All’indomani dell’incontro vis-à-vis tra il presidente americano, Donald Trump, e l’omologo ucraino, Volodymyr Zelensky, a Mar-a-Lago, sia i diretti protagonisti della guerra che i mediatori americani hanno annunciato che la pace è vicina, nonostante gli importanti nodi irrisolti. Ma si tratta di una visione che è durata poche ore. Si è aggiunto infatti un nuovo elemento che complica ulteriormente il quadro dei negoziati: Mosca ha accusato Kiev di aver lanciato 91 droni, tutti abbattuti, contro la residenza del presidente russo, Vladimir Putin, nella regione di Novgorod. Ne è seguito un botta e risposta tra il Cremlino e l’Ucraina, con Zelensky che ha smentito, sostenendo che si tratti di «tipiche bugie russe» per «avere una giustificazione per continuare gli attacchi contro l’Ucraina» e «per rifiutarsi di compiere i passi necessari per porre fine alla guerra». La conseguenza più rilevante è che, come comunicato dal ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, «la posizione negoziale della Russia sarà rivista». Mosca ha inoltre già scelto i target ucraini «per gli attacchi di rappresaglia». Va però detto che Lavrov ha comunque affermato che Mosca non intende ritirarsi dalle trattative di pace.
Alla notizia del presunto raid ucraino è seguita una nuova telefonata tra Trump e Putin che sarebbe stata «positiva» secondo la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt. In merito al tentato attacco contro la residenza dello zar, secondo quanto rivelato dal consigliere presidenziale russo, Yurij Ushakov, Trump è rimasto «scioccato e indignato»: «Non mi è piaciuto l’attacco ucraino, me lo ha detto Putin, mi sono arrabbiato», ha dichiarato il tycoon, «Una cosa è essere all’offensiva, un’altra cosa è attaccare la sua casa. Non va bene, non è il momento giusto». Ushakov ha anche precisato che l’episodio «certamente influenzerà l’approccio americano alla collaborazione con Zelensky, al quale l’attuale amministrazione, come ha detto lo stesso Trump, grazie a Dio, non ha dato il Tomahawk». La telefonata tra i due leader è stata anche l’occasione per il presidente americano di informare l’omologo russo sui risultati raggiunti con Zelensky. Ma pare che i progressi ottenuti in Florida non abbiano suscitato una reazione positiva da parte del Cremlino. Ushakov ha infatti dichiarato che nonostante «i risultati vadano proprio nella direzione della risoluzione», «lasciano alle autorità di Kiev un margine di interpretazione per eludere l’adempimento dei propri obblighi». E ha aggiunto che «la parte americana», durante i colloqui con l’Ucraina, «ha avanzato in modo aggressivo l’idea della necessità che Kiev adotti misure concrete per una soluzione definitiva del conflitto», chiedendo «di non nascondersi dietro richieste di un cessate il fuoco temporaneo».
Prima dell’ultimo colpo di scena, il leader di Kiev, dopo l’incontro con il tycoon, ha affermato che «il piano di 20 punti è stato concordato al 90%» e il Cremlino si è mostrato concorde con la visione di Trump, secondo cui le trattative sono nella fase finale.
L’ostacolo sempreverde che impedisce la svolta concreta rimane il nodo territoriale, oltre alla gestione della centrale di Zaporizhzhia. Domenica, il presidente americano, riconoscendo che restano sul tavolo «una o due questioni spinose» da risolvere, ha lanciato di persona l’avvertimento a Zelensky: «Conviene raggiungere un accordo» visto che «alcune terre sono già state prese» da Mosca e altre «potrebbero esserlo nei prossimi mesi. D’altronde, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha ribadito che la fine della guerra ci sarà solo con il ritiro di Kiev «oltre i confini amministrativi del Donbass». Dall’altra parte il presidente ucraino non ha intenzione di gettare la spugna: in un’intervista rilasciata a Fox News ha dichiarato che «l’85%» del popolo «è contrario al ritiro delle truppe dal Donbass». Eppure, l’opinione degli ucraini cambia in base al luogo in cui vivono: chi si trova nell’Est del Paese è più propenso a scendere a compromessi. A spiegarlo a Rbc-Ukraine è stato il capo del Rating sociological group, Oleksii Antypovych: «Più si va a Ovest e più forte è la resistenza a qualsiasi concessione territoriale; più si va a Est e maggiore è la disponibilità ad accettarle». Ciò è legato alla linea del fronte: chi vive vicino, stremato dalla guerra, è favorevole a cedere i territori pur di vedere la fine delle ostilità.
