2021-11-24
Trent'anni senza Freddie Mercury, l'unico gay che non si è fatto usare dalla lobby Lgbt
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Freddie Mercury (Getty Images)
il 24 novembre 1991 l'Aids si portava via Farrokh Bulsara, il ragazzo di Zanzibar diventato leggenda del rock. Al frontman dei Queen l'ideologia interessava molto meno dell'arte. Voleva fare musica e la fece fino a che ebbe fiato in gola. The show must go on, cantò a squarciagola, nella sua interpretazione più tecnica e più struggente, per l'ultimo singolo pubblicato mentre era in vita.I still love you, vi amo ancora. Sono le ultime parole che Freddie Mercury sussurrò ai fan, nello straziante video di These are the days of our lives. Lo girò nella primavera del 1991, quando faticava persino a reggersi in piedi. Ma voleva pianificare la sua uscita di scena con la stessa magia con cui aveva costruito le sue memorabili esibizioni dal vivo; lui, istrione capace di dirigere, come un'orchestra, le centinaia di migliaia di spettatori che, a Wembley, al Live Aid 1985, battevano le mani al tempo di Radio Ga Ga. Oggi sono trent'anni che manca Farrokh Bulsara, il ragazzo di Zanzibar diventato leggenda del rock. Se lo portò via l'Aids in una piovosa serata londinese, il 24 novembre 1991, il giorno successivo al comunicato stampa con il quale, dopo anni di persecuzioni da parte dei tabloid britannici, aveva ammesso di essere malato.Quella reticenza fu malvista: qualcuno ritenne che un «coming out» precoce avrebbe contribuito a sensibilizzare il pubblico sui pericoli del contagio da Hiv. Ma la gelosia per la propria riservatezza, che tanto si contrapponeva alla sua natura di animale da palcoscenico, era sempre stata una cifra della persona, lontana dal personaggio. Ed è anche uno dei motivi per cui la lobby Lgbt - non così influente, cinquant'anni fa - ha potuto tentare di appropriarsi di Mercury solo dopo morto. Un processo revisionista culminato nel film Bohemian Rhapsody, del 2018, in cui Rami Malek interpreta un Freddie erotomane, dedito a una sessualità compulsiva, azzardata e, soprattutto, sfacciatamente omosessuale. È indubbio che, specie durante il soggiorno a Monaco, nei primi anni Ottanta, l'artista fosse un habitué dei locali gay. E un «rimorchiatore» seriale. Però, quello su cui non tutti concordano - anzi, ciò che la maggior parte dei biografi contesta - è che fosse altresì un militante dell'orgoglio Lgbt. Quando, nel 1974, gli chiesero della sua sessualità, lui buttò la palla in tribuna: «Sono gay come un narciso!». Certo, in Gran Bretagna, l'omosessualità era stata depenalizzata solo sette anni prima. Ma ancora nel decennio successivo, secondo il Guardian, il cantante, davanti a obiettivi e cineprese, evitava di esibirsi in affettuosità con l'uomo che poi l'avrebbe assistito al capezzale, il compagno Jim Hutton. Peraltro, Freddie considerò sempre Mary Austin, la prima fidanzata, l'unico autentico amore della sua vita (le dedicò la celeberrima Love of my life), una sorta di «moglie di fatto». È stata lei a ereditare la villona di Garden Lodge, luogo di pellegrinaggio per i fan. È lei la sola a sapere dove sono state disperse le ceneri del cantautore. Ed era lei la sola con cui Mercury avrebbe potuto mettere su famiglia. Né a costui passò mai per l'anticamera del cervello di fabbricarsi il surrogato arcobaleno della famiglia. La sua era l'epoca del gay trasgressivo, godereccio, quasi teatrale. In grado di dosare discrezione e provocazione: sbagliò chi volle attribuirgli la paternità del travestimento dei Queen nel video di I want to break free (era stata un'idea del batterista, Roger Taylor); però, con grande autoironia, nel 1985, Mercury fece filmare, per promuovere Living on my own, il suo trentanovesimo compleanno. Un party a base di drag queen scatenate. D'altro canto, dopo la parentesi glam dei Settanta, quando nei live, a volte, si faceva caricare in spalla da omaccioni seminudi, l'artista s'era convertito allo stile «Castro clone», il look con i baffoni che scimmiottava le sembianze del macho operaio, sex symbol dell'immaginario gay di allora. Non è stato mai nemmeno così