- L’Ue liquida il problema dei 13.500 che «scelgono» di scappare con 100 euro a testa. Finisce in manette l’ex premier separatista.
- L’aggressione degli azeri rientra nella strategia, soprattutto americana, che mira ad accerchiare Mosca e isolarla politicamente.
Lo speciale contiene due articoli
Il grande cuore dell’Unione europea non batte per il Nagorno Karabakh. L’enclave armena è finita nelle mani dell’Azerbaijan dopo una guerra lampo e 45.000 profughi avrebbero già lasciato la regione, dove vivevano 140.000 persone. Ma evidentemente sono profughi di serie B, perché l’Ue ha stanziato appena 5 milioni di euro per l’emergenza, ovvero poco più di 100 euro a testa. Non solo, in una nota Bruxelles parla di persone che «hanno deciso di abbandonare» la regione. Insomma, siamo di fronte a «profughi volontari», una vera primizia. Intanto i militari azeri hanno arrestato alla frontiera con l’Armenia Ruben Vardanyan, l’ex presidente dell’autoproclamata Repubblica di Atsakh, nell’enclave che per gli armeni sarebbe «Armenia meridionale» e per gli azeri «Azerbaijan occidentale».
Quella che sta andando in scena nel Nagorno è una guerra a tutti gli effetti, con alcune centinaia di morti, bombardamenti e forze di occupazione in arrivo da Baku. I numeri a disposizione non sono molti, al netto della disinformazione incrociata. L’Ue parla di 13.500 rifugiati che avrebbero già oltrepassato il confine dell’Armenia e di 25.000 persone come possibili destinatari degli aiuti nel paese. La Croce rossa invece fa sapere che sta soccorrendo 60.000 armeni con cibo, cure, vestiti e campi attrezzati. Mentre secondo le autorità di Erevan, capitale dell’Armenia, sarebbero già scappate dal Nagorno Karabakh 45.000 persone. In ogni caso si è di fronte a una situazione drammatica, con un esodo di massa di armeni che tentano di scappare, lasciandosi alle spalle case bruciate e minacce dei soldati azeri. E di fronte a tutto ciò, Mosca, storica alleata dell’Armenia, lascia fare perché con la guerra in Ucraina ha dovuto allacciare stretti rapporti con Baku. Mentre Bruxelles partorisce il classico topolino.
In una nota, ieri l’Unione ha fatto sapere di aver stanziato questi 5 milioni di «fondi umanitari» per «la crisi del Nagorno Karabakh», spiegando che con la «crisi» si è creata «una pesante carenza di cibo, di accesso all’elettricità e all’acqua». Per fortuna, c’è anche un impegno diplomatico, che sta andando in scena con una fitta serie di colloqui con le parti in causa, ma al momento lo sforzo maggiore è sul piano umanitario. Janez Lenarcic, commissario per le Crisi, sostiene che «L’Ue è impegnata a coordinare gli sforzi umanitari sul campo per assistere le persone colpite da questo conflitto». Il problema è che con 5 milioni si combina davvero poco. Per non parlare dello scivolone della Commissione di Bruxelles, che su Twitter ha scritto testualmente: «Dobbiamo essere pronti ad aiutare le migliaia di persone che hanno deciso di fuggire dal Nagorno Karabakh». Come se qualcuno non li avesse terrorizzati e come se fosse una libera scelta, quella di caricare vestiti e qualche oggetto sulla macchina e darsi alla fuga.
Da tre giorni, fanno il giro del mondo le immagini di queste lunghe colonne di auto di armeni che cercano di lasciare l’enclave, dopo i bombardamenti azeri sulla capitale Stepanakert. L’Azerbaijan ha revocato dopo quasi un anno il blocco sul corridoio di Lachin, che aveva causato penuria di cibo, carburanti e medicine. Ma l’esodo è comunque ostacolato dalla difficoltà di fare benzina e dai controlli a tappeto dei militari, con Baku che sostiene di dover cercare tra i fuggiaschi «eventuali criminali di guerra armeni». Intanto, è stato arrestato il miliardario russo Vardanyan, ex capo del governo della autoproclamata Repubblica di Atsakh, mentre cercava di scappare in Armenia.
