2023-10-23
«I mercati non ci devono fare paura»
Giovanni Tria (Imagoeconomica)
L’ex ministro Giovanni Tria: «Il rating di Moody’s? Sono ottimista, grazie alla manovra siamo più forti. In Europa bisogna distinguere tra spesa corrente e investimenti. E rendere meno asimmetrici i negoziati con la Commissione».«Sul nuovo patto di Stabilità ci stiamo giocando il futuro dell’Europa per i prossimi decenni e non penso che il punto di incontro possa dipendere dai conflitti in atto o da un do ut des rispetto all’approvazione del Mes. Bisogna trovare regole corrette a prescindere, e visto l’attuale assetto dell’Unione io penso che le regole corrette sul deficit debbano tener conto della differenza tra spese correnti e spese per investimenti, soprattutto se questi investimenti corrispondono a priorità europee». Giovani Tria è stato ministro dell’Economia (dal 1º giugno 2018 al 5 settembre 2019) del governo, almeno sulla carta, meno europeista che possiamo ricordare, quello gialloverde: Lega-Cinque Stelle. E forse gli scontri più accesi con i suoi, quelli che avevano i voti, Salvini in primis e l’apparato pentastellato poi, hanno riguardato proprio Bruxelles. Oggi come allora il professore di Economia politica, primo occidentale membro del board di Bank of China, ha chiaro il concetto che con l’Europa bisogna trattare a oltranza consapevoli del fatto che l’Italia è un Paese chiave e che fare a meno di Roma non è possibile. Professore, per spese finalizzate agli investimenti chiesti dall’Ue si riferisce al Pnrr? «Non solo al Pnrr. Penso agli investimenti per rispettare l’agenda green di Bruxelles o alla necessità di impiegare maggiori risorse per la difesa. Bisognerà pur distinguere tra gli Stati che fanno deficit per pagare l’ordinaria amministrazione e chi invece riqualifica gli immobili, realizza infrastrutture o risponde alla necessità di tutto il Continente di dotarsi di migliori mezzi di difesa». Insomma: passi pure la linea tedesca che chiede di fissare benchmark precisi per arrivare alla riduzione del rapporto tra debito e Pil, purché si scorporino gli investimenti? «Non basta. Guardi, è anche necessario invertire il processo con il quale si dovrà approvare il percorso di aggiustamento fiscale dei singoli Paesi. Oggi è previsto che sia la Commissione a individuare un percorso che successivamente viene negoziato con i singoli Stati, io credo che invece debbano essere i Paesi che, tenendo conto delle regole generali concordate, debbano presentare un piano e poi stia in capo alla Commissione l’obbligo di dimostrare che è necessario un percorso diverso e più rigoroso per la sostenibilità del debito».Perché?«Altrimenti ci troveremmo di fronte a un negoziato asimmetrico: una volta che Bruxelles propone al Paese membro il suo piano di aggiustamento e il singolo Stato ne propone uno diverso, subirà come conseguenza diretta uno stigma e una reazione negativa dei mercati. Non è un problema di forma ma di sostanza e si tratta di un’opinione che non esprime Tria come professore, ma che è stata illustrata per esempio anche dalla Banca d’Italia in audizione al Parlamento». E lei ritiene che in questa trattativa epocale per il patto di Stabilità non rientrerà anche l’approvazione del Mes da parte dell’Italia?«Chiarisco: non ho notizie in merito. Detto questo, io penso che non sia possibile anche perché sarebbero gli altri Paesi a non accettare questa forma di scambio».Ma lei il nuovo Mes lo firmerebbe?«A questo proposito faccio notare due cose: innanzitutto non è solo questo governo a non averlo firmato, ma i due precedenti, quindi parliamo del secondo governo Conte e dell’esecutivo guidato da Mario Draghi. Poi evidenzio che da ministro dell’Economia io il Mes l’ho negoziato eliminando tutte le condizioni che l’Italia non voleva. E per Italia intendo Banca d’Italia». Quindi mi scusi, lei lo firmerebbe?«Per com’è adesso lo firmerei tranquillamente, ma non è certo questo il punto dirimente per la crescita politica ed economica dell’Europa».E qual è il punto dirimente?«Per fare un salto di qualità l’Europa ha bisogno di avere una politica fiscale comune che vada a integrarsi con la politica monetaria. Sono i due strumenti che determinano la politica macroeconomica. Le faccio un esempio molto attuale: durante la pandemia il patto di Stabilità è stato giustamente sospeso e per aiutare i Paesi in difficoltà, ma la Bce ha dovuto comprare i loro titoli di Stato per permettere il maggiore indebitamento dei Paesi Ue, un enorme stock di bond pubblici per cui oggi Francoforte ha la necessità di rientrare rispetto alla liquidità creata. Se Bruxelles avesse avuto una politica fiscale comune avremmo potuto utilizzare anche quella leva agendo sulla domanda ed evitando di sovraesporre la Banca centrale. Questa è la più grande debolezza europea». Riforma che non va in porto per l’ostracismo di Francia e Germania e perché c’è chi le direbbe: ma se anche le tasse vengono decise a Bruxelles a cosa servono i singoli Stati?