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2023-06-15
Pazza idea Trump: vincere e poi perdonarsi
Donald Trump (Getty Images)
«Non colpevole». Così si è dichiarato Donald Trump, comparendo l’altro ieri nel tribunale di Miami in riferimento ai 37 capi d’imputazione formulati contro di lui dal procuratore speciale Jack Smith per aver trattenuto dei documenti classificati dopo aver lasciato la Casa Bianca nel gennaio 2021. «È una persecuzione politica che sembra uscita direttamente da una nazione fascista o comunista. Questo giorno sarà ricordato con infamia e Joe Biden sarà ricordato per sempre come il presidente più corrotto nella storia del nostro Paese», ha tuonato Trump, i cui strali sono piovuti anche sul procuratore Smith, definito un «delinquente».
Quello che bisogna adesso capire è quale potrà essere l’impatto della nuova incriminazione sui destini elettorali dell’ex presidente. Dal punto di vista esclusivamente giudiziario, va detto che stavolta Trump rischia grosso, soprattutto a causa di un audio in cui, nel 2021, sembrava ammettere di non aver declassificato alcuni documenti che aveva trattenuto: un elemento che sarà difficile da ribaltare in sede processuale.
Il team legale dell’ex presidente - il primo della storia a subire un’incriminazione federale - punta molto su una sentenza del 2012, che riconobbe a Bill Clinton il diritto di tenersi alcuni documenti risalenti alla sua permanenza alla Casa Bianca. Non è tuttavia chiaro se questo precedente possa essere invocato in riferimento all’attuale situazione di Trump. Per quest’ultimo, la strada sul piano puramente giudiziario resta quindi in salita.
Ciò significa dunque che il destino politico dell’ex presidente è segnato? Forse sì, ma non è detta l’ultima parola. Un recentissimo sondaggio della Cbs ha rilevato che, nella corsa per le primarie repubblicane, Trump resta saldamente in testa col 61% dei consensi. Il governatore della Florida, Ron DeSantis è secondo al 23%, mentre gli altri sfidanti sono inchiodati a percentuali irrisorie. La nuova incriminazione potrebbe infatti ridurre ulteriormente i margini di manovra dei principali rivali dell’ex presidente, che rischiano o di schiacciarsi troppo sulle sue posizioni o di alienarsi sempre di più la base elettorale repubblicana.
Non solo. Ad essere politico è anche il duello in corso tra Trump e il procuratore speciale. L’ex presidente scommette tutto sulla tesi della persecuzione giudiziaria, puntando per prima cosa il dito contro il fatto che Smith è stato nominato dal procuratore generale Merrick Garland, il quale è stato a sua volta designato da Biden: il suo rivale alle presidenziali del 2020. In secondo luogo, Trump ha buon gioco nel denunciare la scomparsa dai radar dell’indagine sui documenti classificati dello stesso Biden. Ricordiamo che quest’ultimo ha trattenuto incartamenti sensibili per un tempo molto più lungo rispetto all’ex presidente (alcuni di questi documenti risalgono a prima del 2017, altri addirittura a prima del 2009). Infine, è stato il recente rapporto del procuratore speciale John Durham a mettere in evidenza la faziosità del dipartimento di Giustizia nell’imbastire le basi del cosiddetto Russiagate. E proprio il Russiagate potrebbe portare molti elettori a ritenere oggi valida la tesi della persecuzione giudiziaria, cavalcata da Trump.
Smith è ben consapevole dei problemi di credibilità che sta attraversando il dipartimento di Giustizia. Secondo un sondaggio di Abc News, il 47% dei cittadini statunitensi ritiene che la nuova incriminazione di Trump sia politicamente motivata, il 37% afferma il contrario, mentre il 16% dice di non sapere. È pur vero che, secondo la stessa rilevazione, il 48% degli statunitensi si dice favorevole all’incriminazione dell’ex presidente e il 35% contrario. Tuttavia, resta il fatto che per quasi un americano su due il dipartimento di Giustizia sarebbe mosso da motivazioni politiche. È per cercare di ribaltare tale percezione che Smith ha inserito nel documento d’accusa le foto degli scatoloni nella dimora di Trump, trasmettendo inoltre in anticipo alla Cnn la trascrizione dell’audio incriminato. Il punto è che, favorendo un circuito mediatico-giudiziario, il procuratore rischia di prestare il fianco alle critiche dell’ex presidente.
E comunque, come suggerito da analisi legali uscite su The Hill e Politico, la battaglia principale sarà sulla data d’avvio del processo. Smith vorrebbe celebrarlo in tempi brevi, mentre il team di Trump punta a spostare il tutto a dopo le elezioni del 2024. Uno scenario, quest’ultimo, altamente probabile, visto che la campagna elettorale sta entrando sempre più nel vivo e nessun giudice vorrà aprire un processo a ridosso del voto.