Se sui territori prosegue lo stallo, i maggiori risultati dell’incontro di domenica tra Trump e Zelensky si sono registrati nell’ambito delle garanzie di sicurezza. A detta del leader ucraino, Kiev e la Casa Bianca sono «d’accordo al 100% sulle garanzie di sicurezza e sulla dimensione militare». Ciononostante, Zelensky non sarebbe pienamente soddisfatto dalla proposta americana. In uno dei documenti inerenti alla pace in Ucraina, Washington si impegna infatti a fornire le garanzie di sicurezza per un periodo di 15 anni che può essere prolungato. Si tratta di un tempo insufficiente per Zelensky, che quindi ha richiesto a Trump la possibilità di estendere le garanzie di sicurezza «di 30, 40 o 50 anni». E nonostante il leader di Kiev abbia ripetuto che «la presenza di truppe internazionali sia una vera garanzia di sicurezza», sembra invece che il progresso più tangibile a tal proposito riguardi l’idea italiana sulle garanzie simili all’articolo 5 della Nato. In quest’ottica, per la prima volta, Kiev ha partecipato all’esercitazione Loyal Dolos 2025 che riguarda i meccanismi proprio dell’articolo 5 dell’Alleanza atlantica. Durante lo svolgimento, sono state integrate le lezioni apprese dalla guerra in Ucraina, con gli esperti di Kiev che sono stati direttamente coinvolti.
Continua l’avanzata di Mosca nel Donbass e a Zaporizhzhia
Le forze russe continuano a spingere lungo più direttrici del fronte ucraino mentre le unità di Kiev arretrano. È il quadro tracciato dal presidente russo Vladimir Putin al termine di una riunione con i vertici militari convocata al Cremlino per fare il punto sull’andamento delle operazioni. Secondo il capo dello Stato, «la liberazione del Lugansk e delle repubbliche popolari di Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson procede passo dopo passo», mentre «le forze armate ucraine si stanno ritirando lungo l’intera linea di contatto». Putin ha rivendicato in particolare i progressi del raggruppamento di forze Vostok nella regione di Zaporizhzhia. «Dopo l’attraversamento del fiume Gaichur, le nostre truppe hanno sfondato le difese nemiche e avanzano rapidamente in direzione di Zaporizhzhia», ha affermato, sostenendo che le operazioni si stiano svolgendo «in piena conformità con il piano operativo militare». Il presidente ha inoltre sollecitato i comandi a «contrastare con decisione» ogni tentativo ucraino di interferire sull’asse di Kupyansk, assicurando che «le misure necessarie sono già in atto». Nel corso della stessa riunione, Putin ha ribadito l’intenzione di proseguire anche nel 2026 il lavoro per «allargare la zona di sicurezza» lungo il confine russo-ucraino. «È un compito di fondamentale importanza, perché garantisce la sicurezza delle regioni di confine della Federazione», ha sottolineato, precisando che si tratta di un obiettivo destinato a proseguire nel tempo.
A rafforzare la narrazione del Cremlino è intervenuto il capo di Stato maggiore russo, Valery Gerasimov. Secondo il generale, l’esercito ucraino avrebbe ormai rinunciato a operazioni offensive su larga scala, limitandosi a «tentare di rallentare l’avanzata delle truppe russe». Nell’ultimo anno, ha spiegato, 334 insediamenti sarebbero passati sotto il controllo di Mosca e, nel solo mese di dicembre, oltre 700 chilometri quadrati sarebbero stati «liberati». Nel bilancio complessivo del 2025, Gerasimov ha parlato di 6.640 chilometri quadrati conquistati e di 32 località occupate dall’inizio di dicembre, definendo il dato mensile «il più alto dall’inizio dell’anno». Intanto, la guerra si è fatta sentire anche sul territorio russo. Nella notte sono state segnalate esplosioni in diverse località, attribuite ad attacchi con droni lanciati da Kiev contro obiettivi militari e infrastrutturali. Secondo quanto riferito da media indipendenti, forti detonazioni sono state udite nei pressi della base aerea di Khanskaya, vicino a Maykop, nella Russia meridionale. Sirene antiaeree avrebbero risuonato anche nell’oblast di Tula, mentre un’altra esplosione è stata segnalata nella regione di Krasnodar. Nella regione di Samara, invece, sarebbe stata colpita la raffineria di Syzran. Il ministero della Difesa russo ha dichiarato di aver abbattuto complessivamente 89 droni ucraini nel corso della notte. Sul fronte ucraino, mentre il presidente è impegnato in una delicata missione diplomatica, l’analisi della situazione viene affidata ai vertici dell’apparato di sicurezza. Kyrylo Budanov, capo del Direttorato principale dell’intelligence militare, ha delineato uno scenario che non contempla uno stop immediato del conflitto. Secondo le sue valutazioni, almeno un altro mese di guerra appare inevitabile, senza sostanziali cambiamenti nel copione bellico, segnato nelle ultime 48 ore da intensi raid russi. Febbraio, tuttavia, potrebbe rappresentare una svolta. «È il periodo più favorevole sia per la Russia che per l’Ucraina per ottenere qualcosa», ha spiegato, collegando questa finestra temporale sia all’andamento delle operazioni militari sia al fattore stagionale, con l’inverno ormai verso la fine.