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2019-09-19
La fronda dei repubblicani vuole fare ancora lo sgambetto a Trump
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Ansa
Che tra i due non corra buon sangue non è del resto un mistero. Già nel corso delle primarie repubblicane del 2016, Romney era emerso come punto di riferimento per quanti - nell'elefantino - non vedevano di buon occhio l'ascesa elettorale del magnate newyorchese. Quell'anno, addirittura, circolò la voce che fosse pronto a fondare un partito autonomo insieme al giornalista neoconservatore, Bill Kristol: uno scenario che, alla fine, non si concretizzò. A dire il vero, dopo la vittoria di Trump, la figura di Romney fu annoverata tra le papabili per ricoprire il ruolo di segretario di Stato: un'ipotesi tuttavia caduta nel vuoto, visto che la scelta per quella delicata poltrona ricadde infine sul businessman, Rex Tillerson.
Trump, dal canto suo, ha assai spesso replicato duramente agli attacchi del senatore, sottolineando soprattutto il suo fallimento come candidato presidenziale repubblicano nel 2012 contro Barack Obama. Ciò detto, l'opposizione di Romney a Trump si è giocata - almeno sinora - prevalentemente sul terreno dialettico più che su quello parlamentare, visto che raramente il senatore ha votato provvedimenti contrari alla linea dell'attuale inquilino della Casa Bianca. Adesso, tuttavia, sembrerebbe che sia intenzionato a guidare una fronda, soprattutto in occasione delle primarie repubblicane del 2020.
In primo luogo, Romney è molto amico di uno degli attuali sfidanti interni di Trump per la nomination: l'ex governatore del Massachusetts, Bill Weld. Romney (anche lui ex governatore del Massachusetts) ha definito in un'intervista lo scorso aprile Weld «un grandissimo governatore». Inoltre, sempre alla Cnn, il senatore dello Utah ha espresso la sua preoccupazione per il fatto che, in alcuni Stati, il Partito repubblicano stia cancellando le primarie locali. Una mossa che ha irritato non poco i tre attuali sfidanti interni (Joe Walsh, Mark Sanford e lo stesso Weld). «Avrei preferito avere primarie aperte, caucus, il processo per la convention, in modo che le persone possano essere ascoltate», ha dichiarato Romney. In tutto questo, non bisogna neppure trascurare che il senatore non abbia risparmiato le sue critiche a Trump anche per il recente siluramento del consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton. «Sono molto molto scontento di sentire che andrà via. È una gigantesca perdita per l'amministrazione, secondo me, e per la nazione», ha non a caso affermato.
Insomma, parole dure che suonano come una (neppur troppo velata) frecciata al presidente. Frecciata anche legittima, ma che non tiene conto di alcuni fattori. In primo luogo, i sondaggi riconoscono attualmente a Trump un gradimento dell'88% all'interno del Partito repubblicano. In secondo luogo, sia i repubblicani che i democratici - nel momento in cui esprimono un presidente in cerca di riconferma - spesso cancellano il processo delle primarie in alcuni Stati: nel 2012 (ai tempi di Barack Obama) l'Asinello non tenne le primarie in Arizona, mentre nel 1996 (ai tempi di Bill Clinton) non le organizzò in Kansas. Gli stessi repubblicani nel 1984 (l'anno della rielezione di Ronald Reagan) non ebbero primarie.
Come che sia, Romney punta a ritagliarsi il ruolo di spina nel fianco dell'attuale presidente. E c'è chi dice che, prima o poi, possa anche decidere di candidarsi alla nomination del 2020. Si tratta di un'ipotesi improbabile, almeno fin quando l'economia americana continuerà a dare risultati positivi come accaduto nel corso di quest'anno. È dunque possibile che la strategia del senatore sia quella, ben più subdola, degli sgambetti e delle polemiche: una strategia volta a raccogliere magari una piccola truppa parlamentare in grado di mettere a Trump i bastoni tra le ruote. Il presidente, dal canto suo, sa di non potersi fidare. E, nel corso dei mesi, è già passato al contrattacco, riuscendo ad attirare nella sua orbita esponenti repubblicani un tempo a lui fortemente ostili. È il caso, per esempio, del senatore del South Carolina, Lindsey Graham: un tempo feroce critico di Trump, è diventato nell'ultimo anno uno dei suoi principali alleati al Congresso. Un altro esempio significativo è poi quello del senatore del Nebraska, Ben Sasse: nonostante nel 2016 costui fosse a capo del movimento conservatore Never Trump, il presidente gli ha dato il proprio endorsement pochi giorni fa in vista della battaglia per la rielezione al Senato. Insomma, se Romney prepara la fronda, Trump cerca di fare terra bruciata attorno all'ex governatore del Massachusetts. Una strategia, ovviamente volta a tenere compatto il partito nel corso di una campagna elettorale che sta entrando sempre più nel vivo.
