi quel che costi.
«Sì ma se si chiama transizione è perché deve appunto essere una transizione. L’appello all’immediatezza è - per tacer d’altro - socialmente disastroso. Se lei interviene con tassazioni, obblighi d’acquisto o altre misure pesanti (divieti e quant’altro) sulla spesa delle famiglie, ottiene effetti devastanti. Si ricordi che i gilet gialli sono nati in Francia a seguito di un aumento della benzina venduto come carbon tax. In democrazia per fare la transizione energetica, oltre ai capitali e alla tecnologia, ci vuole anche un po’ di consenso. Il consenso c’è se noi riusciamo ad andare verso un programma di decarbonizzazione che non acceleri e non aumenti le diseguaglianze sociali che già stiamo scontando. Si tratta di un processo necessariamente progressivo».
Di questo processo potrebbe fare parte il nucleare. Potrebbe risolvere molti problemi per il passaggio all’elettrico, ma ogni volta che viene evocato... Apriti cielo.
«Tanto per cominciare dovremmo cercare di evitare di fare come i tedeschi che han chiuso il nucleare per aumentare temporaneamente il carbone...».
Appunto.
«Il nucleare è oggetto di una delle tante guerre di religione a mio avviso piuttosto noiose che animano, si fa per dire, il parlar di clima e di decarbonizzazione in questo periodo. A me piacerebbe affrontare il tema in maniera molto laica».
Faccia pure.
«Dobbiamo in effetti considerare che oggi qualche difficoltà legata a tempo e soldi l’abbiamo. Le ultime centrali nucleari realizzate in Europa - ce n’è una in Inghilterra in costruzione, ce n’è una in Francia, finalmente ne hanno fatta una in Finlandia - non si riescono a costruire in meno di 15 anni. Si dice che ce la faremo in cinque, ma poi si chiude in 15 o 18, e con costi raddoppiati o triplicati rispetto a quelli iniziali. Qualcuno mi dice: sì, ma in Cina le fanno in cinque o sei anni. Sì, appunto: lo fanno in Cina. Noi non abbiamo le stesse modalità di permitting e di organizzazione. Quindi il nucleare non è una sine cura, allo Stato può essere costoso».
Ma?
«Ma se vogliamo porci laicamente il tema del nucleare dobbiamo passare attraverso una domanda semplicissima: riusciremo a fare a meno dei fossili? E ci riusciremo senza il nucleare? Se qualcuno pensa davvero che nel 2050 si possa andare solo a fonti intermittenti o rinnovabili e comunque non producenti anidride carbonica, allora fa bene a dire no al nucleare».
Però non è uno scenario realistico.
«Appunto. Tuttavia anche gli scettici devono rendersi conto che il tema non è nucleare contro rinnovabili. Semmai è nucleare contro petrolio e carbone. Se non si riesce a utilizzare solo rinnovabili come si fa? Si preferisce continuare a bruciare carbone o, pur sapendo che ci si impiegherà quindici anni, si vuole iniziare a pensare a una nuova capacità nucleare?».
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