Sullo sfondo dell’occupazione azera si muovono con grande prudenza Stati Uniti, Russia, Turchia e la stessa Unione europea. Storicamente, Mosca ha sempre appoggiato gli armeni, ma dopo la svolta democratica dell’Armenia ha raffreddato il suo atteggiamento e con l’embargo per la guerra in Ucraina ha invece rinsaldato i rapporti con l’Azerbaigian, che ha a disposizione anche parecchie fonti di energia. Al fianco di Baku è rimasta la Turchia di Recep Erdogan, che lunedì ha incontrato il collega Ilham Aliyev nell’enclave azera di Nakhichevan, tra Armenia, Iran e Turchia, rinnovando accordi militari e collaborazione sui gasdotti. Stati Uniti e Unione europea stanno invece cercando di capire se l’Armenia, che si sente tradita dalla Russia, possa diventare un nuovo alleato dell’Occidente. E intanto annunciano aiuti agli sfollati, anche se in misura ben inferiore all’Ucraina. Emissari della Casa Bianca sono già arrivati in Armenia e a questo punto è assai probabile che arrivi qualche milione in più. Per il resto, la speranza è che non si ripetano gli episodi di pulizia etnica, andati in scena a più riprese negli ultimi trent’anni da entrambe le parti.
L’Occidente sacrifica l’Armenia per fiaccare la Russia
Al di là dell’Ucraina, non sembra vi sia altra aggressione nel mondo, per quanto efferata e brutale possa essere, che riesca a suscitare lo sdegno e la reazione dell’Occidente: oltre alcune esternazioni di circostanza sulla condanna dell’uso della forza e qualche enunciato di mera, algida solidarietà, i governi europei, e la stessa Casa Bianca, non si sono esposti più di tanto nel condannare la barbara aggressione messa a segno in queste ore dall’Azerbaijan con l’obiettivo di spegnere le ultime resistenze armene nella ormai estinta Repubblica dell’Artsakh.
Il dramma, possiamo tranquillamente ammetterlo, non è ora la sconfitta sul piano militare, bensì su quello umanitario.
A migliaia oggi gli armeni del Karabakh si ammassano nei luoghi non ancora espugnati, per sfuggire alle persecuzioni e alle atrocità di cui gli azeri già in passato si son fatti autori. È la popolazione civile ora il bersaglio di Baku.
Le sparute presenze militari armene sono state debellate, le miniere d’oro di Kalbajar, Kashan e Zangilan già conquistate e vendute agli inglesi e le poche armi rimaste in qualche caserma consegnate al vincitore.
Ora restano esposti al secolare odio del nemico solamente i civili, le famiglie incolpevoli, gli anziani, le donne e, come sempre accade, i bambini.
Gli uomini vengono rastrellati nei villaggi, uccisi o incarcerati con l’accusa, falsa e pretestuosa, di banditismo o addirittura di terrorismo.
Come in altri precedenti storici, l’Armenia ancora una volta paga oggi per la sua collocazione in un contesto geopolitico critico e sensibile.
Conteso nei secoli passati tra le potenze confinanti, il Paese si è trovato confrontato dalla dissoluzione dell’Urss con un vicino di casa che, scopertosi un giorno a galleggiare su un mare di gas e di petrolio, è riuscito a sfruttare tale opportunità a tutto vantaggio delle proprie ambizioni territoriali e a beneficio di un’unica famiglia, gli Aliyev, che da decenni governa il Paese in modalità autocratica, sostenuta da un dispotismo funzionale solo alla repressione del dissenso interno e al guadagno personale.
La situazione cui oggi l’Armenia è giunta, è certamente intricata, complessa nelle dinamiche e ambigua nella sostanza.
Fattori geopolitici peserebbero sul suo futuro. E ciò in presenza tra l’altro di una condizione interna del Paese divenuta, con la perdita dell’Artsakh, particolarmente instabile.
Se fino a un decennio addietro il conflitto tra Yerevan e Baku poteva definirsi in termini di un scontro ideale tra il principio di integrità territoriale perseguito dall’Azerbaijan e quello di autodeterminazione dei popoli sostenuto dall’Armenia per il Nagorno Karabakh, ora è divenuto scenario in uno scontro ben più ampio che potremmo contestualizzare nel quadro di quelle azioni che gli Stati Uniti, e per essi la Nato, hanno inteso condurre e mettere in atto con l’obiettivo di singolarizzare la Russia sul piano internazionale, accerchiandone il territorio e dispiegando armi strategiche per tutto il perimetro dei suoi confini occidentali dal Baltico al Caucaso.
Ben sappiamo d’altronde che l’oggetto di questa contesa non è il diritto alla libertà di qualche sprovveduta nazione, o lo spassionato, quanto filantropico, impegno a garantire la democrazia a qualche regime politico perplesso, bensì l’obiettivo, nefando già di per sé, di conseguire una egemonia sul mondo prima che certi Paesi oggi emergenti possano contrastare con la loro crescita l’affermarsi della leadership a stelle e strisce a livello planetario.