L’ex presidente ha un chiaro interesse nel rimandare. La sua strategia di difesa è attualmente pericolante e, qualora riuscisse a tornare alla Casa Bianca, potrebbe concedersi il perdono presidenziale (che tecnicamente può essere conferito anche prima di un’eventuale condanna): una circostanza che potrebbe verificarsi anche nel caso vincesse un altro candidato repubblicano.
C’è infine un ultimo scenario, attualmente del tutto ipotetico, da considerare. E se l’amministrazione Biden stesse usando l’incriminazione formulata da Smith come uno strumento di moral suasion in un’eventuale negoziazione per convincere Trump ad abbandonare la campagna elettorale?
E nel silenzio generale dei media l’Ucraina-gate dei Biden si allarga
Si parla molto (anche comprensibilmente) della nuova incriminazione di Donald Trump. Non si parla tuttavia (meno comprensibilmente) delle inquietanti novità relative all’accusa di corruzione riguardante i Biden. Eh sì, perché potrebbero presto spuntare degli audio compromettenti. Ma andiamo con ordine.
La settimana scorsa, i deputati repubblicani della commissione Sorveglianza della Camera avevano potuto finalmente visionare il documento dell’Fbi, secondo cui un alto dirigente della società ucraina Burisma avrebbe pagato cinque milioni di dollari a testa a Joe Biden e a suo figlio, Hunter, per ottenere il siluramento dell’allora procuratore generale ucraino, Viktor Shokin: procuratore che fu licenziato effettivamente nel 2016 dietro pressioni dello stesso Joe Biden, che all’epoca era vicepresidente degli Stati Uniti, mentre suo figlio sedeva nel board di Burisma (incarico da lui ricoperto dal 2014 al 2019). Secondo due deputate che avevano visionato il documento, il corruttore sarebbe stato il fondatore di Burisma, l’oligarca ucraino, Mykola Zlochevsky.
Ebbene, lunedì scorso, il senatore repubblicano Chuck Grassley ha rivelato che, stando all’incartamento, il presunto corruttore avrebbe conservato la registrazione di ben 17 conversazioni telefoniche: 15 avute con Hunter e due avute con lo stesso Joe Biden. Si tratta di registrazioni che, secondo Grassley, il presunto corruttore avrebbe conservato come «polizza assicurativa». Stando a quanto riportato dal senatore, questa circostanza sarebbe descritta nella parte del documento che risulta ancora segretata. «Non ho idea se ci siano registrazioni vocali o meno», ha dichiarato il vicedirettore dell’Fbi, Paul Abbate, durante un’audizione al Senato, svoltasi l’altro ieri. «Quello che vi dirò riguardo al documento è che è stato segretato per proteggere la fonte, come tutti sanno, e questa è una questione di vita o di morte, potenzialmente», ha aggiunto. Una reticenza che ha mandato su tutte le furie il senatore repubblicano Ted Cruz, secondo cui il Bureau starebbe «coprendo gravi accuse di evidenza di corruzione da parte del presidente».
Effettivamente qualcosa non torna. Nonostante non sia classificato, alcune parti del fatidico documento sono ancora segretate. L’Fbi parla di riservatezza per tutelare le fonti. Eppure tutta questa riservatezza non si è verificata nel corso dell’indagine del procuratore speciale Jack Smith su Trump, visto che l’esistenza dell’audio contro di lui e la sua relativa trascrizione sono state fatte trapelare alla Cnn prima che l’incriminazione dell’ex presidente fosse ufficializzata. Inoltre, se l’obiettivo è tutelare le fonti, basterebbe segretare il loro nome e non i fatti descritti nel documento. Se Grassley si fosse inventato di sana pianta l’esistenza di queste 17 registrazioni, basterebbe un po’ di trasparenza per sconfessarlo.
Vale inoltre la pena ricordare che la fonte alla base del documento che accusa i Biden è considerata «altamente credibile», essendo inoltre stata spesso usata dal Bureau negli scorsi anni. Non solo. Secondo il presidente della commissione Sorveglianza della Camera, James Comer, tale incartamento sarebbe attualmente usato dai federali in un’indagine in corso: probabilmente quella della procura del Delaware su Hunter Biden. Un’indagine, quest’ultima, che va avanti addirittura dal 2018 e che stranamente ancora non si è conclusa. Sarà un caso, ma il mese scorso un funzionario dell’Agenzia delle entrate americana, Gary Shapley, ha pubblicamente denunciato interferenze politiche in questa inchiesta da parte del Dipartimento di Giustizia.