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Alcuni giorni fa, il senatore dello Utah, Mitt Romney, ha dichiarato alla Cnn di non avere intenzione di pronunciare endorsement né alle primarie repubblicane né alle presidenziali del 2020. Una posizione che, indirettamente, manifesta una palese ostilità nei confronti del magnate newyorchese.Che tra i due non corra buon sangue non è del resto un mistero. Già nel corso delle primarie repubblicane del 2016, Romney era emerso come punto di riferimento per quanti - nell'elefantino - non vedevano di buon occhio l'ascesa elettorale del magnate newyorchese. Quell'anno, addirittura, circolò la voce che fosse pronto a fondare un partito autonomo insieme al giornalista neoconservatore, Bill Kristol: uno scenario che, alla fine, non si concretizzò. A dire il vero, dopo la vittoria di Trump, la figura di Romney fu annoverata tra le papabili per ricoprire il ruolo di segretario di Stato: un'ipotesi tuttavia caduta nel vuoto, visto che la scelta per quella delicata poltrona ricadde infine sul businessman, Rex Tillerson.Trump, dal canto suo, ha assai spesso replicato duramente agli attacchi del senatore, sottolineando soprattutto il suo fallimento come candidato presidenziale repubblicano nel 2012 contro Barack Obama. Ciò detto, l'opposizione di Romney a Trump si è giocata - almeno sinora - prevalentemente sul terreno dialettico più che su quello parlamentare, visto che raramente il senatore ha votato provvedimenti contrari alla linea dell'attuale inquilino della Casa Bianca. Adesso, tuttavia, sembrerebbe che sia intenzionato a guidare una fronda, soprattutto in occasione delle primarie repubblicane del 2020.In primo luogo, Romney è molto amico di uno degli attuali sfidanti interni di Trump per la nomination: l'ex governatore del Massachusetts, Bill Weld. Romney (anche lui ex governatore del Massachusetts) ha definito in un'intervista lo scorso aprile Weld «un grandissimo governatore». Inoltre, sempre alla Cnn, il senatore dello Utah ha espresso la sua preoccupazione per il fatto che, in alcuni Stati, il Partito repubblicano stia cancellando le primarie locali. Una mossa che ha irritato non poco i tre attuali sfidanti interni (Joe Walsh, Mark Sanford e lo stesso Weld). «Avrei preferito avere primarie aperte, caucus, il processo per la convention, in modo che le persone possano essere ascoltate», ha dichiarato Romney. In tutto questo, non bisogna neppure trascurare che il senatore non abbia risparmiato le sue critiche a Trump anche per il recente siluramento del consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton. «Sono molto molto scontento di sentire che andrà via. È una gigantesca perdita per l'amministrazione, secondo me, e per la nazione», ha non a caso affermato.Insomma, parole dure che suonano come una (neppur troppo velata) frecciata al presidente. Frecciata anche legittima, ma che non tiene conto di alcuni fattori. In primo luogo, i sondaggi riconoscono attualmente a Trump un gradimento dell'88% all'interno del Partito repubblicano. In secondo luogo, sia i repubblicani che i democratici - nel momento in cui esprimono un presidente in cerca di riconferma - spesso cancellano il processo delle primarie in alcuni Stati: nel 2012 (ai tempi di Barack Obama) l'Asinello non tenne le primarie in Arizona, mentre nel 1996 (ai tempi di Bill Clinton) non le organizzò in Kansas. Gli stessi repubblicani nel 1984 (l'anno della rielezione di Ronald Reagan) non ebbero primarie.Come che sia, Romney punta a ritagliarsi il ruolo di spina nel fianco dell'attuale presidente. E c'è chi dice che, prima o poi, possa anche decidere di candidarsi alla nomination del 2020. Si tratta di un'ipotesi improbabile, almeno fin quando l'economia americana continuerà a dare risultati positivi come accaduto nel corso di quest'anno. È dunque possibile che la strategia del senatore sia quella, ben più