
Colpire il programma nucleare iraniano, evitando al contempo non solo un cambio di regime a Teheran ma anche di spaccare la galassia Maga. È stato questo, in estrema sintesi, l’obiettivo ufficiale di Midnight hammer: l’operazione militare americana contro tre siti nucleari della Repubblica islamica, avvenuta nella serata di sabato (orario di Washington). Un’operazione che il capo del Pentagono, Pete Hegseth, ha definito ieri «un successo incredibile e travolgente». «Abbiamo devastato il programma nucleare iraniano», ha proseguito, chiedendo che Teheran torni al tavolo negoziale e sottolineando che la missione «non è stata finalizzata a un cambio di regime». Posizioni, quelle di Hegseth, che sono state ribadite dal vicepresidente americano, JD Vance, e dal segretario di Stato, Marco Rubio. Lo stesso Donald Trump, ieri sera, enfatizzava su Truth la «grande unità nel Partito repubblicano» a seguito dell’attacco. Anche se fino poco tempo fa aveva fatto capire di non voler intervenire in Medio Oriente.
Per questo, il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti contro l’Iran ha spaccato la base Maga. Da una parte, emerge l’anima ostile agli interventi militari all’estero, favorevole ai dazi e concentrata sulla tutela della working class; dall’altra, spunta l’anima più «istituzionale» e vicina agli apparati di sicurezza nazionale che, pur puntando a ricalibrare la politica estera di Washington sulla base delle risorse disponibili, non accetta la dismissione dell’impero americano. In un certo senso, la prima anima fa capo a Vance e la seconda a Rubio: esattamente le due figure che, assieme a Hegseth, erano al fianco di Trump, quando quest’ultimo ha reso noto l’attacco contro i siti iraniani. Ricordiamo che, poco prima dell’operazione militare, si sarebbe tenuta una conversazione telefonica tra Vance e Benjamin Netanyahu e che, nell’occasione, il vicepresidente americano avrebbe accusato il premier israeliano di voler trascinare in guerra gli Stati Uniti.
Ecco, è queste due anime del mondo Maga che Trump dovrebbe far riappacificare. È per esempio in tal senso che, il presidente americano ha diffuso le foto in cui è ritratto mentre dirige l’operazione nella situation room con in testa il cappellino rosso «Make America Great Again». E sempre in tal senso, Trump ha probabilmente voluto Vance e Rubio al suo fianco mentre rendeva noto l’attacco contro la Repubblica islamica. In altre parole, l’inquilino della Casa Bianca deve mediare tra due linee contrastanti. È per questo che la sua amministrazione tende a sottolineare che quello di sabato è stato un atto militare chirurgico, volto a colpire il programma nucleare iraniano e non a promuovere quel cambio di regime, rispetto a cui lo stesso Trump si è sempre mostrato scettico. Dall’altra parte è evidente come l’operazione Midnight hammer, pur mirata, segni un salto di qualità per gli standard dell’attuale presidente americano. È vero che, anche nel primo mandato, il diretto interessato aveva usato più volte la forza (ordinò per esempio l’uccisione di Abu Bakr al-Baghdadi nel 2019 e quella di Qasem Soleimani nel 2020). È però anche vero che stavolta ha alzato significativamente l’asticella.
E allora che cosa ha spinto il presidente ad agire in questo modo? In un primo momento, Trump sperava che la minaccia della forza militare bastasse a convincere gli ayatollah a rinunciare all’arricchimento dell’uranio. Quando ha visto che l’Iran tergiversava durante i negoziati sul nucleare di aprile e maggio, il presidente ha voluto aumentare la pressione con un atto punitivo. Trump è inoltre perfettamente consapevole che non solo Israele ma anche i sauditi temono un regime khomeinista con l’arma atomica in mano. In tal senso, spera in un rilancio degli Accordi di Abramo e, al contempo, in un rafforzamento dell’intesa israeliano-saudita in riferimento all’eventuale ricostruzione di Gaza. L’incognita riguarda semmai il rapporto tra la Casa Bianca e il Cremlino, visto che ieri Mosca ha condannato fermamente l’attacco americano e che, oggi, Vladimir Putin riceverà il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi. Lo zar si era indebolito in Medio Oriente già dopo la caduta di Bashar al Assad l’anno scorso. L’attuale crisi iraniana potrebbe azzopparlo ancor di più. E la domanda allora è una sola: questa situazione lo spingerà ad ammorbidirsi o a irrigidirsi sul fronte ucraino?
Nel frattempo, i dettagli dell’operazione militare sono stati spiegati dal capo dello Stato maggiore congiunto degli Usa, Dan Caine, secondo cui l’attacco ha visto il coinvolgimento di sette bombardieri B-2: bombardieri che hanno sostenuto un viaggio di 18 ore dal Missouri all’Iran e che hanno quindi ricevuto dei rifornimenti in volo da parte di aerei cisterna statunitensi. Man mano che i velivoli si avvicinavano agli obiettivi, Washington ha fatto ricorso a «diverse tattiche di inganno», mentre dei jet militari aprivano lo spazio antistante a essi. Poco prima che i bombardieri entrassero nei cieli della Repubblica islamica, un sottomarino statunitense lanciava una ventina di missili da crociera Tomahawk contro il sito iraniano di Isfahan. Sugli impianti nucleari di Fordow e Natanz successivamente invece sono state sganciate tonnellate di superbombe Mop e altri ordigni. «I caccia iraniani non hanno volato e, a quanto pare, i sistemi missilistici terra-aria iraniani non ci hanno visto. Abbiamo mantenuto l’elemento sorpresa», ha dichiarato Caine, per poi precisare che gli Stati Uniti hanno fatto ricorso a oltre 125 aerei e a circa 75 armi a guida di precisione. «Le prime valutazioni dei danni causati indicano che tutti i siti hanno subito distruzioni estremamente gravi», ha precisato Caine, pur ammettendo che una valutazione completa della situazione richiederà del tempo.