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Le nuove accuse sono più solide del sexy-scandalo, ma questo non gli impedisce di staccare Ron DeSantis di 40 punti nei gradimenti. Ecco perché il tycoon punta a far slittare il processo oltre il voto, quando si aprirebbero scenari inediti. Compreso il colpo di spugna.Joe Biden: L’Fbi mette la testa sotto la sabbia, ma 17 audio svelerebbero le mazzette da Burisma.Lo speciale contiene due articoli.«Non colpevole». Così si è dichiarato Donald Trump, comparendo l’altro ieri nel tribunale di Miami in riferimento ai 37 capi d’imputazione formulati contro di lui dal procuratore speciale Jack Smith per aver trattenuto dei documenti classificati dopo aver lasciato la Casa Bianca nel gennaio 2021. «È una persecuzione politica che sembra uscita direttamente da una nazione fascista o comunista. Questo giorno sarà ricordato con infamia e Joe Biden sarà ricordato per sempre come il presidente più corrotto nella storia del nostro Paese», ha tuonato Trump, i cui strali sono piovuti anche sul procuratore Smith, definito un «delinquente». Quello che bisogna adesso capire è quale potrà essere l’impatto della nuova incriminazione sui destini elettorali dell’ex presidente. Dal punto di vista esclusivamente giudiziario, va detto che stavolta Trump rischia grosso, soprattutto a causa di un audio in cui, nel 2021, sembrava ammettere di non aver declassificato alcuni documenti che aveva trattenuto: un elemento che sarà difficile da ribaltare in sede processuale. Il team legale dell’ex presidente - il primo della storia a subire un’incriminazione federale - punta molto su una sentenza del 2012, che riconobbe a Bill Clinton il diritto di tenersi alcuni documenti risalenti alla sua permanenza alla Casa Bianca. Non è tuttavia chiaro se questo precedente possa essere invocato in riferimento all’attuale situazione di Trump. Per quest’ultimo, la strada sul piano puramente giudiziario resta quindi in salita. Ciò significa dunque che il destino politico dell’ex presidente è segnato? Forse sì, ma non è detta l’ultima parola. Un recentissimo sondaggio della Cbs ha rilevato che, nella corsa per le primarie repubblicane, Trump resta saldamente in testa col 61% dei consensi. Il governatore della Florida, Ron DeSantis è secondo al 23%, mentre gli altri sfidanti sono inchiodati a percentuali irrisorie. La nuova incriminazione potrebbe infatti ridurre ulteriormente i margini di manovra dei principali rivali dell’ex presidente, che rischiano o di schiacciarsi troppo sulle sue posizioni o di alienarsi sempre di più la base elettorale repubblicana. Non solo. Ad essere politico è anche il duello in corso tra Trump e il procuratore speciale. L’ex presidente scommette tutto sulla tesi della persecuzione giudiziaria, puntando per prima cosa il dito contro il fatto che Smith è stato nominato dal procuratore generale Merrick Garland, il quale è stato a sua volta designato da Biden: il suo rivale alle presidenziali del 2020. In secondo luogo, Trump ha buon gioco nel denunciare la scomparsa dai radar dell’indagine sui documenti classificati dello stesso Biden. Ricordiamo che quest’ultimo ha trattenuto incartamenti sensibili per un tempo molto più lungo rispetto all’ex presidente (alcuni di questi documenti risalgono a prima del 2017, altri addirittura a prima del 2009). Infine, è stato il recente rapporto del procuratore speciale John Durham a mettere in evidenza la faziosità del dipartimento di Giustizia nell’imbastire le basi del cosiddetto Russiagate. E proprio il Russiagate potrebbe portare molti elettori a ritenere oggi valida la tesi della persecuzione giudiziaria, cavalcata da Trump. Smith è ben consapevole dei problemi di credibilità che sta attraversando il dipartimento di Giustizia. Secondo un sondaggio di Abc News, il 47% dei cittadini statunitensi ritiene che la nuova incriminazione di Trump sia politicamente motivata, il 37% afferma il contrario, mentre il 16% dice di non sapere. È pur vero che, secondo la stessa rilevazione, il 48% degli statunitensi si dice favorevole all’incriminazione dell’ex presidente e il 35% contrario. Tuttavia, resta il fatto che per quasi un americano su due il dipartimento di Giustizia sarebbe mosso da motivazioni politiche. È per cercare di ribaltare tale percezione che Smith ha inserito nel documento d’accusa le foto degli scatoloni nella dimora di Trump, trasmettendo inoltre in anticipo alla Cnn la trascrizione dell’audio incriminato. Il punto è che, favorendo un circuito mediatico-giudiziario, il procuratore rischia di prestare il fianco alle critiche dell’ex presidente. E comunque, come suggerito da analisi legali uscite su The Hill e Politico, la battaglia principale sarà sulla data d’avvio del processo. Smith vorrebbe celebrarlo in tempi brevi, mentre il team di Trump punta a spostare il tutto a dopo le elezioni del 2024. Uno scenario, quest’ultimo, altamente