2022-03-10
Nelle trincee dei soldati ucraini con l’incubo dei cecchini di Mosca
(Credit: Niccolò Celesti)
Tra Irpin e l’esercito invasore si stende una terra di nessuno in cui si incrociano combattenti cosacchi, volontari della Croce rossa e cadaveri colpiti dai tiratori scelti. Poco oltre, 10.000 civili tenuti in ostaggio.Niccolò Celesti da KievSiamo arrivati nella Terra di nessuno, tra Irpin e l’esercito russo, là dove ucraini e soldati di Mosca si riescono a vedere dentro ai mirini. Trincee, fango, pozzanghere, cadaveri, sguardi inanimati. Sulle tavole di legno appoggiate alle macerie del ponte di Irpin ieri mattina continuava l’esodo dei profughi verso Kiev. Sono tantissimi e il passaggio stretto e instabile rende lente e difficoltose le operazioni.Ci sono ora tantissimi anziani che vengono portati a braccia, sulle carriole, con le coperte, e le carrozzine. Anche i fotografi e i giornalisti lasciano le macchine a tracolla per aiutare con l’evacuazione. Il cessate il fuoco regge. «Ma non è merito dei russi» ci dice uno sfollato, «i nostri li hanno fatti arretrare e sono asserragliati con i civili nella città sì Butcha».Ci portiamo dall’altro lato del ponte e ci incamminiamo sul viale che porta all’ingresso di Irpin, sono centinaia le macchine abbandonate nella fretta durante la battaglia, i vecchi, i bambini e le loro madri camminano inesorabilmente in direzione opposta alla nostra. Intorno, nei boschi, si sentono colpi sì artiglieria, ma sono sparati dall’esercito ucraino per cercare di mantenere i battaglioni russi distanti e favorire l’evacuazione. Proseguiamo approfittando della tregua. Superata la grande rotonda troviamo le prime trincee. Non sì possono fotografare le postazioni per non dare la posizione al nemico. I militari però qui parlano, capiscono l’importanza del nostro lavoro sul campo e hanno tanto da raccontare. In una di queste trincee incontro Ken un ragazzo con gli occhi blu giaccio. Ha 26 anni e da tre è nell’esercito, ci racconta del freddo durante la notte e di come i russi tre giorni fa sono arrivati letteralmente a 100 metri dalle loro postazioni. Dietro di loro, da un rifugio ricavato da un negozio, i superiori comunicano con le radio e visionano i filmati di un drone che un cittadino ha messo a disposizione. La resistenza ha organizzato un gruppo di volontari che vengono con i loro droni da tutto il Paese anche a costo di essere intercettati in quanto usano droni amatoriali con onde libere.Lasciamo Ken alle sue operazioni. Non si spara qui oggi, ma in qualsiasi momento tutto può ricominciare. Qui passano i mezzi che servono per evacuare le persone dal Paese, i famosi autobus gialli di Kiev i cui autisti talvolta arrivano in zone dove l’esercito non può arrivare, affidando le loro vite al destino, con il rischio di trovarsi davanti un tank russi lungo le strade che raggiungono il centro di Irpin. Saliamo su un autobus. Siamo solo due e l’autista ci chiede cosa ne pensano i politici dei nostri Stati di questa guerra e cosa pensa la popolazione. Non è lungo il percorso in mezzo alla foresta che porta nel centro della cittadina. Arriviamo in una piazza dove sono raccolti un centinaio dì civili e qui i pullman sì fermano e caricano le persone seguendo le direttive dì alcuni uomini delle forze speciali ucraine. Un signore siede su una panchina e osserva le operazioni come in una domenica mattina.Ai lati della piazza e lungo tutte le strade i volontari della difesa territoriale tengono continuamente a tiro la foresta e i palazzi, scrutano dal monocolo del fucile ogni tetto ogni finestra ogni movimento. Ci avviciniamo ad uno dì questi sbarramenti. Ci sono tre uomini dietro alle fioriere. Uno dì loro ci chiede una sigaretta. Iniziamo a parlare. Sì capisce che è qui per buttare giù la tensione. Al contrario che dentro Kiev, conversano volentieri con noi. Slobodan è dì Leopoli, sorride sotto un bel paio di baffi curati. Come l’amico accanto a lui, dal primo giorno della guerra, ha iniziato con la sua macchina a evacuare la popolazione