Ecco allora che la crisi del Nagorno Karabakh acquista in chiarezza e intelligibilità divenendo, in questa prospettiva, e soprattutto sulla scia della guerra in Ucraina, un altro tassello della strategia occidentale, e americana più in particolare, volta a esercitare un ulteriore condizionamento sul Cremlino.
*Già ambasciatore d’Italia,
presidente onorario
dell’associazione Italo-armena
per il commercio e l’industria
*già ambasciatore d’Italia, presidente onorario dell’associazione Italo-armena per il commercio e l’industria
Ogni popolo porta scritte sulla propria pelle le vicende di cui è vittima. Gli armeni, perseguitati dai turchi ottomani fin dalla fine dell’Ottocento (stragi hamidiane), fatti oggetto dalla stessa mano omicida di uno dei più efferati massacri nel 1915, il primo genocidio del Ventesimo secolo, continuano oggi a subire le accanite angherie degli azeri intenzionati fino in fondo a strangolare con il blocco del corridoio di Lachin le poveri genti del Nagorno Karabakh (Artsakh per gli armeni), loro terra di insediamento storico, ma oggetto dal 1991 di un’aspra contesa con l’Azerbaijan.
Siamo all’esordio di un nuovo genocidio. Questa è la realtà che oggi drammaticamente ci confronta. Un massacro che viene condotto non con le armi, bensì lentamente, gradualmente, a mo’ di stillicidio, impedendo qualsiasi transito da e per la regione che rimane perciò isolata, senza alcuna possibilità di ricevere aiuti alimentari, né medicinali. Un popolo di 120.000 anime costretto ad assistere alla propria fine per mancanza di tutto quanto possa servire alla causa della sua sopravvivenza.
Sarebbe troppo facile ricondurre questa deplorevole condotta tenuta dall’Azerbaijan. Dopo la rovinosa guerra scatenata dagli azeri nel settembre 2020, terminata con una disfatta armena indotta da una degradata situazione geopolitica del Caucaso, la regione del Nagorno Karabakh, che aveva al pari delle altre repubbliche ex sovietiche, compreso lo stesso Azerbaijan, dichiarato all’indomani della dissoluzione dell’Urss la propria volontà di indipendenza (tra l’altro prevista legittimamente da una legge del Soviet supremo), si è trovata drammaticamente amputata di gran parte del territorio risultando di fatto scollegata dalla madrepatria armena con l’eccezione del solo corridoio di Lachin, unica piccola striscia di terra a garanzia del transito di persone e di merci. Orbene dal 12 dicembre 2022 gli azeri, con loro autonoma e arbitraria decisione hanno imposto un blocco al corridoio causando un critico quanto brutale strangolamento della popolazione civile che si è venuta così a trovare priva dei fondamentali presidi assistenziali. A nulla sono serviti gli appelli di Amnesty international, della Croce rossa e di eminenti personalità religiose a rimuovere la disumana misura. Né è valsa la presenza delle unità militari russe dispiegate a garanzia del corridoio a far cambiare idea agli azeri. Baku persevera indifferente nella sua decisione avendo ben in mente l’abietto obiettivo finale: costringere il popolo armeno dell’Artsakh alla sua fisica eliminazione. Una strategia, come lo si evince da fatti già di per sé concludenti, intesa alla epurazione etnica della regione, una pulizia che si realizza non «manu militari», bensì, e più subdolamente, attraverso la privazione di cibo, di medicinali, impedendo il trasferimento dei malati, il ricongiungimento delle famiglie.
Sorprende l’atteggiamento inerte e accidioso di un Occidente incline a pretendere la tutela dei diritti umani in virtù di specifici suoi sordidi interessi, ma mai impegnato a obbligare il trasgressore al loro rispetto per una universale vocazione a obbedire a un dovere di coscienza.
E anche oggi, come in passato, nessuna condanna vediamo da parte dei Paesi occidentali se non qualche sporadica miserevole loro esternazione di biasimo. L’Azerbaijan già da tempo produce e vende all’Europa petrolio e gas e nel luglio del 2022 ha venduto, per fini di sfruttamento, alla società britannica Anglo asian mining diverse importanti miniere di oro ubicate proprio nelle terre strappate agli armeni con l’ultima guerra.