subdola, degli sgambetti e delle polemiche: una strategia volta a raccogliere magari una piccola truppa parlamentare in grado di mettere a Trump i bastoni tra le ruote. Il presidente, dal canto suo, sa di non potersi fidare. E, nel corso dei mesi, è già passato al contrattacco, riuscendo ad attirare nella sua orbita esponenti repubblicani un tempo a lui fortemente ostili. È il caso, per esempio, del senatore del South Carolina, Lindsey Graham: un tempo feroce critico di Trump, è diventato nell'ultimo anno uno dei suoi principali alleati al Congresso. Un altro esempio significativo è poi quello del senatore del Nebraska, Ben Sasse: nonostante nel 2016 costui fosse a capo del movimento conservatore Never Trump, il presidente gli ha dato il proprio endorsement pochi giorni fa in vista della battaglia per la rielezione al Senato. Insomma, se Romney prepara la fronda, Trump cerca di fare terra bruciata attorno all'ex governatore del Massachusetts. Una strategia, ovviamente volta a tenere compatto il partito nel corso di una campagna elettorale che sta entrando sempre più nel vivo.
(Totaleu)
Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
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Ed è quel che ha pensato il gran capo della Fifa, l’imbarazzante Infantino, dopo aver intestato a Trump un neonato riconoscimento Fifa. Solo che stavolta lo show diventa un caso diplomatico e rischia di diventare imbarazzante e difficile da gestire perché, come dicevamo, la partita celebrativa dell’orgoglio Lgbtq+ sarà Egitto contro Iran, due Paesi dove gay, lesbiche e trans finiscono in carcere o addirittura condannate a morte.
Ora, delle due l’una: o censuri chi non si adegua a certe regole oppure imporre le proprie regole diventa ingerenza negli affari altrui. E non si può. Com’è noto il match del 26 giugno a Seattle, una delle città in cui la cultura Lgbtq+ è più radicata, era stata scelto da tempo come pride match, visto che si giocherà di venerdì, alle porte del nel weekend dell’orgoglio gay. Diciamo che la sorte ha deciso di farsi beffa di Infantino e del politically correct. Infatti le due nazioni hanno immediatamente protestato: che c’entriamo noi con queste convenzioni occidentali? Del resto la protesta ha un senso: se nessuno boicotta gli Stati dove l’omosessualità è reato, perché poi dovrebbero partecipare ad un rito occidentale? Per loro la scelta è «inappropriata e politicamente connotata». Così Iran ed Egitto hanno presentato un’obiezione formale, tant’è che Mehdi Taj, presidente della Federcalcio iraniana, ha spiegato la posizione del governo iraniano e della sua federazione: «Sia noi che l’Egitto abbiamo protestato. È stata una decisione irragionevole che sembrava favorire un gruppo particolare. Affronteremo sicuramente la questione». Se le Federcalcio di Iran ed Egitto non hanno intenzione di cedere a una pressione internazionale che ingerisce negli affari interni, nemmeno la Fifa ha intenzione di fare marcia indietro. Secondo Eric Wahl, membro del Pride match advisory committee, «La partita Egitto-Iran a Seattle in giugno capita proprio come pride match, e credo che sia un bene, in realtà. Persone Lgbtq+ esistono ovunque. Qui a Seattle tutti sono liberi di essere se stessi». Certo, lì a Seattle sarà così ma il rischio che la Fifa non considera è quello di esporre gli atleti egiziani e soprattutto iraniani a ritorsioni interne. Andremo al Var? Meglio di no, perché altrimenti dovremmo rivedere certi errori macroscopici su altri diritti dei quali nessun pride si era occupato organizzando partite ad hoc. Per esempio sui diritti dei lavoratori; eppure non pochi operai nei cantieri degli stadi ci hanno lasciato le penne. Ma evidentemente la fretta di rispettare i tempi di consegna fa chiudere entrambi gli occhi. Oppure degli operai non importa nulla. E qui tutto il mondo è Paese.
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