probabile, visto che la campagna elettorale sta entrando sempre più nel vivo e nessun giudice vorrà aprire un processo a ridosso del voto. L’ex presidente ha un chiaro interesse nel rimandare. La sua strategia di difesa è attualmente pericolante e, qualora riuscisse a tornare alla Casa Bianca, potrebbe concedersi il perdono presidenziale (che tecnicamente può essere conferito anche prima di un’eventuale condanna): una circostanza che potrebbe verificarsi anche nel caso vincesse un altro candidato repubblicano. C’è infine un ultimo scenario, attualmente del tutto ipotetico, da considerare. E se l’amministrazione Biden stesse usando l’incriminazione formulata da Smith come uno strumento di moral suasion in un’eventuale negoziazione per convincere Trump ad abbandonare la campagna elettorale?<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/trump-biden-elezioni-2661348114.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="e-nel-silenzio-generale-dei-media-lucraina-gate-dei-biden-si-allarga" data-post-id="2661348114" data-published-at="1686824480" data-use-pagination="False"> E nel silenzio generale dei media l’Ucraina-gate dei Biden si allarga Si parla molto (anche comprensibilmente) della nuova incriminazione di Donald Trump. Non si parla tuttavia (meno comprensibilmente) delle inquietanti novità relative all’accusa di corruzione riguardante i Biden. Eh sì, perché potrebbero presto spuntare degli audio compromettenti. Ma andiamo con ordine. La settimana scorsa, i deputati repubblicani della commissione Sorveglianza della Camera avevano potuto finalmente visionare il documento dell’Fbi, secondo cui un alto dirigente della società ucraina Burisma avrebbe pagato cinque milioni di dollari a testa a Joe Biden e a suo figlio, Hunter, per ottenere il siluramento dell’allora procuratore generale ucraino, Viktor Shokin: procuratore che fu licenziato effettivamente nel 2016 dietro pressioni dello stesso Joe Biden, che all’epoca era vicepresidente degli Stati Uniti, mentre suo figlio sedeva nel board di Burisma (incarico da lui ricoperto dal 2014 al 2019). Secondo due deputate che avevano visionato il documento, il corruttore sarebbe stato il fondatore di Burisma, l’oligarca ucraino, Mykola Zlochevsky. Ebbene, lunedì scorso, il senatore repubblicano Chuck Grassley ha rivelato che, stando all’incartamento, il presunto corruttore avrebbe conservato la registrazione di ben 17 conversazioni telefoniche: 15 avute con Hunter e due avute con lo stesso Joe Biden. Si tratta di registrazioni che, secondo Grassley, il presunto corruttore avrebbe conservato come «polizza assicurativa». Stando a quanto riportato dal senatore, questa circostanza sarebbe descritta nella parte del documento che risulta ancora segretata. «Non ho idea se ci siano registrazioni vocali o meno», ha dichiarato il vicedirettore dell’Fbi, Paul Abbate, durante un’audizione al Senato, svoltasi l’altro ieri. «Quello che vi dirò riguardo al documento è che è stato segretato per proteggere la fonte, come tutti sanno, e questa è una questione di vita o di morte, potenzialmente», ha aggiunto. Una reticenza che ha mandato su tutte le furie il senatore repubblicano Ted Cruz, secondo cui il Bureau starebbe «coprendo gravi accuse di evidenza di corruzione da parte del presidente». Effettivamente qualcosa non torna. Nonostante non sia classificato, alcune parti del fatidico documento sono ancora segretate. L’Fbi parla di riservatezza per tutelare le fonti. Eppure tutta questa riservatezza non si è verificata nel corso dell’indagine del procuratore speciale Jack Smith su Trump, visto che l’esistenza dell’audio contro di lui e la sua relativa trascrizione sono state fatte trapelare alla Cnn prima che l’incriminazione dell’ex presidente fosse ufficializzata. Inoltre, se l’obiettivo è tutelare le fonti, basterebbe segretare il loro nome e non i fatti descritti nel documento. Se Grassley si fosse inventato di sana pianta l’esistenza di queste 17 registrazioni, basterebbe un po’ di trasparenza per sconfessarlo. Vale inoltre la pena ricordare che la fonte alla base del documento che accusa i Biden è considerata «altamente credibile», essendo inoltre stata spesso usata dal Bureau negli scorsi anni. Non solo. Secondo il presidente della commissione Sorveglianza della Camera, James Comer, tale incartamento sarebbe attualmente usato dai federali in un’indagine in corso: probabilmente quella della procura del Delaware su Hunter Biden. Un’indagine, quest’ultima, che va avanti addirittura dal 2018 e che stranamente ancora non si è conclusa. Sarà un caso, ma il mese scorso un funzionario dell’Agenzia delle entrate americana, Gary Shapley, ha pubblicamente denunciato interferenze politiche in questa inchiesta da parte del Dipartimento di Giustizia.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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