Al contrario, l’Armenia non ha nulla da difendere. Nulla per cui valga la pena di mandare a morire i suoi giovani soldati se non la stessa sua sopravvivenza. Gli armeni dell’Artsakh, in bilico da oltre 30 anni tra una guerra sempre possibile e una pace molto improbabile, lottano per la vita, per non essere cancellati dalla storia, per mantenere viva nelle future generazioni la memoria del loro passato, e soprattutto l’enorme patrimonio di matrice culturale cristiana dal quale noi stessi in Europa abbiamo attinto per condividerne insieme i fondamenti di una comune civiltà.
Ma ricordare i collegamenti che uniscono i nostri popoli europei all’Armenia a nulla serve presso le cancellerie occidentali. Nessuna aperta condanna è giunta da Bruxelles nei confronti di Baku, e tanto meno dagli Stati Unitii. Così, nell’omertoso silenzio dei Paesi occidentali, incoraggiati da un presidente turco che solo alcuni mesi orsono dichiarava a proposito degli armeni che «bisognava continuare l’opera dei padri» (il genocidio), gli azeri insistono imperterriti nel mantenere il blocco di Lachin. La dissacrazione dei valori che si manifesta nella subalternità del diritto all’interesse economico non è forse sintomo di una malattia da cui le nostre società, e per loro le classi dirigenti, risultano oggi drammaticamente affette?
L'ex ambasciatore italiano: «E' l'indipendenza del Karabagh, e non interessi economici legati a cospicue risorse energetiche, la vera partita in gioco tra l'Armenia e l'Azerbaijan».
L'improvvisa recente ripresa delle ostilità tra l'Armenia e l'Azerbaijan, per il conteso territorio del Nagorno Karabagh, confermerebbe ancora una volta come sempre più difficile sia trovare un valido rimedio a un conflitto che dura ormai da oltre vent'anni ricorrendo agli strumenti negoziali offerti dalla mediazione internazionale.
L'aggressione, infatti, perpetrata dall'Azerbaijan il 12 luglio scorso contro insediamenti civili armeni nella località confinaria di Tavush non fa che arricchire la già drammatica vicenda di un tragico portato per via del pericolo ora adombrato di una "escalation" di tensione tra i due Paesi non più mediata dal territorio del Karabagh, bensì direttamenete tra loro col rischio di una ripresa delle ostilità su vasta scala e con conseguenze destabilizzanti per tutta la regione del Caucaso.
Superfluo ricapitolare sul piano storico l'origine e l'evoluzione del conflitto. I fatti sono noti e reperibili su qualunque buon testo di cronaca imparziale e obiettiva. Basti soltanto constatare ai fini di una analisi obiettiva e spassionata che quella del Nagorno Karabagh può ben e fondatamente configurarsi come una delle ultime guerre combattute ancora in nome della libertà.
Aldilà di valutazioni su singoli fatti e circostanze contingenti, possiamo infatti affermare che è l'indipendenza del Karabagh, e non interessi economici legati a cospicue risorse energetiche, la vera partita in gioco tra l'Armenia e l'Azerbaijan, ovvero la libertà di un popolo che in quel territorio aveva il proprio storico insediamento e che solo considerazioni di opportunismo politico avevano indotto l'Unione Sovietica del tempo di Stalin a trasferirlo come "oblast" dalla Repubblica dell'Armenia a quella dell'Azerbaijan. Dunque, un misfatto politico sarebbe all'origine della conflittualità, una decisione odiosa assunta in totale disprezzo di quelli che sono in fondo i fondamentali diritti di nazionalità e di identità culturale ed etnica di un popolo.
Con la dissoluzione dell'Urss tuttavia, il confronto ideologico tra le due comunità non è andato scemando, ma al contrario si è riacceso nutrendosi della negazione opposta da Baku acché il popolo del Karabagh potesse acquistare a termini della legge approvata dal Soviet Supremo nel 1990 sulla "Secessione degli Stati" la propria indipendenza. Un diritto di cui si è ampiamente valsa proprio la Repubblica dell'Azerbaijan senza che lo stesso diritto, spettante ai sensi della medesima legge a entità statuali e a quelle autonome al loro interno, venisse del pari riconosciuto, e legittimamente, anche al territorio del Karabagh. Questa in estrema sintesi la ragione del confronto. Un confronto che si nutre e alimenta, quindi, della inconciliabilità tra due principi internazionali: da un lato quello dell'integratità territoriale sostenuto da Baku, e dall'altro quello dell'autodeterminazione dei popoli, un principio, quest'ultimo, che sbandierato per oltre mezzo secolo dalle Nazioni Unite ha plasmato il mondo conferendovi quelle libertà di cui esso oggi vive.