«Parlo di una politica fiscale basata su un bilancio europeo per interventi che riguardano il complesso dell’Europa, poi ci sarebbe la competenza dei singoli Stati dai declinare sui singoli bilanci. Resta il problema che noi oggi siamo in mezzo al guado tra un’Europa degli Stati, cioè intergovernativa, e una struttura federale. E la debolezza di questo assetto si vede bene ogni volta che c’è una situazione di crisi da affrontare o ci sono delle decisioni urgenti da prendere». Torniamo all’Italia, mi dà un giudizio secco sulla manovra? «Il giudizio è sostanzialmente positivo. Alla fine di ogni legge di bilancio c’è l’interrogativo: si poteva fare qualcosa in più? Si può sempre fare qualcosa in più ma vista la situazione macroeconomica e geopolitica il qualcosa in più riguarderebbe il contenimento del deficit. È un bene, quindi, che sia stata tenuta ben salda la barra del timone e questo solo un governo con una forte maggioranza politica poteva farlo». Con Standard & Poor’s è andata, lei è ottimista anche per il giudizio delle altre agenzie di rating? Si teme soprattutto quello di Moody’s del 17 novembre. Un downgrade porterebbe il nostro debito in territorio «junk» (spazzatura) impedendo di fatto gli acquisti dei titoli italiani da parte di molti investitori. «Sono assolutamente ottimista. Le ripeto il concetto espresso prima: dalla manovra arriva un messaggio di responsabilità e prudenza di cui i vari organismi di controllo internazionale non possono non tener conto. Prendiamo le misure previdenziali: si è deciso con Quota 104 e l’accorpamento dell’Ape sociale e di Opzione donna di limitare gli strumenti di flessibilità in uscita. Le ricordo poi che gli assegni che superano di poco i 2.000 euro avranno una rivalutazione solo parziale. Parliamo della classe media, non certo di Paperoni. Sono sacrifici di cui chi è chiamato a giudicare il nostro debito non può non tenere conto». A proposito di manovra, come giudica le misure fiscali?«Si va nella direzione giusta: la riforma dell’Irpef da 4 miliardi è la stessa che volevamo fare noi 4 anni fa investendone 12 di miliardi, poi si preferì dirottare quei fondi su Quota 100 e fu un errore. L’unico modo per irrobustire il taglio fiscale è agire sulla spesa. Ancora di più oggi si capisce per esempio quale grande errore sia stato il Superbonus 110% che ha drenato risorse che sarebbero potute andare in quella direzione».L’opposizione, e il Pd in particolare, si lamentano perché ci sarebbero poche risorse sulla sanità.«Il Pd ha fatto parte di molti governi passati e ha contribuito a creare questa situazione, soprattutto nel corso della pandemia non ho visto immediati investimenti nelle strutture sanitarie». E veniamo alla questione salariale: come si aumentano gli stipendi? Salario minimo imposto per legge o rafforzamento della contrattazione?«Il salario minimo non mi convince per due motivi. Il primo è che è giustissimo aumentare le retribuzioni, ma è anche vero che non tutte le aziende sono “furbette” e vogliono fregare i lavoratori. Anzi. La verità è che gli stipendi sono strettamente legati alla produttività del lavoro ed è su quella che bisogna agire per consentire alle imprese di mettere più soldi nelle buste paga dei loro dipendenti senza creare delle distorsioni. Poi c’è il problema territoriale. Una soglia di salario minimo può essere sufficiente a garantire un tenore di vita più che dignitoso al Sud ma non al Nord. Pensi solo agli stipendi degli insegnanti troppo bassi soprattutto per coloro che vivono nelle grandi città. Ecco, su questi due aspetti cruciali si può agire rafforzando la contrattazione piuttosto che imponendo per legge un minimo di salario per ogni ora lavorata». Un’ultima domanda sulla notizia riportata in bell’evidenza dalla maggior parte della stampa nazionale: lei è il primo occidentale a entrare nel cda di Bank of China, la quarta banca al mondo per asset totali. «Posso solo dirle che mi ha molto sorpreso leggerlo sui giornali la scorsa settimana, semplicemente perché sono stato chiamato in Bank of China più di un anno fa, quando Pechino ha deciso di allargare il board anche a un membro europeo e a un africano».