chiaro se fosse proprio gay o bisex. Ebbe una storia con l'attrice austriaca Barbara Valentin e un necrologio lo descrisse come «dichiaratamente bisessuale». La verità è che Freddie non fu mai un represso, ma nemmeno un «eccesso». Quanto basta per essere considerato un degenerato dagli islamici della nativa Zanzibar, ma non abbastanza per diventare un leader arcobaleno. Praticamente incline a canzonarsi da solo, indulgendo in espressioni ambigue («Sono una prostituta musicale»), benché arguto nel riferirsi a ciascun protagonista dei suoi flirt come a un «amante» (non un inequivocabilmente maschile boyfriend, bensì un indistinguibile lover). Scommetteremmo che, oggi, Mercury non darebbe man forte alle gang che perseguitano gli intellettuali non allineati, né inseguirebbe le deliranti mode degli asterischi e dei 33 gender per la carta d'identità. Lui non s'intestò mai battaglie politiche e altrettanto impolitica fu la sua band. Sì, Taylor è notoriamente un «compagno»; Brian May è un ecologista animalista e, nondimeno, sostiene alcuni esponenti Tory. John Deacon mal tollerava i riflettori, figuriamoci i comizi. Di Mercury si dice che, irritato dalle supertasse dei governi laburisti, si fosse risolto a votare per Margaret Thatcher (uno dei pochi parlamentari conservatori a schierarsi per l'abrogazione del reato di omosessualità). I Queen, tra le altre cose, furono costretti a ripulirsi l'immagine, suonando, nel 1985, al concertone pro Africa di Bob Geldolf, perché, qualche anno prima, erano saliti sul palco di Sun City, la città-resort simbolo dell'apartheid. Per soldi. Già all'epoca furono travolti dalle critiche; nel 2021, non sarebbero sopravvissuti alla scure del politicamente corretto. Al frontman del gruppo da oltre 150 milioni di dischi, l'ideologia interessava molto meno dell'arte. Voleva fare musica e la fece fino a che ebbe fiato in gola. The show must go on, cantò a squarciagola, nella sua interpretazione più tecnica e più struggente, per l'ultimo singolo pubblicato mentre era in vita. Il disco uscì il 14 ottobre 1991. Sei settimane dopo, l'uomo diventò per sempre mito.
Kim Jong-un (Getty Images)
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È stato pubblicato sul portale governativo InPA il quarto Maxi Avviso ASMEL, aperto da oggi fino al 30 settembre. L’iniziativa, promossa dall’Associazione per la Sussidiarietà e la Modernizzazione degli Enti Locali (ASMEL), punta a creare e aggiornare le liste di 37 profili professionali, rivolti a laureati, diplomati e operai specializzati. Potranno candidarsi tutti gli interessati accedendo al sito www.asmelab.it.
I 4.678 Comuni soci ASMEL potranno attingere a queste graduatorie per le proprie assunzioni. La procedura, introdotta nel 2021 con il Decreto Reclutamento e subito adottata dagli enti ASMEL, ha già permesso l’assunzione di 1.000 figure professionali, con altre 500 selezioni attualmente in corso. I candidati affrontano una selezione nazionale online: chi supera le prove viene inserito negli Elenchi Idonei, da cui i Comuni possono attingere in qualsiasi momento attraverso procedure snelle, i cosiddetti interpelli.
Un aspetto centrale è la territorialità. Gli iscritti possono scegliere di lavorare nei Comuni del proprio territorio, coniugando esigenze professionali e familiari. Per gli enti locali questo significa personale radicato, motivato e capace di rafforzare il rapporto tra amministrazione e comunità.
Il segretario generale di ASMEL, Francesco Pinto, sottolinea i vantaggi della procedura: «L’esperienza maturata dimostra che questa modalità assicura ai Comuni soci un processo selettivo della durata di sole quattro settimane, grazie a una digitalizzazione sempre più spinta. Inoltre, consente ai funzionari comunali di lavorare vicino alle proprie comunità, garantendo continuità, fidelizzazione e servizi migliori. I dati confermano che chi viene assunto tramite ASMEL ha un tasso di dimissioni significativamente più basso rispetto ai concorsi tradizionali, a dimostrazione di una maggiore stabilità e soddisfazione».
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Roberto Occhiuto (Imagoeconomica)