Ma i fatti dello scorso 12 luglio, a ben osservare, non sembrano potersi collocare in quella lunga teoria di violazioni del "cessate-il-fuoco" che da decenni ormai segnano la storia lungo la linea di contatto che separa il Nagorno Karabagh dall'Azerbaijan. Questa volta l'aggressione è stata portata dagli azeri direttamente in territorio armeno e con una serie di atti bellici e di provocazioni la cui entità, particolarmente drammatica, dovrebbe farci riflettere sulle gravi conseguenze che il deteriorarsi della situazione potrebbe implicare per la stabilità di un'area particolarmente sensibile per via della presenza strategica di importanti condotte energetiche. E' l'Armenia stessa ora ad essere colpita da azioni di guerra deliberatamente intraprese da una dirigenza azera sempre più intenzionata a minacciare l'incolumità degli insediamenti civili di confine configurando addirittura veri e propri crimini di guerra, senza alcun riguardo per il Diritto Umanitario e in piena disobbedienza per i doveri imposti dalle stesse Convenzioni di Ginevra. Ma un elemento ancora, che dettaglio proprio non è, renderebbe quest'ultima aggressione particolarmente odiosa: il folle proclama reso da Baku di voler colpire con missili la centrale atomica di Metzamor ignorando, peraltro, che il conseguente disastro nucleare andrebbe a devastare, oltre all'Armenia, l'Azerbaijan e addirittura la stessa Turchia i cui confini distano solo pochissimi chilometri da quella località.
Dunque, l'aggressione azera si tingerebbe questa volta non solo dei colori detestabili di una retorica bellicistica sempre più insidiosa nel corso degli anni, ma anche di quelli ben più cupi e nefasti del terrorismo! E' l'intimidazione ora la sottile arma degli azeri, la minaccia di un danno estremo che a loro parere dovrebbe piegare la determinazione dell'Armenia ad accettare soluzioni contro i suoi stessi storici interessi. Purtroppo, il prolungarsi del conflitto nel tempo non giova obiettivamente alla causa armena. Il suo protrarsi senza una concreta azione della Comunità internazionale in favore di un obiettivo riconoscimento dei diritti di libertà, rischia di capovolgere la posizione di Yerevan, facendola transitare da una linea improntata alla difesa ad una di aggressione. Impressione, questa, corroborata peraltro dalla speciosa informazione dei circoli legati agli interessi energetici di Baku e dal sostegno apertamente dichiarato dai "fratelli turchi" in un momento in cui gli sforzi di una politica espansionistica condotti spregiudicatamente da Ankara sembra diano i primi frutti nell'inerzia e nella passività di un Occidente che rifiuta, per accidia mentale o per mancanza di coraggio, di vedere come in fondo la Storia rischi molto spesso di ripetersi nelle sue pieghe apparentemente più trascurabili, ma proprio per questo più pericolose.
L'Armenia obiettivamente non avrebbe oggi alcun interesse a compiere atti di aggressione nei confronti dell'Azerbaijan. Affermare il contrario è falso. E' disinformazione. L'Armenia avrebbe già dalla fine delle ostilità nel 1994 conseguito l'obiettivo di "liberare il popolo del Karabagh", peraltro autoproclamatosi indipendente. E tutte le questioni collaterali, di cui tanto si discute nelle sedi di mediazione internazioanle ( dalla restituzione delle 7 regioni azere occupate al ritorno dei rifugiati ed altre ) sono lì, in attesa di una soluzione negoziata che, oggetto, sotto il patrocinio dell'Osce, di continui colloqui bilaterali tra le due Capitali nel corso degli anni, è rimasta sempre una speranza disattesa per improvvida inaffidabilità dei negoziatori azeri.
Dunque, guardiamo a quest'ultima violazione del "cessate-il-fuoco" dell'Azerbaijan come a un pericoloso segnale, un prodromo dell'intenzione perseguita dalla dirigenza di Baku di alterare unilateralmente e con la forza la situazione consolidatasi "de facto" per il Nagorno Karabagh poggiando sulla spregiudicata spavalderia che una Turchia lanciata verso il recupero di ambizioni ottomane di antica memoria può oggi garantire. Un quadro fosco? Può darsi. Ma proprio la consapevolezza dei rischi implicati da questa perdurante crisi caucasica dovrebbe indurre la Comunità internazionale, ma in particolare l'Europa, a non sottovalutare gli effetti destabilizzanti per l'intera regione euroasiatica che la eventuale ripresa di una guerra totale tra i due Paesi avrebbe qualora, messa alle strette, l'Armenia si vedesse costretta a reagire per la propria legittima e irrinunciabile difesa.