verso la Polonia: «Dopo qualche giorno sono andato a registrarmi al primo centro dì reclutamento che ho trovato, mi hanno dato un fucile, un casco e un giubbotto, mi hanno spiegato come smontare e pulire il mio fucile e sono partito per Kiev». Gli chiediamo se abbia una esperienza militare, se sappia usare bene quell’arma, lui ci guarda sorridendo e risponde: «È facile sparare con un fucile! Soprattutto se vuoi difendere il tuo Paese, sì impara in fretta». Slobodan e il suo amico fino a 14 giorni fa lavoravano in una ditta di informatica, ieri lo abbiamo lasciato a scrutare tra i palazzi e gli alberi di Irpin in compagnia di militari professionisti e dei corpi speciali, tutti insieme sulla prima linea difensiva, nel centro della città. Mentre parliamo arriva un lungo convoglio umanitario con la jeep della Croce rossa in testa, decine di autobus cercano di avvicinarsi a Butcha, l’altra cittadina dove sono da giorni in ostaggio dei russi circa 10.000 cittadini. Noi torniamo indietro. Prima del ponte c’è la linea difensiva, le trincee scavate con le pale, le munizioni e il cibo sparsi un po’ dappertutto e tanti bazooka. Siamo all’interno del bosco dove due giorni fa l’avanzata russa è arrivata letteralmente a distanza di tiro da Kiev. In lontananza si intravede un tank russo completamente distrutto. Sarà a 200 metri da noi. In queste buche incontriamo un gruppo di militari esperti, hanno combattuto già nel Donbass, oggi si stanno riorganizzando. Uno è sempre di pattuglia in un buco, gli altri scherzano, passano il tempo, ridono probabilmente di noi.Uno di loro ha un viso che rimane impresso per i suoi occhi così neri che sembrano due fori, tiene indosso il passamontagna e parla con noi raccomandandosi: «Ci sono i cecchini nel bosco, i nostri e i loro». Mentre chiacchieriamo con lui scorgiamo i suoi denti appuntiti, i pochi rimasti, le cicatrici sulle mani, la divisa sdrucita, la barba brizzolata che lui arriccia con le dita e grandi baffi. Si capisce che tutti gli altri militari intorno a lui lo rispettano.Sono tutti ben equipaggiati, mitra, pistole, caricatori, bombe a mano, missili anticarro, bazooka, caschi e giubbotti. Lui no, un mitra e basta. Ci dice: «Volete vedere cosa fanno i russi? Andate con quei coraggiosi ragazzi» e ci indica un furgoncino bianco. Entriamo nel furgone. Da qui in poi siamo in Terra di nessuno, si va oltre l’ultima trincea verso una zona residenziale. «Se sentite dei colpi state giù, ci sono dei materassini bianchi nel furgone». Come se potessero proteggerci. Passiamo a ridosso di un bosco, in fondo tra la vegetazione c’è un altro carro armato russo, abbandonato, con la V (il simbolo dell’Armata del Nord, composta per lo più da ceceni) ben impressa davanti.Arriviamo su una strada normale. Si sentono i colpi di artiglieria in lontananza. Ci fermiamo davanti a un furgone, fuori dal quale giace un uomo senza vita. I volontari rischiano la vita per dare una sepoltura ai loro morti sperando che il bianco del furgone faccia la sua parte come in tutte le guerre. La dinamica è chiara: i colpi sul parabrezza lato conducente sono il segno che i russi uccidono i civili di proposito. Carichiamo il cadavere e poi due signore. Una viene fatta salire davanti per evitargli il viaggio con quel suo concittadino avvolto in una coperta. Poi un’altra sosta, un altro uomo morto alla guida del suo furgone, centrato in pieno dai cecchini, era un meccanico e chissà cosa stava andando ad aggiustare. Con i due corpi morti e quelli vivi di queste due donne disperate torniamo indietro da dove siamo venuti, scendiamo dal furgone e torniamo da quel gruppo di militari per scattare delle fotografie, il loro capo si toglie il passamontagna e arricciandosi verso la fronte il fascio di capelli sulla nuca della testa ci dice: «Chub kozak!». Quindi ci mostra la pettinatura tipica degli antichi guerrieri cosacchi, quella riservata ai grandi combattenti.
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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